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martedì 30 novembre 2010
Fine
"Se dovessi essere costretto a una vita che non è vita, la farei finita anch'io". Mario Monicelli me lo disse anni fa, a casa sua nel rione Monti. Erano i giorni del caso Welby. Sembrava più una presa di posizione intellettuale di un grande laico che non una confessione personale. A novant'anni era ancora bellissimo, elegante, ironico, sempre dentro qualche battaglia. L'altro giorno era ancora in piazza a protestare contro i tagli alla cultura. Questa notte ha deciso lui dove mettere la parola fine. Con Monicelli se ne va un genio e un maestro del cinema, anche se entrambe le definizioni l'avrebbero fatto sorridere.
"Appartengo ancora a una generazione dove si diventava registi di cinema soltanto perché non si era capaci di scrivere un bel romanzo. Potendo scegliere, avrei continuato a cercare d'imitare Dostoevskji". Si è ucciso come il padre Tomaso, giornalista di gran talento. Da giornalista aveva cominciato anche Mino e diceva di non aver mai smesso. Sempre curioso, polemico, informatissimo, divoratore di notizie grandi e piccole.
Nessuno come Monicelli ha indagato tanto e descritto meglio gli italiani dal dopoguerra a oggi. E' stato il nostro Balzac, l'autore di una gigantesca commedia umana degli italiani, attraverso decine di film, spesso capolavori. Titoli e storie che conoscono tutti, entrati nel linguaggio comune per descrivere l'oroscopo dei caratteri nazionali. L'elenco mette i brividi, dagli inizi col Totò di "Guardie e Ladri" a "I soliti ignoti", da "La grande guerra" a "I Compagni", e poi "L'Armata Brancaleone", "Amici miei", "I nuovi mostri", "Il marchese del Grillo", "Speriamo che sia femmina". Senza contare i film definiti minori dalla critica, come "Risate di gioia" o "Romanzo popolare", che da soli valgono più di alcune decine di presunti capolavori da festival.
Monicelli ha inventato la commedia all'italiana nel '58 con "I soliti ignoti" e ne ha dichiarato la fine vent'anni dopo con "Il borghese piccolo piccolo". In mezzo ha fabbricata l'unica epica di cui disponiamo, tragicomica, amorale, ma grande. Da parte sua, era quanto di più lontano dai suoi personaggi si potesse immaginare. Anti retorico, moralista, sempre a schiena dritta, con un profondo credo nei suoi valori laici, socialisti, libertari, antropologicamente antifascista. E' paradossale che un anti italiano tanto fieramente minoritario abbia ottenuto un tale immenso successo. Frutto, secondo Monicelli, anche di un significativo fraintendimento. "Ho quasi sempre descritto personaggi mostruosi. All'estero si stupiscono che gli italiani li trovino tanto simpatici".
Non credeva nella religione. Diceva che gli sarebbe piaciuto credere negli dei greci perché erano tanti, cialtroni ma allegri, mentre "il dio della Bibbia è in assoluto uno dei personaggi più cupi della letteratura mondiale". Sul set dell'ultimo film, "Le rose del deserto", girato a novant'anni, in condizioni ambientali eroiche anche per un trentenne, confessò di non avere paura della morte, ma del giorno in cui avrebbe smesso di lavorare. Come sempre, era la verità.
di Curzio Maltese; la Repubblica
sabato 27 novembre 2010
Il complotto che non c'è
Non ce n'eravamo accorti, ma è in atto un complotto mondiale contro l'Italia. Lo abbiamo scoperto ieri da una nota ufficiale del Consiglio dei ministri. E pensare che era lì, sotto gli occhi di tutti. Come abbiamo potuto ignorarlo? Le immagini dei rifiuti di Napoli sulle prime pagine dei giornali americani: un complotto (forse un fotomontaggio). Come il crollo del tetto di Pompei trasmesso nei tg cinesi, che hanno deliberatamente ignorato la vera notizia: che gli altri muri erano rimasti in piedi. Tutto si tiene, è talmente evidente: i rifiuti, Pompei, l'inchiesta per corruzione che ha investito Finmeccanica. E, aggiungiamo noi, la neve prevista per domani: una manovra meschina dei meteorologi, anche se il governo per ora non vi ha fatto cenno. In compenso ha citato i documenti riservati che il sito Wikileaks si accinge a pubblicare in Rete.
Riguarderebbero gli Stati Uniti e decine di altri Paesi, fra cui il nostro. Eppure solo qui si grida al complotto. Perché tutti ce l'hanno con noi. Obama, Putin, la Merkel, il comitato centrale del partito comunista cinese al completo. Si alzano la mattina e pensano soltanto a come danneggiare quel colosso di efficienza che dalle sponde del Mediterraneo minaccia di invaderli. Abbassando un po' la voce per non essere intercettati dal nemico, ci permettiamo di suggerire ai nostri governanti qualche contromossa spiazzante. Togliere la spazzatura dalle strade di Napoli: d'incanto nessun giornale americano ne parlerà più. Fare di Pompei la Disneyland dell'archeologia, così i cinesi ci manderanno i turisti invece che i cronisti. E ogni tanto aprire le finestre nei palazzi della grande industria di Stato, affinché anche i concorrenti che vi penetrano animati dalle peggiori intenzioni non riescano a trovarvi troppa puzza di bruciato.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
lunedì 22 novembre 2010
mercoledì 17 novembre 2010
Ex
Gli elenchi declinati da Fini e Bersani in tv non erano elenchi ma frasi fatte. Invitati a usare il linguaggio evocativo delle «classifiche», i due hanno tracimato nel comizietto, confermandosi politici di un altro secolo. Destra e sinistra sono termini ormai pigri per definire quel che ci succede. Le ideologie da cui prendono le mosse si suicidarono entrambe nel Novecento. Quando, dopo aver conquistato il potere con l’obiettivo di cambiare l’essere umano, lo condussero nei lager e nei gulag. Da allora destra e sinistra hanno rinunciato a qualsiasi velleità di palingenesi. Non puntano più a migliorare l’individuo, stimolandolo a essere più responsabile (la destra) e più spirituale (la sinistra). E di fronte allo sconquasso del mondo - con la ricchezza che abbandona l’Europa e gli Usa per spostarsi altrove - si limitano a narrazioni consolatorie dell’esistente.
L’ex destra, che da noi è berluscoleghista (Fini rischia la fine del vecchio Pri, che piaceva a tutti ma votavano in pochi), invita gli elettori ad andare orgogliosi di ciò che la destra detestava: l’aggiramento delle regole e il disprezzo della cultura, sinonimo di snobismo improduttivo. L’ex sinistra continua a raccontarsi la favola che l’italiano medio sia vittima di Berlusconi, mentre l’italiano medio è Berlusconi, solo più povero. Così si ritorna al punto di partenza: la società non cambia se vince un leader o un altro. Cambia se cambiano gli individui. Ma è un lavoro duro: più comodo continuare a scornarsi fra destra e sinistra, illudendosi che esistano ancora.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
martedì 16 novembre 2010
La tessera
Egregio Ministro Roberto Maroni, scusi se insistiamo ma la tessera del tifoso, così com'è, è del tutto inutile. Non solo: penalizza le persone per bene, i padri di famiglia (come da numerose lettere che ci stanno arrivando). Non è vero che è servita per debellare la violenza negli stadi: già lo scorso anno c'era stato un calo di incidenti e se adesso la situazione è migliorata (ed è vero che è migliorata) il merito principale è della maggiore attenzione e organizzazione di alcune questure. Mi riferisco in particolar modo a quella di Roma: si sono disputate partite delicate come il derby e Lazio-Napoli senza incidenti (inoltre rispetto allo scorso anno sono raddoppiati i Daspo). Si è disputato il derby di Sicilia, Palermo-Catania, con la presenza dei tifosi etnei: merito del comportamento dei tifosi, delle due questure e anche dei presidenti Zamparini e Pulvirenti. La tessera del tifoso che c'entra? Niente, egregio Ministro: anche perché di fatto i questori l'hanno abolita, non ne tengono assolutamente conto. Altrimenti avrebbero problemi ancora maggiori di quelli che già hanno. Soprattutto con le trasferte dove il settore riservato alle tifoserie ospiti (quelle con tessera del tifoso) è quasi sempre deserto mentre i tifosi non tesserati si mischiano con i sostenitori di casa, creando (a volte) grossi problemi. Se ne è accorto lo stesso Maroni (era ora...): "Stiamo monitorando queste situazioni, dobbiamo intervenire sugli irriducibili che non vogliono la tessera e vanno in trasferta ma non siedono nel settore ospiti: ma nel complesso i risultati sono positivi". Gli irriducibili, come li chiama Maroni, sono la stragrande maggioranza dei tifosi che vanno in trasferta: che facciamo, li lasciamo a casa?
Intervenuto ai microfoni de La Politica nel Pallone di Gr Parlamento, Maroni ha annunciato anche l'intenzione di voler inserire la legge sugli stadi nel decreto sicurezza: "Ho presentato il decreto per la sicurezza stadi che prevede l'estensione della flagranza differita, poi c'è la legge sugli stadi che è ferma in Parlamento da troppo tempo e non si capisce perché: spero di inserire questo pacchetto in sede di conversione del decreto". La legge adesso è all'esame della commissione cultura della Camera: va avanti con lentezza esasperante dall'11 maggio scorso. "Gli stadi di proprietà aiuterebbero anche sul fronte della sicurezza", ha detto Maroni: e ha ragione ma non sembra che i club siano particolarmente preoccupati, a parte qualche presidente che già fiutava il business...
"I feriti sono diminuiti del 50% e del 40% il numero degli incontri con incidenti, mentre la media degli spettatori è aumentata nonostante il calendario spezzatino", ha ribadito Maroni in radio. Il ministro ha anche assicurato di volere "eliminare reti e barriere negli stadi fra campo e tribune entro il 2013. Lo stadio deve essere luogo di gioia e non di separazione". Giusto: ma lasci perdere la tessera del tifoso che non serve a nulla.
Intanto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che reintroduce l'arresto in flagranza differita - scaduto lo scorso 30 giugno - per i tifosi che commettono reati entro 48 ore dagli eventi, sulla base delle riprese video. Vengono poi ampliati i compiti degli steward, chiamati a "servizi ausiliari dell'attività di polizia, relativi ai controlli nell'ambito dell'impianto sportivo" e se ne rafforza la tutela penale. E di questo va dato atto a Maroni.
di Fulvio Bianchi; la Repubblica
Vai via con loro
Per "Vieni via con me", Fazio-Saviano su Raitre, seconda puntata, sono cifre pazzesche (posto che usiamo l'Auditel come parametro): 9 milioni e 31 mila telespettatori, 30.21% di share. E' come se una parte consistente d'Italia, dimenticata dalla tv del dolore, delle lacrime, della cialtroneria, fosse stata finalmente accontentata. Chi non guardava più la tele, è tornato a guardarla. Il bacino del pubblico da conquistare è enorme. Se in Italia siamo quasi 60 milioni, contiamone 55, e 15 seguono in media la tv, c'è una spaventosa fetta di pubblico tutta da scoprire. Questa è la sfida accolta da Fazio. E questa non è politica, è spettacolo. E, come dicono gli americani che nel genere la sanno lunga, "there is no business like show business".
di Alessandra Comazzi; LA STAMPA
domenica 14 novembre 2010
Pompei
Il telegiornale tedesco informa con sobria soddisfazione come Angela Merkel, al G20, abbia trattato da pari a pari con i Grandi del mondo. Poi, dopo alcuni istanti, sullo stesso schermo il panorama muta drasticamente: un amaro servizio dall’Italia parla di Pompei che si sbriciola, metafora della società italiana che si sfalda. L’accostamento mediatico dei due eventi colpisce. Dopo la fase della critica, dello sdegno, del sarcasmo verso il nostro Paese, è rimasto soltanto lo stupore che chiede - invano - spiegazioni. Chi avrebbe immaginato l’abisso che nel giro di pochi anni si sarebbe creato tra Germania e Italia, a livello di opinione e di immagine pubblica? Chi poteva prevedere l’attuale indifferenza reciproca delle classi politiche?
E l’enorme fatica dei rapporti culturali? La stagione dei rapporti costruttivi tra Germania e Italia - al di là delle ovvie differenze -, la stagione politica degli Andreotti e dei Genscher, per citare due testimoni viventi, sembra preistoria.
Conosco le irritate reazioni degli alti funzionari ministeriali a quanto sto dicendo: elencano i comunicati degli incontri bilaterali italo-tedeschi, rituali e sempre più rari. O l’elenco delle manifestazioni di arte e spettacolo. O le cifre degli ottimi rapporti commerciali tra i due Paesi. Certo, gli affari vanno bene e l’arte italiana attira sempre. Ma è nettissima la percezione che si è rotto qualcosa di profondo.
Conosciamo le ragioni storiche oggettive di quanto è accaduto nell’ultimo quindicennio: il mutato equilibrio geopolitico in Europa che ha portato la Germania verso un nuovo ruolo continentale e ha spinto l’Italia alla periferia Sud-europea. L’allargamento dell’Ue, che ha declassato l’Italia tra le nazioni di media rilevanza. Ma dietro queste spinte e fatti oggettivi ci sono uomini e politiche di governo che hanno la loro responsabilità.
Da un lato c’è la Germania della Merkel che sta orientando autorevolmente di fatto la politica europea senza pretendere di comandarla. Dall’altro c’è l’Italia (post) berlusconiana che arranca per non precipitare nel vuoto. Ma non è più soltanto un problema di prestazione economica, bensì di tenuta spirituale (se mi è consentito questo impegnativo termine, diventato obsoleto).
Non è colpa di un solo uomo ma della compartecipazione di una classe politica, di un ceto dirigente e della complicità di una parte consistente della società civile. Ora l’edificio si sta sfaldando?
La metafora di Pompei-Italia, diventata mediaticamente potente, merita di essere presa sul serio.
Mettiamoci nei panni dello spettatore tedesco che guarda con doloroso stupore all’accaduto. Gli viene detto che la colpa è del governo che ha tagliato indiscriminatamente i fondi per il mantenimento del patrimonio artistico; viene messo sotto accusa il ministro dei Beni culturali, che si difende in modo maldestro e patetico; si denuncia la incompetenza delle autorità locali preposte. Ma lo stato d’abbandono e di degrado dell’area di Pompei (messa impietosamente in luce dai media ma da tempo ben nota ai visitatori) mostra un livello di indecenza e di diseducazione civica che va ben oltre la responsabilità dei singoli amministratori. È la metafora della società italiana - indifferenza e inciviltà alla base, incompetenza nell’amministrazione, incapacità della politica.
Da che parte incominciare per invertire la rotta? Dal vertice? Se si cambia un governo rivelatosi incapace, si rimette tutto a posto? L’eccesso di personalizzazione che ha caratterizzato la politica di Berlusconi rischia di trasformarsi in un boomerang di aspettative eccessive per un suo ipotetico allontanamento.
Per questo l’opinione pubblica tedesca è sconcertata. Non riesce a capire che cosa sta succedendo a Roma e si chiede se è davvero pronta una nuova classe politica capace e competente per un dopo-Berlusconi frettolosamente preannunciato. Questa nuova classe politica può uscire dalla composizione attuale del Parlamento? O saranno necessarie nuove elezioni? E se invece tutto si ricompattasse come prima?
Il pubblico tedesco è in attesa. In altri tempi la solidarietà tra le «famiglie politiche» europee - democristiana, socialista e anche verde - avrebbe portato spontaneamente a forme di consultazione e sostegno reciproco. Ora non è più così. Gli italiani sono soli. E sotto scettica osservazione.
di Gian Enrico Rusconi; LA STAMPA
venerdì 12 novembre 2010
giovedì 11 novembre 2010
Sveglia!!!
Quando era soltanto un leghista, Roberto Cota poteva reggere il posacenere di Bossi o sostituirsi a esso con mani d’amianto. Poteva persino sventagliare la nuca del suo signore come uno schiavo nubiano. Ma da alcuni mesi Cota è alla testa di una Regione italiana di una qualche importanza: il Piemonte.
Questo significa che, qualsiasi cosa faccia, non è più il leghista che la fa, ma il governatore del Piemonte. E Cavour non combinò tutto quell’ambaradan perché i suoi eredi finissero a reggere il posacenere del pronipote di Alberto da Giussano in una prefettura di Vicenza dove tra l’altro sarebbe pure vietato fumare.
È legittimo che Cota nutra per il suo futuro progetti ambiziosi, come reggere il posacenere al prossimo presidente della Repubblica Padana. Però, nell’attesa che più alti destini si compiano, dovrebbe almeno far finta di rappresentare la Regione che lo ha votato. Per quanto possa sembrargli strano, Cota incarna un’istituzione. Quindi via le camicie, le cravatte, i fazzolettini verdi. E i posacenere, per favore, sul tavolino.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
martedì 9 novembre 2010
Vieni via con me (II)
Benigni esausto che canta «E’ tutto mio» è stato un gran pezzo di televisione. E «Vieni via con me» è stato soprattutto teatro in televisione. Quelle tre ore di elenchi, monologhi, canzoni, sembravano ciò che di più antitelevisivo si possa dare, in questi video-tempi veloci e affrettati, fatti di slogan e non di ragionamenti. Il programma di Fabio Fazio ha invece riscoperto il valore della parola. Non a caso, di sfondo, stavano le pietre millenarie di un teatro greco. Con orgoglio intellettuale, il riferimento non detto era al Verbo, «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Orgoglio ma non presunzione, perché la presunzione è fatta di improvvisazione e di superficialità e di scarsa conoscenza dei mezzi propri e altrui. Fazio invece è così: si prepara, e cerca il meglio su piazza, inseguendo il pensiero trasversale. In fondo fu lui a portare Gorbaciov e il Nobel Dulbecco sul palcoscenico di Sanremo. Ebbe un successo ancora ineguagliato, pure quantitativo, e in fondo quel Festival segnò la via.
Canta Daniele Silvestri il fondamentale brano di Gaber «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono», e a poco a poco la parola «italiano» trascolora e diventa «Saviano». Fazio aveva cominciato questo spettacolo che è una citazione di Paolo Conte, con una serie di elenchi alla Hornby, i buoni motivi per costruire una moschea a Torino, i mestieri di una giovane neolaureata. Poi è arrivato Nichi Vendola a dire i modi in cui si può definire l’omosessuale. E Abbado ha elencato i motivi per cui è sbagliato tagliare i fondi alla cultura.
All’Italia e alla mafia era dedicato il monologo di Saviano, lungo una buona mezzora. Mezzora è molto lunga in tv. Lui l’ha saputa gestire con foga oratoria, richiami a Falcone e Borsellino, la lucida indignazione sulla macchina del fango, che ricopre chi si schiera «contro questo governo. Viene attaccata la vita privata, e chi deve scrivere ha paura. Così si attacca la libertà di stampa, di informazione». Luci splendide, primi piani gloriosi. Poi è arrivato Benigni: «Poiché io non prendo il mio cachet, spero che Masi rinunci allo stipendio». Battute battute battute, e una narrazione di una lucida analisi comico politica, culminata nella canzone «E’ tutto mio». Battuta migliore. «Dice Bersani di Berlusconi: bisogna abbatterlo politicamente: la prossima voglia bisogna beccarlo con una minorenne del pd».
di Alessandra Comazzi; LA STAMPA
Vieni via con me
Come dimostrano gli ascolti (superiori al previsto, e quasi otto milioni non li fa ormai più nessuno, per di più su Raitre) quello che fa imbestialire i censori interessati del gruppo Fazio & Saviano è l'accorgimento usato nell'allestire un programma popolare. Nel senso che ieri sera si capiva tutto quello che dicevano in tv. E con una formula che, in senso lato, è quella del vecchio varietà coi numeri uno dopo l'altro. E con quelli bravi sulla piazza. Tutto che stride maledettamente con le accuse di snobismo, ingaggi miliardari, cuori a sinistra e portafogli a destra etc etc. Comunque un riscontro che i talk-show se lo sognano, almeno finché non porteranno in trasmissione Ruby, Nadia e le altre, e a patto che facciano qualche numeretto.
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In prima pagina sul Giornale una (legittima) reprimenda del direttore Alessandro Sallusti contro Fazio&Saviano&Benigni. Ma il respiro è più ampio, salvo fermarlo un attimo di fronte al fatto che Sallusti sostiene di non percepire, testuale, "il vento che nasce dalla pancia del paese". Sembra un ribaltamento di vecchi slogan rivoluzionari, con la differenza che quella destinata a seppellire il potere stavolta non è esattamente una risata. Non siamo ancora al "Turatevi il naso e votate Berlusconi" ma non ci siamo mai andati così vicini.
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A X-Factor si esibisce Edoardo Bennato. Alla fine Facchinetti lo avvicina per una breve intervista, Bennato
si lancia nella disamina del programma e dei talent-show, ricorda che oltre trent'anni fa lui mise in guardia tutti i Pinocchio della terra a stare attenti al Gatto e la Volpe, che ti fanno firmare i contratti e poi "noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai/noi sapremo sfruttare le tue qualità". E poi Bennato si rende conto che il discorso in quella sede diventa scivolosissimo e chissà che, e a quel punto ci si mette tutti a parlare d'altro.
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Ciucciati il tigiuno
"Quanto agli ascolti abbiamo sofferto molto il successo dei Simpson" (Augusto Minzolini al Corriere della Sera)
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Il concorrente: "Queste cene nel Peloponneso poi finivano con atteggiamenti collettivi promiscui"
Gerry Scotti: "Bunga Bunga!!"
(Chi vuol essere milionario, Canale 5)
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"Lei era un sex symbol anche da giovane?" (Daria Bignardi a Ferruccio De Bortoli, Le invasioni barbariche, La7)
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"E' in arrivo una temibile minaccia terroristica che nasce dall'unione di due sette fondamentaliste. Una è islamica, l'altra sono i Testimoni di Geova". Si fanno chiamare I Fondamentalisti di Geova e minacciano di far esplodere i citofoni nelle case la domenica mattina. (Gene Gnocchi, Raitre)
di Antonio Dipollina; la Repubblica
giovedì 4 novembre 2010
Cavoli a merenda
Davvero fosforica l’idea concepita dal Festival di Sanremo per i 150 anni dell’Italia unita: eseguire sul palco «Bella ciao» e «Giovinezza», rispettivamente colonna sonora della Resistenza e dei pestaggi squadristi. Erano italiani anche quelli, no? Come l’olio d’oliva e l'olio di ricino, la Costituzione e le leggi razziali. Ah, le forzature della par condicio! Perché le due canzoni non sono proprio la stessa cosa. «Bella ciao» è la torva nenia dei partigiani rossi ed evoca cosacchi a San Pietro e santori ad Annozero. Invece «Giovinezza» trasuda ottimismo spensierato: ti mette subito voglia di afferrare un manganello e scendere in strada a sgranchirti un po’. Come dite, organizzatori del Festival dell’Ipocrisia? «Giovinezza era l’inno della goliardia toscana del primo Novecento». Ma certo. E' per questo che è famosa. E’ per questo che volete trasmetterla in eurovisione. Per rendere omaggio a quel fenomeno ingiustamente sottovalutato che fu la goliardia toscana del primo Novecento. E «Faccetta nera» allora, era lo slogan di una crema abbronzante?
Peccato che tanti italiani saliti in montagna o internati in Germania dopo l'8 settembre non siano più qui a commentare questo gemellaggio ardito (in ogni senso): vi avrebbero spiegato la differenza fra «Bella ciao» e «Giovinezza» meglio di me, anche se con toni meno ilari. Provo a condensare il loro pensiero: il fascismo è stato un regime dittatoriale precipitato in catastrofe, non può essere banalizzato in questo modo. In nessun modo. Vi sembrerà incredibile, ma non tutto fa spettacolo nella vita.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
Tutto ok!
Ok, non c'è parolina al mondo più abusata. E, ok, duecento pagine per una storia da due lettere potranno sembrare troppe. Ma quella sillaba che ha fatto il giro del pianeta non è forse la più grande invenzione americana? Allan Metcalf, segretario dell'American Dialect Society ha contato quante volte appare sul web. E si è accorto che era come riempire il mare col secchiello: l'uso dell'ok è universale. E pensare che nacque per scherzo e a strapparlo dall'oblio ci pensò una campagna elettorale...
Una vicenda che lo storico della lingua ha ricostruito nel suo Ok: The Improbable Story of America's Greatest Word, in libreria il 9 novembre. Il papà di quella parolina, Charles Gordon Greene, non pensava certo che avrebbe avuto fortuna: altrimenti l'avrebbe brevettata. L'editore del Boston Morning Post creava abitualmente acronimi per i suoi lettori: una lingua per fedelissimi in fondo simile a quella usata oggi su internet. Mister Greene inzeppava i suoi articoli di "NG" cioè no go, non andare. "GC", gin cocktail e perfino "raotflmmfaoiaatkflmm", "rolling around on the floor laughing my motherf ing ass off in an attempt to keep from losing my mind": modo bizzarro per dire che non conteneva le risate. Finché, il 23 marzo 1839, in una disputa con il rivale Providence Journal gli scappò quel "o. k." che, specificò, significava "all correct". Ma perché con la O e con la K?
L'abbreviazione scorretta, arguisce Metcalf, era simile alla pronuncia. Come altre abbreviazioni usate sul giornale: per esempio "ow" per all right, tutto bene. Non staremmo qui a parlarne se però non ci fosse di mezzo un presidente. Leggenda vuole che l'inventore dell'ok sia stato il populista e massacratore d'indiani Andrew Jackson: che i suoi avversari accusavano di essere un illetterato. Nel 1828 produssero una sua finta e sgrammaticata lettera che ottenne l'effetto opposto: una valanga di voti. Non ci sono prove che siglasse davvero ok, oll korrect, i documenti. Ma certo sdoganò l'uso della K al posto della C.
Fu un altro presidente a dare popolarità a quella parolina: Martin van Buren nel 1840 in cerca di secondo mandato. Veniva da Kinderhook, New York. E i suoi sostenitori lo chiamarono OK, Old Kinderhook, che nel nuovo significato stava anche per l'uomo giusto. Fu una campagna elettorale spettacolare. La sillaba campeggiò su ogni cartello, battezzò nuovi club. E una rissa diede vita al suo contrario, K.O.: che stava per kicked over, espulsi, e non per il pugilistico knock-out. Da allora Ok è diventata abbreviativo diffuso fra i telegrafisti prima e i telefonisti poi.
Il cinema ci ha messo del suo e Ok è diventato così popolare da essere la prima parola pronunciata sulla Luna. E quella che ha preceduto l'azione eroica di Todd Beamer nell'affrontare, l'11 settembre 2001, i terroristi del volo 93 che si schiantò in Pennsylvania. Fino all'ultima rivoluzione: i messaggini telefonici che hanno amplificato all'infinito il suo uso. Del resto, provateci voi a trovare una parolina più efficace: ok?
di Anna Lombardi; la Repubblica
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