venerdì 27 maggio 2011

Meditate, gente, meditate (almeno con il senno di poi)

Una genialata di Roberto Placido,
vicepresidente del Consiglio regionale piemontese.

martedì 24 maggio 2011

Le pagelle di Gene

http://www.youtube.com/watch?v=yw3bwbwL46w&feature=relmfu

Realpolitik

E’ un vero peccato che la campagna elettorale per il ballottaggio a sindaco di Milano si sia conclusa con una settimana d’anticipo e con un risultato a sorpresa: Letizia Moratti ha perso, ma non è stata sconfitta dal suo competitore Giuliano Pisapia, ma da se stessa. Perché potrà anche riuscire a compiere l’impresa disperata di superare il candidato del centrosinistra, lunedì prossimo, ma a un prezzo che non bisognerebbe mai accettare di pagare, quello di rinnegare il proprio passato politico, le scelte programmatiche fatte e tante volte rivendicate, i valori in cui si è creduto o si è detto di credere e, soprattutto, tradendo la fiducia di coloro che per quei valori l’hanno eletta a loro rappresentante.

I segnali di fastidio e di distacco con i quali i moderati milanesi avevano risposto, col risultato del primo turno, ai toni estremistici e spregiudicati usati dalla candidata di Berlusconi e Bossi alla rielezione a sindaco di Milano, evidentemente, non sono bastati.

Così la Moratti, in questi giorni, ha inanellato una serie di promesse demagogiche che non solo contraddicono le decisioni più significative del suo precedente mandato, ma assumono caratteristiche che, nei cittadini più anziani, ricordano le scarpe spaiate offerte da Achille Lauro ai napoletani degli Anni 50 e, in quelli più giovani, i mirabolanti impegni elettorali dell’Antonio Albanese di «Qualunquemente».

L’Ecopass, la Ztl, le strisce blu e gialle sulle strade di Milano sono il segno più visibile e concreto della passata amministrazione milanese. Decisioni discutibili, certo, ma che sono nate dalla consapevolezza dei problemi d’inquinamento ambientale e di mobilità urbana nel centro storico. Ora, con una contraddizione clamorosa rispetto alle intenzioni dichiarate dalla Moratti, quelle di «raccontare ai cittadini le tante cose buone fatte a Milano», il sindaco uscente le rinnega. Con la sconcertante promessa di condonare le multe dei milanesi che hanno violato le disposizioni da lei stessa impartite.

Quale opinione la Moratti pensa possano avere di questi atteggiamenti proprio quegli elettori moderati che, fedeli al principio del rispetto della «legge e dell’ordine», hanno osservato le regole? A quale Milano si rivolge? Non crede di offendere, così, l’onestà e il civismo dei suoi concittadini? Soprattutto non ritiene di offendere se stessa, il suo passato di impegno pubblico, dalla presidenza Rai al ministero dell’Istruzione? Compiti svolti con risultati controversi, ma sempre con dignità e mai segnati da cotanto cinismo politico.

E’ con amarezza che occorre constatare l’impossibilità di assistere a una battaglia elettorale, a Milano, come si poteva prevedere: tra un galantuomo garantista di sinistra come Pisapia e una gentildonna di destra come la Moratti. E questa volta, non si può essere così ipocriti e falsamente equidistanti da non segnalare per colpa di chi un clima di civile competizione sia stato compromesso. Con altrettanta amarezza dispiace come la grande tradizione liberale, moderata e anche conservatrice di Milano si possa sentire abbandonata. Un passato che ricorda figure di cattolici come Filippo Meda, Gallarati Scotti, Giuseppe Toniolo, e di laici come Luigi Albertini e Giovanni Malagodi.

La deriva finale della Moratti sulla via dell’estremismo verbale e della demagogia elettorale più incontrollata può sorprendere chi credeva di conoscerla, ma corrisponde, purtroppo, agli atteggiamenti della coppia Berlusconi-Bossi di questi tempi. Il primo sembra non aver capito che le mosse a sorpresa, sul calare dell’ultimo gong nella campagna elettorale, possono essere efficaci le prime volte. Non più quando vengono ripetute dopo che gli elettori hanno constatato i risultati di quelle promesse. L’esempio più calzante è quello dell’abolizione totale dell’Ici. Una decisione che ha messo in difficoltà tutti i Comuni, costretti o a tagliare i servizi o a ricevere dallo Stato, attraverso le tasse, rimborsi che si sono tradotti in una sostanziale «partita di giro». Risultati ancora peggiori, proprio nell’opinione dei moderati italiani, hanno altre promesse berlusconiane, come quelle di lasciare mano libera all’abusivismo edilizio in Campania.

Il pericolo maggiore, sul piano nazionale, è, però, un altro. Le necessità elettorali, le traballanti maggioranze governative alla Camera, le incognite di un’ultima parte della legislatura che si presenta molto difficile potrebbero indurre Berlusconi a compiere una tale pressione su Tremonti da costringerlo a indebolire la ferrea difesa dei conti dello Stato fin qui esercitata dal ministro dell’Economia. Con la situazione internazionale che caratterizza questi mesi e che si potrebbe aggravare nei prossimi mesi, a partire dalla tenuta dell’euro, il rischio è grave. Tremonti, infatti, si potrebbe trovare in una posizione, per lui, del tutto insolita. Il suo più fedele sostenitore, Umberto Bossi, potrebbe unirsi al presidente del Consiglio, questa volta, nel sollecitarlo a una linea di minor rigore. Perché, quando i consensi calano, come sono calati quelli della Lega negli ultimi tempi, le promesse s’alzano. A cominciare da quelle più estemporanee, come lo spostamento di qualche ministero a Milano. Perché quella che una volta era una grande capitale morale possa divenire anche una piccola capitale ministeriale.

di Luigi La Spina; LA STAMPA

sabato 14 maggio 2011

Deficit dignitoso

Piccola chiosa al caso Scajola che non va a processo, non ha commesso reati, non fa parte della cricca (e bisogna esserne sinceramente contenti). Comprò casa con vista sul Colosseo. La pagò un terzo del prezzo di mercato. Disse che invece il prezzo era giusto. Gli si fece notare che era un prezzo ridicolo. Si scoprì che altri ci avevano messo la differenza. Disse: l’hanno fatto a mia insaputa. Si commentò: o non è sincerissimo o non è intelligentissimo. Il problema, come sempre, non è il codice penale: uno la dignità ce l’ha o non se la può far dare dalla magistratura.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Da non crederci

Da giorni sto aspettando che qualcuno mi dica che non è vero. Che non è vero che domenica scorsa, a Torre Annunziata, la processione del santo patrono si sia fermata davanti alla casa di un noto camorrista della zona per rendergli pubblico omaggio. Che non è vero che l’arcivescovo di Castellammare, monsignor Felice Cece, abbia minimizzato la sottomissione della sua comunità al signorotto feudale, affermando che la sosta non intendeva omaggiare il camorrista, oh no, ma la chiesa di Santa Fara. Che non è vero che l’arcivescovo abbia continuato ad arrampicarsi sui muri, nonostante il sindaco Luigi Bobbio gli avesse prontamente replicato che la chiesa di Santa Fara si trova dieci metri prima della casa del camorrista e che rimane chiusa quasi tutto l’anno. Ma soprattutto sto aspettando che qualcuno mi dica che non è vero, non può essere vero, che la conferenza dei vescovi italiani (Cei) - dotata di riflessi felini quando tratta di intervenire su coppie di fatto, fine vita o fecondazione artificiale, all’alba del quinto giorno dagli incredibili avvenimenti di Castellammare non abbia ancora sentito il bisogno di far sentire pubblicamente la sua voce. Anche solo per ricordare che Gesù non è morto in croce per andare a inginocchiarsi duemila anni dopo davanti alla porta di un camorrista.

Per favore, qualcuno mi dica che tutto questo non è vero. Che siamo in un Paese evoluto abitato da cittadini e da arcivescovi evoluti. Vero?

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 11 maggio 2011

Turin

Vedi Piero Fassino, 192 centimetri per 65 chili, avvinghiato in una mazurka al Circolo anziani di Mirafiori a una madama tonda che pretende pure il casché e ti chiedi dove mai si scorgano le vestigia dell'azionismo, anzi del "gramsciazionismo" torinese, che agita le notti sudate di Giuliano Ferrara, antico capogruppo del Pci in Consiglio comunale nei primi anni Ottanta. Niente "Visi pallidi", niente "Pazzi malinconici", come li chiamò il qualunquista Guglielmo Giannini, né qui né alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove al fianco di Marella Agnelli il candidato sindaco incontra la borghesia cittadina: Gianluigi Gabetti, il notaio Antonio Maria Marocco, Roberto Testore. Soltanto Ferrara può far finta di credere che tentare di preservare quel che resta un sistema di valori civili insidiati dal berlusconismo agonizzante sia la riedizione del partito che non c'è, il "Partito di vipere", come qualcuno lo chiamò, riesumato sessant'anni dopo da una pattuglia di intellettuali snob, ricchi e moralisti. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale e animatore di Libertà e Giustizia, non chiede che di conservare l'identità centocinquantennale, uno degli autentici valori aggiunti della Torino post-fordista che, elaborato il lutto della crisi manifatturiera, come lo definisce Fassino, si incammina sulla via di aspirante capitale della cultura, degli eventi e del turismo. Ma senza dimenticare il monito di Walter Mandelli che fu vicepresidente della Confindustria: l'importante è "fè i toc", non abbandonare la manifattura, scongiurare la desertificazione industriale. Di azionismo torinese, Fassino ha solo la voglia di vincere e vincere subito, al primo turno, come si diceva ai tempi di quel gruppo di intellettuali che fece la Costituzione, ma che alle elezioni non vinse mai.

Vedi Michele Coppola, trentasettenne assessore regionale alla Cultura ricciuto e di bell'aspetto, di modi ed eloquio civilmente pacati, così insoliti nel suo schieramento, candidato sindaco dell'ultimo momento per il Pdl, e ti dici che da quelle parti non è tutto "populismo carismatico", non è tutto rissa sgangherata, come vorrebbero il capo e i suoi pretoriani alla La Russa e Verdini. Oppure è la Torino della Curia, delle caserme, della borghesia e della classe operaia che tutta intera rifiuta i toni da osteria, perché la politica è una cosa seria e richiede rigore subalpino, anche se per origini della popolazione è la terza città del sud dopo Napoli e Palermo. Non è vero - sostiene Gianni Vattimo - che se non sei antropologicamente come Berlusconi sei subito uno snob. Se non fosse per il ministro Michela Vittoria Brambilla, che - non si sa quanto gradita - lo accompagna alla Società Canottieri Armida, il giovanotto apparirebbe come un'iconcina di sano moderatismo. Più che ai grandi disegni, votato alle piccole cose: i cimiteri per cani e gatti, i nonni vigili urbani. Anche senza la Brambilla bisticciano i suoi capi, pur promettendo di non mettersi "le dita negli occhi". E il candidato educato ne fa le spese: "A Torino vincerà Fassino", lo gela Roberto Rosso, figliol prodigo azzurro, dopo aver pendolato verso Fini, e appena premiato con un sottosegretariato. Accusa la gestione del partito in Piemonte e l'"esuberante" Enzo Ghigo, ex presidente della Regione, da un decennio suo carissimo nemico. Il quale replica: "Forse Rosso non si ricorda di essere appena rientrato nel Pdl. Si occupi dell'Agricoltura e lasci perdere Torino, che non è di sua competenza".

Vedi Alberto Musy, professore universitario poco più che quarantenne, candidato del Nuovo Polo centrista, e senti senza urla da salotto tv ricette non banali per abbattere il debito comunale, che ha toccato qualcosa come 3 miliardi e mezzo, con un costo d'interessi di 150 milioni l'anno. Sergio Chiamparino, che sull'attenti in Piazza Castello rende onore ai gonfaloni degli alpini con il cappello da artigliere da montagna, mentre a lui rende onore persino il presidente leghista della Regione Roberto Cota, che definisce Fassino "una corazzata", ma il sindaco uscente "una corazzata con più appeal", spiega che quel debito enorme non è uno spreco, ma un investimento sul futuro post-fordista della città. E' come il mutuo di una famiglia risparmiatrice che compra casa. Persino Beppe Grillo, che candida Vittorio Bertola, si trattiene un po' rispetto ai suoi comizi urlati e artisticamente allucinati: chiede un paio di consiglieri comunali solo per "disinfettare" la Sala Rossa del Comune.

Chi venga da Milano e da Napoli, dove infuriano faide sanguinose, ha come l'impressione di una campagna elettorale non solo in sottovoce subalpino, ma un po' pallida, perché il vincitore è dato per scontato. Lui, il Grissino torinese che ha scelto come gadget un pacchetto di grissini "Gran Torino", ha come ripreso vita negli ultimi tre mesi. Dalle cene al fianco della vedova dell'Avvocato, salta al Lingotto da Sergio Marchionne e John Elkann, agli incontri con i banchieri, i nuovi poteri forti della città, incarnati da Angelo Benessia e Fabrizio Palenzona. "Quando nel 1983 fui eletto segretario della Federazione del Pci di Torino - ci racconta - l'avvocato Agnelli mi invitò a pranzo a casa sua in collina e mi disse: 'Fassino, volevo conoscerla meglio, perché in questa città ci sono due poteri, io con la Fiat e lei con i miei lavoratori'. Erano i tempi della città-fabbrica, che ha funzionato per un secolo. Oggi, elaborato il lutto della crisi, la Fiat non è più il motore di tutto in una città che è scesa da un milione e 200 mila a 900 mila abitanti, imboccando per salvarsi la via di una vocazione plurale. Manifattura sì, ma anche cultura, finanza, terziario avanzato, università, cinema, jazz, movida, turismo". Una metamorfosi che va completata, ma attraverso una "terziarizzazione" che non deve essere "povera" per non indebolire ulteriormente l'economia in termini di Pil rispetto a Milano.

Il meglio di sé, più che nei saloni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, alla Crocetta o in collina, il sindaco annunciato lo dà nel mercato popolare di piazza Bengasi, oltre il Lingotto, dove esibisce una superba conoscenza toponomastica della città nel rispondere ai desiderata di una folla che chiede di mettere mano a Torino nord, il cui degrado è più evidente ora che il centro è tornato un salotto, e agli altri quartieri operai lasciati indietro. La città borghese sfolgorante persino dopo l'invasione degli alpini e quella operaia chiusa in una barriera più resistente del muro di Berlino. " Come anduma?", " Certo che la metropolitana la fuma". A un popolo di torinesi con accento indelebile di Cerignola o di Castellamare, che chiede di imbellettare anche le sue periferie, di renderle più sicure e di creare lavoro per i suoi figli disoccupati ultratrentenni, consegna in torinese una campagna elettorale vecchio stile, che incuriosisce anche i neo-torinesi marocchini, moldavi, peruviani, romeni, egiziani, cinesi, nigeriani e di ogni altro continente che l'assessore Giovanni Maria Ferraris ha quantificato in 129.086. Una città nella città.
"Memoria, il seme del futuro": passati gli alpini, domani l'inesauribile memoria subalpina riparte con il tema del Salone del Libro. L'unica cosa di cui nell'ex capitale non si ha memoria è una competizione elettorale cittadina con 12 candidati sindaci, 37 liste elettorali e 1.500 aspiranti al Consiglio comunale. I sondaggisti, che con Fassino credevano di avere qui un lavoro facile facile, tremano.
di Alberto Statera; la Repubblica

martedì 10 maggio 2011

Senza vergogna

Non votatelo, please

Beppe Grillo non ama molto che gli si ricordino le sue frasi. Come tutti i politici, preferirebbe il diritto all'oblio. Ma qui si sono già raccolti gli stupidari di altri capi partito e quindi ci perdonerà se lo sottoponiamo, per par condicio, allo stesso trattamento.

Dibellerò anch'io il cancro
«Mongolfier aveva scoperto il volo: è stato il primo, Mongolfier. Ha gonfiato un pallone e volare era gonfiare qualche cosa più leggero dell'aria: l'autorità diceva quello! Un giorno arrivanoi fratelli Di Bella (i fratelli Wright) con l'aereo, e han detto: "guardi che anche noi riusciamo a volare". "Ma non dica cazzate!" "Guardi che voliamo". "Va bene, facciamo il protocollo". Han preso l'aereo e han cominciato a gonfiarlo, e han detto: "Ma che cazzo dice, vede che non vola?"
(1998. L'inefficacia della cura Di Bella è stata unanimemente accertata l'anno successivo)

Nobel e Ignobel
«Vecchia puttana».
(2001, a Rita Levi Montalcini, insinuando che la scienziata torinese avesse ottenuto il Nobel grazie a una ditta farmaceutica che materialmente le aveva comprato il premio)

Il nuovo che avanza 1
«E' quattro anni che mi sono comprato il computer. Clicco, io non sono della società del click, questi lavorano con l'indice, noi apparteniamo alla società del pollice: con gli attrezzi, noi ci siamo separati dall'orango per il pollice, l'orango non riesce a prendere un attrezzo, noi sì».
(2000, spaccando un computer durante il suo spettacolo. Cinque anni dopo aprirà un blog)

Il nuovo che avanza 2
«Un computer pesa quindici chili, per farlo occorrono quindici tonnellate di materiali. Ogni sei mesi lo buttiamo nella spazzatura. E' la tecnologia più pesante che esista».
(2000, sempre durante la crociata luddista)

Nessuno mi può mai più dire niente
«Io, Beppe Grillo, ne ho piene le tasche di dovermi giustificare. Oggi vi dirò delle cose su di me, sulla mia vita privata, su alcune illazioni. Lo faccio oggi e poi basta. Ho avuto un incidente di macchina nel 1980, guidavo io, mi sono salvato per miracolo, ma sono morte tre persone che erano con me e sono stato condannato per omicidio colposo a un anno e tre mesi».
(2005, sull'incidente di Limone Piemonte)

L'Aids non esiste
«Veltroni va là e scopre i malati di AIDS. Arriva qui e ci ha la soluzione: dice cazzo, l'Aids, bisogna mettere a tutti il preservativo! E lo dice uno che è dieci anni che il preservativo ce l'ha sulla testa e non se ne accorge. Allora, lui non dice che sull'Aids ci sono dei seri sospetti che sia una bufala».
(1998)

Biocarburanti sì, anzi no
«In Italia si preferisce far chiudere chi offre alternative al petrolio. Alternative verdi, meno inquinanti, meno costose. La Alcoplus di Ferrara che produce biocarburanti chiuderà. Società come la Alcoplus che vanno moltiplicate: una, cento, mille Alcoplus»
(2007)
«Il costo del grano, del riso, della soia sta crescendo. Il valore delle azioni delle aziende che producono biocarburanti aumenta. I campi producono etanolo al posto del pane. Il cibo crea energia meccanica, non più umana. Le macchine vengono sfamate, i poveri del mondo tirano la cinghia. Il biocarburante genera un surplus azionario per le aziende dell'energia. L'assenza di cibo crea invece i morti di fame».
(2008)

E' una palla, compratela
«Io l'ho provata. La mia famiglia usa Biowashball da due mesi e anche le famiglie di alcuni miei amici. Per noi funziona. Prima di dare un giudizio vi consiglio di usarla, magari in prestito da un conoscente. In Rete ci sono centinaia di testimonianze di utenti italiani soddisfatti».
(2008. L'efficacia della "Biowashball" viene successivamente smentita da numerosi studi: la pallina non solo lava come farebbe l'acqua semplice ma potrebbe addirittura provocare un accumulo di muffe e batteri nella lavatrice).

Sono un martire del comunismo
«La Cina ha oscurato la mia immagine. Un cittadino cinese che volesse vedere Beppe Grillo ottiene questo risultato dalla versione cinese di Google. Nel resto del mondo la mia faccia invece si vede ancora». (2006. La notizia si rivela immediatamente una bufala, dovuta ad un errore nel metodo di ricerca su Google adottato dallo stesso Grillo).

Che schifo

Vorrei spezzare una lancia, o almeno una pancia, a favore del povero Scilipoti, ingiustamente elevato da noi pennivendoli a simbolo del mercato delle vacche di piazza Montecitorio. Nel rimpasto di ieri il capo dei Responsabili ha rimediato soltanto un esilarante inno di partito, composto da una sottomarca di Apicella, che sta facendo il giro di tutte le radio come antidepressivo. Ben diverso il destino del compare Antonio Razzi, cresciuto anche lui alla corte di Di Pietro (l’ex magistrato non ha gran fiuto nella scelta degli uomini, gli vengono quasi meglio i congiuntivi). Razzi. Quello che sei mesi fa diceva «io ho una faccia sola: come potrei farmi vedere ancora in giro, se passassi con Berlusconi?» e poi è passato con Berlusconi, faccia compresa.

Quello che denunciava «il Pdl ha persino proposto di pagarmi il mutuo» e da neo-alleato del Pdl ha presentato una proposta di legge per togliere l’Ici agli italiani residenti all’estero, cioè a se stesso. Quello che, sistemata la casa, voleva arredarla con una poltrona, «un posticino, qualcosa per dire grazie». E ieri il posticino è arrivato: consigliere personale del ministro dell’Agricoltura, il corresponsabile Romano. Razzi dovrà occuparsi di lotta alla contraffazione alimentare. Cautamente sondato sulle sue esperienze in materia, il neo-consigliere ha risposto: «Sono un buongustaio e soprattutto un buon cuoco: a tempo perso, aiuto mia moglie in cucina». Perché il vero tratto distintivo di questa casta di macchiette non è più nemmeno l’incompetenza. E’ la mancanza di vergogna.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 5 maggio 2011

La forza delle immagini

'Gnazio

Sorprende che il ministro La Russa non conosca Lukashenko. Un esperto di calcio come lui. Non è forse il centravanti della Dinamo Kiev? Tornando seri, si fa per dire, sorprende che un alfiere della destra anticomunista ignori l’esistenza dell’ultimo dinosauro sovietico ancora al potere (in Bielorussia). La scenetta di Ballarò era davvero gustosa: l’affannato La Russa che si gira verso un portaborse per chiedere lumi sul tizio appena evocato in diretta da Casini nella lista dei loschi figuri frequentati all’estero dal nostro premier. Naturalmente un ministro della Repubblica non è tenuto a conoscere a memoria i nomi di tutti i Presidenti e di tutte le capitali del mondo, né la densità della popolazione e la superficie in metri quadrati. Ma Lukashenko non è uno qualsiasi, è l’unico dittatore europeo in attività, giornali e dispacci diplomatici si occupano spesso di lui. Il problema è trovare il tempo per leggerli. E quel tempo, onestamente, La Russa non ce l’ha. E’ sempre in tv, e quando non è in tv è in camerino che si trucca per andare in tv, e quando non è in camerino è al telefono per un’intervista, e quando non è al telefono è a un convegno, e quando non è a un convegno è a una sfilata per farsi fischiare, e quando non è a una sfilata è allo stadio per vedere l’Inter, è quando non è allo stadio è perché ci sta arrivando su un aereo di Stato. Quando lo trova, un uomo tanto impegnato, il tempo per leggere, per studiare o addirittura per pensare?

Non è il solo a vivere così male. Ma certo a lui riesce particolarmente bene. Ha il physique du rôle, digiamocelo.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 3 maggio 2011

Vivo o morto

Giustizieremo i nostri nemici, o li assicureremo alla giustizia. Giustizia sarà fatta», così si concludeva il discorso alla nazione di George W. Bush dopo gli attentati dell’11 Settembre. «Giustizia è fatta», ha detto ieri notte Barack Obama.

Tra le due frasi sono trascorsi dieci anni, la guida degli Stati Uniti è passata dai repubblicani ai democratici, la guerra in Iraq è cominciata e poi finita, ma il nemico numero uno dell’America era rimasto lo stesso.

Oggi noi europei possiamo stupirci che il premio Nobel per la Pace abbia usato la stessa frase del suo predecessore, da cui a lungo ha preso le distanze, ma negli Stati Uniti in festa nessuno ha avuto questa sensazione. Così come possiamo provare disagio di fronte a chi grida la sua gioia in piazza alla notizia che un uomo, anche se è il peggiore dei terroristi, è stato ammazzato. L’idea che la mente dell’attacco più sanguinoso della storia andasse eliminata per chiudere una ferita ha però sempre unito destra e sinistra, giovani e vecchi. Perfino l’Obama più idealista, quello che in campagna elettorale prometteva la chiusura di Guantanamo e il ritiro da Baghdad.

L’uomo che teorizzava la fine dell’uso della tortura negli interrogatori, quello che parlava di diritti civili e della necessità di ricostruire l’immagine dell’America, ha sempre messo in cima alle sue priorità la cattura di Osama bin Laden. Ricordo il candidato democratico di fronte a una platea di studenti universitari, che innalzavano cartelli pacifisti, concludere il suo discorso con l’assicurazione che se fosse stato eletto avrebbe preso il leader di Al Qaeda «vivo o morto». Ricordo gli applausi dei ragazzi, l’ovazione per quella promessa.

Proprio i giovani sono stati i primi a scendere in piazza, quella generazione che è cresciuta nella sofferenza dell’11 Settembre, nella sensazione della sconfitta e della paura, che, dopo il crollo delle Torri, ha visto quello della finanza e ora vive la minaccia del sorpasso cinese.

Bin Laden era il simbolo della vulnerabilità dell’America, dell’inizio del tanto discusso declino, dell’incapacità di rialzare davvero la testa. La morte dello sceicco saudita chiude psicologicamente il decennio peggiore della storia recente degli Stati Uniti, al di là di ogni considerazione sul pericolo di nuovi attentati e sul fatto che il terrorismo di matrice islamica non è certo debellato. Tanto che ieri i poliziotti sono tornati a presidiare ogni fermata della metropolitana e i militari nelle stazioni e negli aeroporti.

Ma ogni considerazione e ogni commento sono sterili se non tengono conto del dolore che l’11 Settembre ha creato in tutta l’America, come ha ricordato Obama nel suo discorso, non si è trattato soltanto della cifra ufficiale dei morti ma di tutto quello che non si è visto: «La sedia vuota di una famiglia a tavola, i bambini costretti a crescere senza la madre o il padre, i genitori che non proveranno mai più l’abbraccio di un figlio». La reazione a cui abbiamo assistito ieri era la testimonianza del valore della memoria, del fatto che i quasi tremila morti non sono stati dimenticati.

Non c’è newyorchese che non abbia avuto una vittima da ricordare tra gli amici, i parenti, i colleghi di lavoro o i vicini. Nel condominio accanto a quello cui abitavo a Manhattan, ogni anniversario del crollo del World Trade Center, veniva messa all’ingresso la foto di una ragazza che lavorava ai piani alti della Torre Nord, tutte le famiglie lasciavano un biglietto con un loro breve racconto. Chi le comunicava che nella casa negli ultimi dodici mesi c’era stato un nuovo nato, un matrimonio, una laurea o che qualcuno se n’era andato. I foglietti scritti a penna sulla carta dei quaderni non avevano niente di burocratico ma erano pieni di vita e di amicizia.

Per capire la profondità della ferita dell’11 Settembre ho avuto bisogno di conoscere Carrie Lemack, la sua storia mi ha insegnato molto di più delle immagini degli attentati, degli uomini e delle donne che volavano giù dai due grattacieli e dell’odore acre che per settimane aveva invaso New York. La mamma di Carrie si chiamava Judy Larocque, aveva 50 anni e guidava una piccola società di marketing per Internet. Viveva in campagna a mezz’ora di macchina da Boston e, oltre alle due figlie, aveva tre passioni: lo yoga, il suo grande roseto e Naboo, un golden retriever con cui camminava per chilometri ogni giorno intorno a Lake Cochituate, una riserva d’acqua dolce che per oltre un secolo ha dato da bere alla capitale del Massachusetts.

La mattina dell’11 Settembre era salita sul volo numero 11 dell’American Airlines, diretta a Los Angeles, e la sua vita sarebbe finita, insieme a quella di altre 91 persone, alle 8 e 46 nell’impatto con la Torre Nord. Alle figlie non rimase neanche un corpo da seppellire: la spiegazione tecnica fu che era stato vaporizzato dal calore dell’esplosione. Carrie andò ad abitare nella casa con il roseto, che smise di fiorire, si prese cura del cane, dedicò la panchina con la migliore vista sul lago alla madre e diventò una delle più attive sostenitrici della creazione della Commissione d’indagine sugli attentati. Quattro anni fa ricevette una lettera che la invitava a recarsi a New York: nei lavori di ristrutturazione di un palazzo vicino a Ground Zero avevano trovato dei frammenti di una tibia che il Dna aveva stabilito appartenevano proprio a Judy. Le consegnarono una scatola che si tenne sulle gambe nel viaggio di ritorno in treno fino a Boston. La seppellì sotto il roseto. Qualche mese dopo l’ho incontrata e mi ha raccontato che il roseto aveva ripreso a fiorire.

di Mario Calabresi; LA STAMPA

Troppo facile...

«Giustizia è fatta!» ha proclamato il Presidente degli Stati Uniti nell’annunciare al suo Paese e al mondo che Osama bin Laden è stato ucciso. Confesso che i sentimenti che mi abitano come cristiano e come cittadino di un Paese che non contempla nel proprio ordinamento la pena di morte sono contrastanti.

Da un lato c'è la soddisfazione legata alla uscita di scena di una persona che, per sua stessa ammissione, ha seminato morte e odio, ha avvelenato la comprensione della religione, usandola come droga per esaltare la violenza, ha inquinato mortalmente la convivenza civile e i rapporti sociali, a livello locale e planetario.

D’altro canto il Vangelo, ma anche la mia coscienza umana, non mi autorizzano a rallegrarmi per la morte di un essere umano, fosse anche il più malvagio sulla terra, fosse anche il nemico mortale che ha attentato alla vita delle persone più care. Non si tratta di evocare l’esortazione cristiana al perdono - argomento su cui a lungo si è riflettuto dopo l’epifania del male assoluto nei campi di sterminio nazisti - ma di riconoscere con gravità e amarezza che la morte di una persona non è mai motivo di gioia: forse di sollievo, perché ormai quel malvagio non potrà più nuocere, anche se il seme dell’odio gettato non smette per questo di crescere; forse è fonte di appagamento di quel desiderio di vendetta che abbiamo vergogna di confessare e che ci affrettiamo a nobilitare con il termine di giustizia; forse è occasione di rinnovato rimpianto per le vittime della violenza omicida e per non aver saputo fermare prima quello strumento di morte. Ma gioia no, quella non l’ho sentita nascere in me nell’apprendere la notizia dell’uccisione di Bin Laden e non vorrei vederla sul volto di un altro uomo, un uomo come me, un uomo come lo era Bin Laden. Come cristiano penso a Bin Laden ora in giudizio davanti a Dio: quel Dio il cui nome ha bestemmiato per seminare morte e predicare la guerra, quel Dio creatore degli uomini e protettore della vita cui ha dato un volto perverso e mortifero.

E mi è anche difficile fare mie le parole del presidente Obama: «Giustizia è fatta!». E non perché ritenga che l’unica giustizia sia quella divina, che il giudizio autentico sia solo quello che ci attende tutti al cospetto di Dio. Ma perché rimango convinto che ogni essere umano è e resta più grande delle sue colpe, anche quando queste sono spropositate. D’altronde anche la rivelazione biblica e cristiana afferma riguardo all’immagine di Dio impressa in ogni essere umano: l'omicida può smarrire la somiglianza con Dio, ma non può perdere quell’immagine che Dio stesso ha voluto consegnare a ogni creatura umana, Caino compreso.

Ma anche della giustizia umana ho un concetto che non mi consente di vederla realizzata nell’uccisione mirata di un pluri-assassino: la cattura, il giusto processo, la messa in condizione di non nuocere di un criminale non richiedono necessariamente la sua soppressione fisica e non traggono da questa maggiore autorevolezza o efficacia. Sopprimere l’ingiusto non è ancora fare giustizia: perché giustizia, anche umana, sia fatta, a ciascuno di noi resta un compito che nessuna arma né squadra speciale può svolgere per conto nostro. Resta la vicinanza e la solidarietà con i parenti delle vittime della sua barbarie umana, resta il contrastare nel quotidiano le energie di morte che l’assassino ha scatenato, resta la ricostruzione di un tessuto umano e sociale vivibile, resta il rifiuto di rispondere al male con il male, resta la costruzione della pace con gli strumenti della pace, resta di proseguire tenacemente nell’operare ciò che è giusto. Davvero non basta che un malvagio sia annientato perché giustizia sia fatta.

di Enzo Bianchi; LA STAMPA

E' ancora lì

Però, la vecchia democrazia occidentale. Parte sempre male: lenta, litigiosa, tremebonda, confusa. Dittature e fanatismi le danzano intorno con baldanza sfrontata, esibendo idee chiare, rapidità d’azione, disciplina ferrea. Invadono le pianure della Polonia, sparano il primo uomo nello spazio, abbattono i grattacieli di Manhattan. La democrazia risponde con lo spettacolo desolante della sua impotenza. Balbetta, piange, si arrovella. Si mostra nuda e gonfia di piaghe allo sguardo dei suoi critici, che ne pronosticano i funerali imminenti. Ma passano i mesi, gli anni, talvolta i decenni, ed è ancora lì.

Che incassatrice formidabile, la democrazia. Difende la sconfitta e si riorganizza, rivelando riserve insospettabili di pazienza e talvolta anche di ferocia. Vince le guerre, conquista la Luna, stana i «cattivi» e non si vergogna di giustiziarli e di esultarne. Gli egoismi di cui è composta si raggrumano in qualcosa che non sarà mai il paradiso in terra, ma è pur sempre una comunità. Donne e uomini che non si sentono sudditi di nessuno e proprio per questo non inneggiano alla democrazia come a un totem salvifico, ma le restano affezionati. Ne sparlano e però poi la difendono: per poter continuare a sparlarne. Le dittature e i fanatismi sono emozioni violente e superficiali, che sorgono all’improvviso e all’improvviso si afflosciano. La democrazia invece è un sentimento. Scava nel profondo. Non fa battere il cuore. È il cuore. E il cuore, alla fine, vince sempre.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA

lunedì 2 maggio 2011

"Della morte non si gioisce"

Non le solite mozzarelle

Ho appreso da "Il fatto Quotidiano" del 13 aprile che lo "International Herald Tribune" aveva pubblicato una mia lettera molto polemica sulla guerra in Libia. Però si trattava dell'ennesima trovata di un signor X (non lo nomino perché immagino che faccia tutto quel che fa per farsi pubblicità) il quale si è specializzato in falsi, aveva in passato inviato ai giornali italiani pretese interviste con Gore Vidal, John LeCarré, Philip Roth e via dicendo, aveva messo on line un mio dialogo (ovviamente fasullo) con Abraham Yehoshua, e aveva creato un mio falso profilo Facebook - che aveva subito raccolto numerose offerte di amicizia, come pare accada tra i dissennati praticanti di questo sport quasi onanistico. Dagli amici ci guardi Iddio.

Pare anche che il signor X abbia inviato la falsa lettera allo "Herald Tribune" usando un mio presunto indirizzo di email aperto da lui stesso con grande facilità, ma nel contempo avesse accluso il suo (vero) numero di cellulare, che evidentemente nessuno aveva controllato. Solo nei giorni seguenti il giornale americano (colto da un sospetto) mi ha chiesto se la lettera fosse uno "hoax" (o bufala), ho risposto che lo era, e il giornale ha spontaneamente pubblicato una contrita smentita.

Su Internet trovo un lancio Adnkronos del 18 aprile che annuncia la scomparsa di Carlo Capponi, il bidello dell'Isola dei Famosi (?), e precisa: "Della sua esperienza all'Università di Bologna raccontava con fierezza: "Ho lavorato anche per Umberto Eco, gli giravo le pagine mentre firmava autografi"". Non ricordo di aver mai conosciuto il signor Capponi ma, se pure fosse avvenuto, difficilmente avrebbe potuto girarmi le pagine mentre firmavo autografi perché non sono mai stato così cafone da firmare autografi all'università, salvo che sui libretti di esame. Sempre in data 18 aprile, una rivista on line dal titolo allettante, "La perfetta letizia, Rivista giornalistica cattolica d'informazione e attualità", recensisce "Quisquilie e pinzillacchere" di Vincenzo Reda, "giunto alla sua seconda pubblicazione, introdotta dalla prefazione di Umberto Eco". Come è facile intuire non ho mai prefato questo libro (né conosco il Reda) ma la cosa non mi stupisce perché una volta un signore ha pubblicato come prefazione alla sua opera una mia lettera, neppure esageratamente cordiale, in cui declinavo la richiesta di una prefazione.

Sempre l'Adnkronos in data 15 aprile riferisce che, dopo il terremoto che ha investito l'Abruzzo, riapre al pubblico la torre di Rocca Calascio, "usata anche come set di "Il nome della Rosa"". Vedo anche la foto di questa bellissima fortificazione, che tuttavia non è stata usata per l'abbazia del film, ricostruita interamente a Fiano Romano. Ma viaggiando per Internet ho trovato molti monasteri che sono stati riconosciuti dai turisti come luogo della mia abbazia, e quindi le abbazie de "Il nome della Rosa" sono ormai come i chiodi della Croce.

Immagino che molti miei colleghi scrittori possano citare episodi analoghi. Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti. Però, se è difficile stabilire se una notizia su Internet sia vera, è più prudente supporre che sia falsa. A proposito di falso e autentico, il signor X dice che distribuisce i suoi falsi per dimostrare che non c'è più confine tra verità e menzogna. Ma si è visto che le sue bufale vengono subito scoperte. In un mio recente romanzo ho raccontato la storia di un falsario e di numerosi documenti mendaci prodotti dai servizi segreti di mezza Europa, e qualche recensore ha osservato (forse ossessionato dalla battaglia in atto contro il cosiddetto relativismo) che dove tutto è falso si perde ogni criterio di verità. Non ho mai letto un'affermazione così filosoficamente stupida. Per sostenere che qualcosa è falso bisogna ritenere (anche in termini di senso e linguaggio comune) che esista da qualche parte qualcosa di autentico. Sospettare che qualcosa sia falso significa avere una qualche nozione di verità. Ma forse questa è una posizione troppo sottile per i nemici del relativismo.

di Umberto Eco; l'Espresso