giovedì 28 luglio 2011

In galera!!!

Sono stato male interpretato. Ecco, se ne sentiva la mancanza di questa frase. Ieri un parlamentare europeo, uno degli esponenti più conosciuti di un partito che governa l’Italia - Mario Borghezio, Lega Nord - ha goffamente inviato le sue scuse alla Norvegia dopo che in una trasmissione radiofonica aveva spiegato di condividere al cento per cento le idee di Breivik, l’uomo che ha compiuto la strage a Oslo e nell’Isola di Utoya. Anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva definito «farneticanti» le affermazioni di Borghezio e lo aveva invitato a scusarsi con il popolo norvegese. Borghezio ieri lo ha fatto, ma a modo suo. Malgrado in ogni secondo si possano ascoltare le sue frasi su Youtube, Borghezio non ha affermato «scusate, ho detto una sciocchezza», «scusate, mi sono spiegato male», «scusate, forse era meglio se mi stavo zitto, provavo a non seminare altro odio e a rispettare maggiormente le vittime di questa immane tragedia». No, per scusarsi, ha sostenuto che le sue frasi sono state «illegittimamente travisate». Da chi? Da Youtube? Qui il problema non è il multiculturalismo. Qui il problema è la monocultura di chi non riesce, almeno quello, neppure a scusarsi davvero.

di Mauro Evangelisti; Il Messaggero

domenica 24 luglio 2011

R.I.P.

Gran Circo Bossi

Lo Zeligoverno continua imperterrito, come diceva Albertone nostro nella parte di Mario Pio. Il ministro Calderoli ha detto che i ministeri vanno decentrati, perché quello dell’agricoltura al centro di Roma è un controsenso, come lo sarebbe quello del lavoro a Napoli dove non saprebbero di cosa si parla. A proposito di lavorare: il ministro Bossi ha risposto a chi gli chiedeva del rimpasto “facci andare in vacanza, lascia stare il rimpasto”, versione postmoderna del ragazzo-lasciami-lavorare o del non-disturbate-il-manovratore che si leggeva sul tramvetto della Stefer.

di Piero Mei; Il Messaggero

La strage di Oslo

Poco prima dell’alba gli elicotteri volano bassi sul sottile specchio d’acqua che divide il paese di Sundvollen dal paradiso perduto di Utoya. I motori dei Sea King, che trasportano medici e infermieri, martellano l’aria col loro ritmo inquietante.

Su piccole barche bianche i pescatori e i volontari arrivati dai villaggi richiamati dal tam tam di Internet illuminano il profilo scuro del mare, ripercorrendo avanti e indietro gli ottocento metri che dividono le due coste. Recuperano i corpi che galleggiano sulla superficie. Maschere sfigurate, la pelle bianca, le spalle e la schiena bucate dalle pallottole. Ci sono brandelli di vestiti ovunque. Scarpe. Camicie. Cinture. Jeans. Genitori schiacciati dall’angoscia attendono notizie al Sundvollen Hotel, punto di raccolta degli scampati. Le grida sono continue. Una donna sviene. Un’altra vomita appoggiata a una panchina. Fa freddo, c’è un vento infido. La Norvegia scopre che cosa significa confrontarsi con l’Apocalisse.

Alle dieci del mattino il calcolo dei morti si fermerà a 85. Ne verranno altri. Ammazzati uno a uno. Come cani. Peggio dei cani. Colpiti, abbattuti, e spesso finiti con un secondo colpo in pieno volto dal delirio nazista di Anders Behring Breivik, 32 anni, single, esaltato ultranazionalista norvegese di buona famiglia, imprenditore agricolo e oltranzista cristiano capace di scatenare la devastante onda d’urto della sua intransigente mediocrità. Prima l’autobomba di Oslo. Poi il tiro al bersaglio con le armi automatiche nella trappola di Utoya. Raffiche da cinque, dieci colpi consecutivi.

Con una freddezza e un’indifferenza disumane.

Uno dei sopravvissuti, Edvn Rindhal, studente di Trondheim, racconterà di averlo sentito gridare: «Bastardi, vi uccido tutti, non avete diritto di stare al mondo». Così è cominciato il macello. L’eliminazione fisica di un gruppo di ragazzi tra i 16 e i 25 anni riuniti a Utoya per l’annuale meeting dei giovani laburisti.

Pulizia etnica

Nell’isola gli ospiti sono 560. Hanno piantato le loro tende nel parco da due giorni. Falò, notti passate suonando la chitarra e cantando vecchi inni della classe operaia, seminari sulle opportunità del Paese, progetti, sfide a pallavolo, un torneo di calcio. Una tradizione che dura da sessant’anni, un appuntamento imperdibile, su un’isola fatata e maledetta grande meno di un chilometro quadrato regalata al partito nel 1950. È lì, in mezzo alla foresta dei pini, che il centrosinistra forma la sua classe dirigente. La fonte dell’eterna giovinezza progressista. Il primo ministro Jens Stoltenberg ha passato qui ogni estate a partire dal 1979. «Qualcuno ha trasformato il paradiso della mia gioventù in un inferno. Ma neppure questo gesto riuscirà a cambiare la disponibilità della nostra nazione verso il resto del mondo».

Breivik, ossessionato dall’invasione islamica, dalla fusione delle razze, dalla trasformazione del sangue scandinavo in un miscuglio che gli dà il voltastomaco, vuole azzerare la prossima generazione di leader norvegesi. Colpire il sistema al cuore. Una carneficina immaginata come una pulizia etnica. «Una persona con un ideale ha la stessa forza di centomila che pensano solo ai propri affari», aveva scritto il 17 luglio su Facebook. La Lacoste blu, il colletto sollevato, il sorriso debole di un uomo ormai incapace di reggere il patetico scheletro della sua solitudine senza scampo.

Forse aveva un complice. Un uomo di cui parlano alcune testimonianze. Lui, interrogato ieri per tutto il giorno, nega. «Ero solo. Volevo fare della Norvegia un posto migliore. Possibile che nessuno si vergogni di quello che siamo diventati?».

«Sparava alla testa»

Alle quattro di notte una luce debole scava l’orizzonte. I corpi speciali setacciano l’isola di Utoya alla ricerca dei dispersi. Usano i cani. La zona è transennata. Un pescatore grida. L’acqua ha restituito un corpo. È un ragazzo moro, con una camicia gialla e due buchi nella schiena. Colpito alle spalle. Lo adagiano in un sacco trasparente. Chiudono la lampo.

Simen Branden Mortensen, guardiano del campeggio, racconta che Breivik si era presentato vestito da poliziotto a metà pomeriggio. «Mi ha detto: sono qui per controlli di routine dopo la bomba di Oslo. Mi ha fatto vedere un documento d’identità. Gli ho procurato una barca e l’ho mandato sull’isola. Dopo meno di cinque minuti ho sentito gli spari. Non me lo perdono».

Piove sempre più forte. Davanti al Sundvollen Hotel Elise, 15 anni, si nasconde sotto il cappuccio di una felpa rossa. Ha grandi occhi disperati. Trema. Ma non vuole andare in camera. «Voglio sentire che sono ancora viva». Come molti suoi amici è andata incontro all’assassino considerandolo un amico. Breivik richiamava la loro attenzione. «Ragazzi, venite qui, vi devo parlare». Un poliziotto norvegese non poteva essere un pericolo. «Invece ha estratto le armi da un sacca e ha sparato. Io sono fuggita. E mentre mi giravo ho visto che finiva un ragazzo ferito a terra. Gli ha appoggiato la pistola alla tempia. Gli ha fatto saltare la testa». Un incubo. Centinaia di colpi, una fuga collettiva verso nessun luogo. Il carosello dell’orrore. Dai cellulari e dai personal computer partono centinaia di richieste d’aiuto. «Fate presto. È pieno di morti». Qualcuno sale sugli alberi, molti si precipitano verso il mare. Elise si nasconde dietro una roccia. Chiama casa. «Papà mi detto: stai tranquilla, spegni il telefono e non farti sentire. Togliti la giacca colorata. Arriviamo. Stavo per scoppiare a piangere, ma mi sono bloccata perché ho visto i piedi dell’assassino spuntare sopra la mia testa. Era salito sulla roccia che avevo scelto come riparo. Guardava il mare e sparava. Mi sembrava di impazzire».

I colpi, l’acqua gelata, la paura, i vestiti pesanti e una costa troppo lontana risucchiano molte vite. Jorgen Benone dice che lui ha scelto una roccia perché anche le barche gli sembravano sospette. «Era un poliziotto che ci stava aggredendo. Ho pensato a un commando. Magari era arrivato proprio dall’acqua». Eskil Norgren non sa più dove è sua figlia. «Mi ha chiamato: papà scappo a nuoto. Le ho detto: no, l’acqua è gelata e saresti un bersaglio facile. Nasconditi nel bosco. Lei mi ha detto: va bene. Non ho più saputo nulla. Ma aspetto. So che tornerà». La polizia prova a stilare un primo elenco dei morti. Ci vorranno giorni per il bilancio definitivo. Sono troppi i ragazzi sfigurati, irriconoscibili.

«Diceva pietà, l’ha finita»

La mattanza dura 30 minuti. Tanto ci vuole prima che le squadre speciali sbarchino sull’isola. «Per noi era impossibile immaginare una cosa del genere. Non qui. Non in Norvegia», dice in lacrime il capo della polizia. Adrian Precon, una barba sottile che fatica ad arrampicarsi sul viso bambino, non riesce a smettere di strapparsi ciocche di capelli. Ha il busto fasciato. «Ho pensato: un norvegese non può uccidere altri norvegesi. Quando ho realizzato che mi aveva puntato la pistola contro ho cominciato a correre. Mi ha colpito alla spalla. Sono caduto a terra. Mi sono finto morto. Lui mi è passato vicino e non ha finito il lavoro. Credo che il freddo che ho addosso non se ne andrà mai più».

La sua amica Alyssa si è messa in ginocchio davanti a Anders Behring Breivik. L’ha implorato. «Ti prego. Sono giovane». Breivik le ha scaricato una raffica addosso. Poi ha calpestato una fila di cadaveri. Quando le guardie speciali lo hanno circondato ha buttato a terra le armi e si è consegnato senza fare resistenza. Sulla faccia aveva una smorfia malata. Ha offerto le mani alle manette e ha detto calmo: «Ho fatto quello che dovevo. Adesso vi spiego tutto».

di Andrea Malaguti; LA STAMPA

Tutti hanno diritto ad un faccendiere

martedì 12 luglio 2011

Il mondo è bello perché è vario

Ritorna prepotente la discussione sulla nuova legge elettorale. Farla o non farla? E se sì, quale? Naturalmente Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione simpatizzano per il proporzionale alla tedesca, nel Pd i più sono favorevoli a un modello ungherese su cui non sappiamo dettagliarvi, però Pannella con Parisi vuole il sistema francese con collegi uninominali, mentre Tremonti con Calderoli intende conservare il Porcellum. E Berlusconi? Lui domenica, a villa La Certosa, con un paio di amiche ha saggiato il doppio turno alla sarda.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Svergognati ipocriti

Sibari, che chiede di diventare capoluogo vantandosi di produrre «l'agrume migliore del mondo, le clementine», può tornare a sperare. E così Breno, 5.014 abitanti, capitale dei Camuni e della Valcamonica. E con loro Cassino e Guidonia, Busto Arsizio e Nola, Pinerolo e Melfi e tutte le altre aspiranti metropoli che sognano di avere finalmente lo status: cos'hanno meno di Tortolì e Lanusei, che capoluoghi già sono?
La bocciatura alla Camera della proposta di legge costituzionale per sopprimere le Province è il via libera ai cattivi pensieri e alle piccole megalomanie coltivate dai notabili locali. E a un nuovo incremento di quegli enti che già un secolo fa l'allora sindaco di Milano Emilio Caldara bollava come «buoni solo per i manicomi e per le strade», ma che da 59 che erano nel 1861 (il criterio era semplice: ciascuna doveva poter essere attraversata in una giornata di cavallo) sono via via saliti a 110. Garantendo oggi 40 poltrone presidenziali al Pd, 36 al Pdl, 13 alla Lega, 5 all'Udc, 2 a Mpa e Margherita e così via.
Dicono oggi quanti hanno votato contro la proposta dipietrista (leghisti e pidiellini, con molte dissociazioni) o l'hanno affossata astenendosi (i democratici, nonostante i «malpancisti») che non si possono affrontare questi temi con l'accetta, che occorre riflettere sui vuoti che si creerebbero, che è necessario stare alla larga dalle «tirate demagogiche» e così via... Insomma: pazienza. Tutti argomenti seri se questi pensosi statisti non li avessero già svuotati in decennali bla-bla.
Soppresse già alla Costituente dalla Commissione dei 75, ma resuscitate dall'Assemblea in attesa delle Regioni, le Province avevano quella data di scadenza: il 1970. Ma quando le Regioni arrivarono, Ugo La Malfa invocò inutilmente la soppressione dei «doppioni»: il Parlamento decise di aspettare il consolidamento dei nuovi enti. Campa cavallo... Quarant'anni dopo, non c'è occasione in cui il problema non sia affrontato con il rinvio a un «ridisegno complessivo», a una «riscrittura delle competenze», a una «grande riforma» che tenga dentro tutto.
Basti rileggere quanto decise la Camera il 12 ottobre 2009 quando finalmente, per la cocciutaggine di Massimo Donadi e dell'Italia dei Valori, l'abolizione delle Province, sventolata in campagna elettorale da Silvio Berlusconi e, sia pure con accenti diversi, da Walter Veltroni, arrivò finalmente in Aula. La delibera di Montecitorio diceva che la riforma degli enti locali era «urgente e necessaria al fine di rimuovere la giungla amministrativa e di ridurre i costi della politica», denunciava la «proliferazione di innumerevoli enti» e «un intreccio inestricabile di funzioni che genera inefficienza e rende difficile la decisione amministrativa» e rinviava tutto al sorgere del mitico sole dell'avvenire berlusconian-federalista. E cioè alla «imminente presentazione di un disegno di legge recante la Carta delle autonomie locali».
Da allora sono passati, inutilmente, altri due lunghi anni e mentre la crisi azzannava i cittadini, gli artigiani, le piccole e grandi imprese causando crolli apocalittici, disperazione e suicidi, i palazzi del potere davano qui una sforbiciatina del tre per cento, lì del tre per mille. E quelle epocali riforme che dovevano ridisegnare tutto per restituire al Paese la forza, l'efficienza, la stima in un classe dirigente credibile, tutte cose necessarie per affrontare questi tempi bui, dove sono? Sempre lì torniamo: taglia taglia, hanno tagliato i tagli.
 
di Gian Antonio Stella; IL CORRIERE DELLA SERA