«Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Se n’è andato con il suo
scrittore preferito sulle labbra, Carlo Fruttero. E con un sorriso, perché nelle
ultime settimane sorrideva sempre. Sorrideva e viaggiava. Chiudeva gli occhi e
andava in Inghilterra, in Cina, in Giappone, ma anche a Passerano e a Canelli.
In posti dove non era mai stato e in altri che non visitava da tempo. Cosa ci
andasse a fare, lo sapeva soltanto lui. Quando tornava indietro, non si perdeva
nel racconto dei particolari. Diceva solo che aveva visto una certa strada, una
certa faccia, un ricordo oppure un sogno ancora mai sognato. Aveva fretta di
partire di nuovo. «La borraccia, riempitemi la borraccia. E la valigia. È pronta
la mia valigia? Insomma, sbrigatevi. Quando mi portate via di qui? Devo fare un
altro viaggio, devo andare a Torino!».
Da quando si era trasferito
definitivamente in Maremma, nel comprensorio in cui tanti anni prima aveva
comprato casa accanto all’amico Italo Calvino, Torino era di continuo nei suoi
pensieri.
Come La Stampa . Ne aveva sempre qualche copia sul
letto, ma se volevate davvero fargli un regalo, bisognava portargli l’edizione
locale, quella con le pagine della cronaca cittadina. Ah, era uno spettacolo
vederlo spuntare dalle lenzuola per avvolgersi in quei fogli di carta che
parlavano di quartieri e personaggi nei quali aveva ambientato i suoi romanzi,
ma soprattutto la sua vita. Non c’era storia minore che non attirasse la sua
curiosità. Tanto a farla diventare maggiore ci pensava lui, chiosandola con un
aneddoto o una riflessione che la elevavano a fatto universale.
Non aveva
paura di morire, Carlo. Era solo preoccupato dalla difficoltà dell’impresa. «Non
pensavo che andarsene sarebbe stato così lungo» ha continuato a ripetere fino a
ieri. Proprio lui che amava gli articoli e le frasi brevi. Dal giorno in cui me
lo ha insegnato, applico ai miei testi il famoso emendamento Fruttero: «Nel
dubbio, togli. Togli sempre. Cominciando dagli aggettivi». Togliere ogni peso
superfluo alle parole, alle relazioni umane e ai pensieri era il suo modo di
essere leggero rimanendo profondo: la lezione di Calvino.
Non aveva paura
di morire, ma ne sentiva la responsabilità verso i vivi. Le figlie, i nipoti,
gli amici, i lettori. Persino verso di me. Mentre scrivevamo la storia d’Italia
in 150 date, era lui a mettermi fretta. «Ho il timore di andarmene prima della
fine e di lasciarti a metà strada. Che so, nel ’38 o nel ’72…». La sentiva anche
verso il suo Paese: «Stanno arrivando tempi duri. Bisogna che io non muoia. Non
posso prendere congedo proprio adesso. Sarebbe una fuga. Ma vedrai, ce ne
tireremo fuori anche stavolta. Non dimenticarti chi siamo… L'Italia,
no?».
La morte, avrebbe detto Marcello Marchesi, lo ha colto vivo.
Ultimato da settimane il suo necrologio, stava dettando un altro libro alla
figlia Maria Carla, talmente in sintonia con lo spirito del padre da saperne
interpretare anche i sospiri. La biblioteca ideale di Carlo Fruttero: una sorta
di giro del mondo in 80 titoli di cui ragionava da tempo con Fabio Fazio e che
sarebbe stato, e mi auguro sarà, il suo testamento culturale.
Non era un
provinciale, come non lo sono i torinesi che hanno i piedi per terra ma la testa
alta e gli occhi capaci di guardare lontano. Eppure quest’uomo che ha letto e
amato libri scritti in tutte le lingue del mondo, ultimamente aveva riscoperto i
classici di quella che era la sua patria, bene o male. Si era preso una
autentica cotta per Pinocchio - «un innamoramento senile», scherzava - mentre
quella coi «Promessi Sposi» era una lunga e solida storia d’amore che di recente
aveva conosciuto un ritorno di passione.
«Il Manzoni… bisogna leggerlo,
assolutamente». Lo ha ripetuto fino all’ultimo, fino alla partenza del viaggio
che non lo porterà più a Torino ma in un altrove che gli auguro sia lieve con
lui e come lui. Avrei altri cento aggettivi per salutarlo, ma qui scatta
inesorabile l’emendamento Fruttero. Così ne salvo uno solo, il suo preferito.
Leggero.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA