mercoledì 28 aprile 2010

Il mondo alla rovescia

Un signore anziano dall’aria mite viene trascinato in auto da uomini col passamontagna sul viso, mentre sull’altro lato della strada centinaia di persone piangono, si disperano, urlano il suo nome.

Sembra l’incubo kafkiano di ogni persona perbene. Invece è il dramma di Reggio Calabria, parte dello Stato italiano da 150 anni, dove la gente blocca il traffico per applaudire il padrino della ’ndrangheta Giovanni Tegano invece della polizia che lo ha appena arrestato.

Le foto di quella folla sono un trattato di sociologia. Bulli addobbati come Corona, con le braccia tatuate e gli occhiali da sole rovesciati. Bambini inerpicati sulle spalle dei padri, affinché possano godersi meglio lo spettacolo. E donne di ogni genere che strillano ai poliziotti: «Così traumatizzate i ragazzi!», quasi che il trauma sia la cattura del boss, non i suoi delitti. Poi dalle retrovie si solleva un urlo solitario, ripetuto ossessivamente come uno spot: «Tegano uomo di pace!». Dicono sia sua cognata. Nessuno si erge a zittirla e meno che mai a contestarla. E’ evidente che le sue parole sono condivise in quel contesto dove lo Stato è un ospite impiccione che ogni tanto si fa bello con qualche arresto, ma non incide nella vita di ogni giorno. Non dà lavoro a tuo figlio - l’uomo di pace sì.

Non ti trova un posto in ospedale - l’uomo di pace sì. Non punisce chi ti ha offeso - l’uomo di pace sì. Adesso che lo hanno tolto di mezzo, chi garantirà la pace? Questa sembra essere l’unica preoccupazione di quella folla. Questo è ciò che ce la rende così lontana. Straniera.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 27 aprile 2010

Circolo vizioso

"Ricordatevi... che per ogni Trota che si candida ci sono dodicimila tonni che lo votano".
Maurizio Crozza

Raccapriccio

Sbirri di merda, come potete permettervi di arrestare un "uomo di pace", tale Giovanni Tegano?
Ma dove andremo a finire?

lunedì 26 aprile 2010

Buon 25 aprile

"Qui a colpi di revisionismo storico arriveranno a negare persino il fondamentale apporto dei finiani alla Resistenza".

Jena; LA STAMPA

R.D. jr.

Robert Downey Junior spegne la pipa di Sherlock Holmes e nei panni del geniale inventore d'armi e playboy Tony Stark diventa la maschera letale di "Iron Man" nel seguito del film di Jon Fabreau di due anni fa. "Iron Man 2" punta sulla commedia, su uno studio caratteriale e spiritoso del protagonista alle prese con le due donne della sua vita: Gwyneth Paltrow sempre innamorata e che lui nomina amministratore della compagnia, e una sexy quanto ambigua Scarlett Johansson. A rovinare il trionfo narcisistico di Tony Stark interviene un ex galeotto russo genio della scienza (interpretato con un poco probabile accento russo da Mickey Rourke) che sta cercando di costruire un'altra maschera di ferro ancora più potente di quella di Stark.
Dato che Downey Jr. ha già firmato il contratto per "Iron Man 3", non è difficile immaginare chi vincerà nella finale gigantomachia fra le due macchine. Ne abbiamo parlato a Los Angeles con il 45 enne attore americano, in grande forma, pizzetto, giacca da smoking di un amico stilista. "Sono in un buon momento della mia vita", riconosce, "felice di aver avuto la fortuna di avere queste opportunità che tanti non hanno".

Al contrario di giovani come Spiderman o Superman, Tony Stark è stato definito il supereroe pensante. E' d'accordo?
"Basta pensare un minimo per diventare il supereroe pensante. E poi il film vede Tony Stark già adulto, non lo vede nelle sue fasi di crescita".

Il primo Iron Man ha degli elementi comici ma questo secondo è tutto comico. Una decisione consapevole?
"Consapevole o no, questa volta c'era molta più pressione su di noi, quindi abbiamo cercato sempre il lato buffo. La prima volta mi sono un po' annoiato e cercavo di divertirmi creando una versione di Tony Stark molto più figa di me. Questa volta invece ero più me stesso, ho sentito di dover dare al pubblico un Tony Stark più simile a me".

Lei è già impegnato per altri due film per la Marvel, "Avengers" e "Iron Man 3".
"Vero, e sono il primo a stupirmene: penso che sia sempre incredibile che al giorno d'oggi un film venga fatto in modo corretto, con tutti i palloni gonfiati che girano in quest'industria, è un miracolo che i film non facciano tutti schifo".

Come sceglie i suoi film allora?
"Penso di essere abbastanza intelligente, sono stato in tanti film brutti, con tanti registi che non sapevano quello che stavano facendo, mi considero un esperto su come non fare un brutto film. Non vorrei augurare a nessun nemico i casini che ho dovuto attraversare per via dei film orribili in cui ho recitato in tutta la mia carriera".

In quegli anni difficili immaginava che sarebbe stato la star di due produzioni così grosse?
"Evidentemente si, anche se non era la mia idea, è stata una progressione logica. Sono fortunato peché ho avuto sette vite come i gatti: ora ho 45 anni, ho una buona carriera, ho una bella moglie, e nessuno scappa via quando mi vede".

Si tiene ancora sotto controllo come anni fa per non ricadere nella droga o nell'alcool?
"Sì, ma non in modo così irreggimentato. Non sono più un ragazzino, sento la mia età, sento i miei limiti. Dall'anno in cui sono nato, il 1965, l'orologio ha cominciato a girare, e non c'è niente da fare. Anche quando facevo "Sherlock Holmes" pensavo di non riuscire ad avere più resistenza e guarda ora che faccio? "Sherlock Holmes 2"! Sono un po' strapazzato ma uno strapazzato di 45 anni ben conservato".

Come sceglie il suo guardaroba?
"Mi diverto con i vestiti, quando avevo 22 anni e ho guadagnato i miei primi 1000 dollari li ho spesi subito in una giacca Gautier e due minuti dopo ero di nuovo al verde. Durante la promozione di "Iron Man" mi cambiavo ogni cinque minuti ed ero esausto. Mi sono detto, che sto facendo? E' tutto esagerato! Sono un padre di 43 anni, basta... quindi ora decido io senza strafare".

Ha visto paralleli con Mickey Rourke e il passato che entrambi avete avuto? In fondo siete entrambi risorti dalle ceneri.
"E' interessnte la metafora della Fenice, ma penso sia una cosa che succede a tanta gente. Nel caso di Mickey non ho pensato tanto al suo passato, quello che ho recepito da lui è che è un uomo molto sensibile e dotato, che fa il lavoro che ama".

Il suo attore preferito?
"Io!" .

di Silvia Bizio; la Repubblica

mercoledì 21 aprile 2010

Il partito dell'amore

Bailamme celeste

Extrema ratio

Oggi per me la notizia più importante del mondo è che Dario Brazzo è sceso in garage e si è impiccato. Aveva 50 anni e faceva l’imbianchino a Villadose, provincia di Rovigo, nel Nordest dove i soldi crescevano e adesso non si trovano più. Accanto al cadavere, un biglietto. Dario Brazzo chiede scusa ai figli e ringrazia polemicamente i tre debitori che, rifiutandosi di saldare il conto delle sue prestazioni professionali, lo hanno mandato in rovina. Chissà se quei tre dormiranno male, stanotte. Temo che continueranno a sentirsi perfettamente a loro agio in questa società fondata sui mutui, nella quale sopravvivono soltanto i furbi. Quelli che incassano subito e non pagano mai.

Uno pensa ai bisticci di potere con cui giornali e tivù si riempiono la pancia e ne coglie la sostanziale irrilevanza rispetto alle riforme di cui ha fame la gente vera. Fra queste la trasformazione della giustizia civile in qualcosa di giusto e di civile, che permetta per esempio a un imbianchino con moglie e figli a carico di ottenere ciò che gli spetta, la ricompensa del suo lavoro, senza dover aspettare un’era geologica. Ingannato e umiliato da chi ha usufruito dei suoi servizi e ora, consapevole della propria impunità, lo irride trattandolo come uno che chiede l’elemosina. Così chi aspetta i soldi muore, mentre chi deve darli campa benone e fa pure la vittima e il nullatenente. Costoro hanno tutto il nostro disgusto, ma tanto non sanno che farsene. Avrebbero bisogno di uno Stato che mordesse loro le tasche, visto che l’anima, quella l’hanno perduta da un pezzo.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 20 aprile 2010

La rivelazione

"La media degli italiani è un ragazzo di seconda media che nemmeno siede al primo banco... É a loro che devo parlare".
Silvio Berlusconi

Ho scoperto questa sua frase, tremendamente vera e, incredibilmente sincera, che mi ha lasciato di stucco, e che spiega molte cose. Nonostante abbia detto ciò, amiamo essere presi per il culo. E' proprio vero che l'amore trionfa sull'odio.

lunedì 19 aprile 2010

Ma perché no?

Sono d’accordo con l’Amato Premier. La mafia italiana è appena la sesta nel mondo (il prossimo anno non parteciperà neanche alla Champions), la sua fama è tutta colpa di «Gomorra». Che in realtà parla di camorra ed è pubblicato dalla casa editrice dell’Amato. Ma sono quisquilie. Piuttosto: perché fermarsi a Saviano, dico io. Si chiami il ministro fuochista Calderoli e gli si commissioni un bel falò per buttarci dentro altri libri disfattisti. Comincerei dai «Promessi sposi»: tutti quei bravacci e signorotti arroganti, che agli stranieri suggeriscono l’immagine fasulla di un Paese senza regole, dove la prepotenza e la furbizia prevalgono sul diritto. E «Il fu Mattia Pascal»? Vogliamo continuare a diffondere la favola negativa dell’uomo che cerca un legittimo impedimento per potersi fare i fatti suoi? Nel fuoco, insieme con «La coscienza di Zeno», un inetto che non riesce nemmeno a liberarsi del vizio del fumo, quanto di più diseducativo per una gioventù che ha bisogno di modelli positivi come il vincitore di «Amici».

Porrei quindi rimedio alla leggerezza sconsiderata del «Gattopardo». «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Hai trovato la formula segreta del potere e la spiattelli in giro così? In America nessun romanzo ha mai raccontato la ricetta della Coca-Cola. Nel fuoco anche Tomasi di Lampedusa: con quel cognome da nobile sarà di sicuro comunista. E poi «Il nome della rosa». Morti e sesso torbido in un monastero. Di questi tempi! Il nome della Rosa è Pantera. Il resto al rogo. Su con quelle fiamme e linea alla pubblicità.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

venerdì 16 aprile 2010

Silvio

La testa di cazzo ora se la prende con Saviano. Non c'è fine al peggio.

Ricordo

L’immagine che lo consegna per sempre ai nostri ricordi è quella di un anziano gentiluomo in pigiama che a letto sfoglia la Gazzetta dello Sport, mentre accanto a lui la moglie soffia come un mantice, solleva le gambe a candela e borbotta «che barba che noia, che noia che barba». Ciò che distingue un genio dell’umorismo da un marito normale è la sua reazione.
Di fronte all’attacco più grave che ogni maschio sia chiamato a fronteggiare - l’incapacità di suscitare passioni - Raimondo Vianello non si scusa né accusa. Si limita a lanciare uno sguardo in tralice, senza mai perdere di vista il giornale. Il matrimonio che resiste nel tempo, sembra suggerirci il suo silenzio, consiste nella gestione oculata dei litigi e degli scoppi improvvisi di noia.
Raimondo non era solo la parte maschile della ditta Vianello & Mondaini, ma se oggi lo ricordiamo soprattutto così è per la sua decisione giovanile di annullare il proprio talento anarchico, che forse ne avrebbe fatto il Peter Sellers italiano, dentro i vincoli di un rapporto professionale di coppia, allegoria perfetta dei vantaggi e degli svantaggi che procura una vita coniugale felice. I fan del Vianello «single», quello macabro e surreale degli sketch censurati con Tognazzi, sostengono che il matrimonio con una milanese pragmatica e un po’ «sciura» come la Sandra abbia deviato il corso naturale della sua carriera, riducendo alla sola dimensione televisiva un attore che possedeva il dono raro dell’umorismo. Per i fautori del Vianello «matrimoniale» vale il discorso opposto: se avesse seguito il suo istinto di battutista allusivo sarebbe finito nel dimenticatoio, in questo Paese ben poco inglese che detesta gli umoristi perché applaude la risata grassa del comico e le improvvisazioni sguaiate della commedia dell’arte.
Dovunque sia adesso, Vianello sorriderà di certe dispute, senza mai staccare gli occhi dal giornale. Ogni uomo è la scelta che fa e la sua è stata di privilegiare l’aspetto borghese del proprio carattere. Aveva bisogno di vivere al riparo di una doppia cornice di sicurezza: economica e affettiva. La tv e la moglie. L’affetto munifico del pubblico (i suoi show del sabato sera, popolari senza essere volgari, facevano 20 milioni di spettatori) e quello materno di una donna da cui non ebbe figli, ma della quale forse un po’ lo fu.
In un mondo dello spettacolo abitato da troppe coppie che dichiarano di amarsi sul palco (vedi un’altra Sandra, la Bullock, alla cerimonia degli Oscar, una settimana prima del divorzio) e si dilaniano accanitamente in privato, Mondaini & Vianello hanno offerto l’interpretazione opposta e vincente di due persone che si punzecchiano di continuo davanti alla telecamera per ritrovarsi più unite a casa propria. Indimenticabili le sigle finali dei loro varietà degli Anni Settanta, quando davano l’impressione di correre a perdifiato l’uno fra le braccia dell’altra, ma sul più bello qualcosa faceva fallire l’aggancio: di solito qualcosa di macabro, con lei che lottava contro la morte e lui che si girava dalla parte opposta, visibilmente sollevato. Erano gli sposi d’Italia e il passaggio alle tv di Berlusconi aveva istituzionalizzato il loro matrimonio, trasformando Casa Vianello nel contenitore di tutti gli stereotipi della coppia tradizionale. Lui era il marito svogliato e addomesticabile, che risvegliava il suo istinto di predatore in presenza di ragazze provocanti, ma arrivato a un passo dall’adulterio si ritraeva sempre. Apparentemente per un equivoco o un capriccio del destino. In realtà, per l’adesione inconscia a un codice morale al quale non doveva essere del tutto estraneo il sentimento d’amore per la moglie, che pure non veniva mai esplicitato.
Sandra & Raimondo erano lo specchio deformato ma non infedele del matrimonio all’italiana. Nel loro ménage si riconoscevano milioni di piccolo borghesi, quando esserlo significava assomigliare a Vianello: benpensante, magari ipocrita, però mai trucido e volgare. È difficile immaginare che i litigi di una coppia cresciuta col Grande fratello abbiano i toni e le pause, soprattutto le pause, di quelli che sapeva imbastire lui. Il suo segreto è facile da scoprire, ma impossibile da copiare. Ci ha giocato fino all’ultima intervista: «Se tornassi indietro, rifarei tutto. Mi risposerei anche. Con un’altra, ovviamente».

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 15 aprile 2010

Banali slogan banali

Ho appena scoperto, casualmente, l'esistenza di un simpatico acronimo: "A.C.A.B.". Decifrato, significa "All Cops Are Bastard". Ecco, questo, dovutamente rielaborato e politicamente corretto, potrebbe essere uno slogan elettorale. Perché banalizza generalizzando.
A voi la mia revisione policamente scorretta: "A.B.A.B". Significa "All Berluscones Are Bastard".
Se qualcuno si offende e si irrita, mi dà ragione.

Verba volant

In questi ultimi tempi è tornata prepotentemente di moda la parola "popolo", di cui molti si riempiono la bocca. Abusare di una parola, per me, nel tal caso, sbrigativa e dispregiativa, significa sterilizzarla. Questo vocabolo, forse senza un vero motivo, mi irrita. Chi la pronuncia ogni due per tre è un politico squallido di natura demagogica, che rispolvera il linguaggio elaborato, gonfio, ma allo stesso tempo vuoto del Ventennio. Concludo con una frase fatta che capita a fagiuolo, un invito a chi fa politica (occupazione indecifrabile): non bisogna fare di tutta l'erba un fascio.

Perplessità

Non voglio scendere nel più banale e semplice qualunquismo, ma il leader dell'opposizione sembra essere Gianfranco Fini, ottima persona, ma non mi risulta sia di sinistra.

Puntualizzazione

Futuro

“Gli equilibri non cambieranno” ha dichiarato il premier Umberto Bossi.

da Spinoza.it

lunedì 12 aprile 2010

Avviso

Avrete notato senz'altro, con vostro sommo dispiacere, che per diversi dì non ho scritto nulla: me ne scuso, e comunico che non mi riguarderò di quanto è accaduto nelle precedenti giornate.