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mercoledì 25 agosto 2010
Il metodo Boffo
Berlusconi ha detto chiaro e tondo che nel cammino verso le elezioni anticipate – qualora il piano dei “cinque punti” non riceva rapidamente la fiducia del Parlamento – non si farà incantare da nessuno, tantomeno dai “formalismi costituzionali”. Così lo sappiamo dalla sua viva voce: in Italia comanda solo lui, grazie alla “sovranità popolare” che finora lo ha votato.
La Costituzione in realtà dice: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Berlusconi si ferma a metà della frase, il resto non gli interessa, è puro “formalismo”. Quanti italiani avranno saputo di queste parole? Fra quelli che le hanno apprese, quanti le avranno approvate, quanti le avranno criticate, a quanti non sono importate nulla, alle prese come sono con ben altri problemi? Forse una risposta verrà dalle prossime elezioni, se si faranno presto e comunque, come sostiene Umberto Bossi (con la Lega che spera di conseguire il primato nel Nord e, di conseguenza, il solo potere concreto che conta oggi in Italia). Ma più probabilmente non lo sapremo mai. La situazione politica italiana è assolutamente unica in tutte le attuali democrazie, in Paesi dove – almeno da Machiavelli in poi – la questione del potere, attraverso cento passaggi teorici e pratici, è stata trattata in modo che si arrivasse a sistemi bilanciati, in cui nessun potere può arrogarsi il diritto di fare quello che vuole, avendo per di più in mano la grande maggioranza dei mezzi di comunicazione.
Uno dei temi trattati in queste settimane dagli opinionisti è che cosa ci si aspetta dal mondo cattolico, invitato da Gian Enrico Rusconi su La Stampa a fare autocritica. Su che cosa, in particolare? La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano). Quale delle due metà deve fare “autocritica”: quella che ha scelto il Cavaliere, o quella che si è divisa fra il Centro e la Sinistra, piena di magoni sui temi “non negoziabili” sui quali la Chiesa insiste in questi anni? A proposito. Ivan Illich, famoso sacerdote, teologo e sociologo critico della modernità, distingueva fra la vie substantive (cioè quella che riassume il concetto di “vita” mettendo insieme, come è giusto, e come risponde all’etica cristiana, tutti i momenti di un’esistenza umana, dalla fase embrionale a quella della morte naturale) e ogni altro aspetto della vita personale o comunitaria, a cui un sistema sociale e politico deve provvedere.
Il berlusconismo sembra averne fatto una regola: se promette alla Chiesa di appassionarsi (soprattutto con i suoi atei-devoti) all’embrione e a tutto il resto, con la vita quotidiana degli altri non ha esitazioni: il “metodo Boffo” (chi dissente va distrutto) è fatto apposta.
di Beppe Del Colle; Famiglia Cristiana
giovedì 5 agosto 2010
Buone vacanze
La fila è andata in crisi. Una volta in Italia era più sopportabile: trovavi sempre qualcuno con cui scambiare due parole. Ora abbiamo perso la pazienza di colloquiare. Non si comunica più neanche con genitori e amici. Invece, non dico alla posta, ma almeno a teatro o al cinema, ci si potrebbe provare. Ora chiunque tenti viene considerato uno scocciatore. Eppure bisogna ricominciare a chiacchierare. E se l’interlocutore non ci considera, domandiamogli: «Scusi, perché lei non risponde?». Che è già l’inizio di una conversazione. O di uno scontro. C’era uno sketch d’avanspettacolo: «Scusi, sa l’ora?». «Sì». E finiva così.
Di file ne ho fatte tante. Da povero emigrante a Milano nel 1954, mentre aspettavo alla stazione, iniziai a parlare con un signore. Mi suggerì di farmi ricoverare per togliere le tonsille. Passai la notte al caldo e mi sfamai, ma il medico mi scoprì. Così seguii la lezione contadina di mio padre Riccardo: «Quando sei nei guai, di' la verità». Il medico si mise a piangere e, guardando la suora, disse: «Lui rimane una settimana in osservazione, due pasti al giorno completi».
di Lino Banfi; LA STAMPA
martedì 3 agosto 2010
La giustizia
Enrichetto ha 55 anni e un cuore di bambino. Gira in bicicletta, estate e inverno, nascosto sotto un cappello con la coda che i bambini veri si divertono a tirare. Un giorno in cui pedala troppo a zig-zag viene fermato per guida in stato di ebbrezza. Due mesi agli arresti domiciliari, come uno della Cricca. Enrichetto. A lui sta persino bene, basta non gli tolgano il suo cane e il suo cappello. Una mattina si alza con la voglia di un salame. Ricorda di averlo visto nella vetrina del macellaio, prima del suo arresto, chissà se c’è ancora. Esce per andare a controllare. Una vicina che si è autoassegnata l’incarico di fare la guardia lo intercetta attraverso lo spioncino e avverte i carabinieri. Allarme, il prigioniero è evaso! Enrichetto torna a casa col salame, tutto contento, ma sulla porta trova le guardie. Adesso giace nell’infermeria del carcere astigiano di Quarto. Rifiuta il cibo, come chi si sta lasciando morire. La sua non è una protesta. E’ che gli è venuta la malinconia. Sa che a settembre lo condanneranno per evasione e a lui non sembra giusto, ecco. Tutto perché una volta è salito in bici un po’ brillo e un’altra volta è uscito di casa per comprare un salame.
Per favore, Enrichetto, ricomincia a mangiare. Ti prometto che un giorno instaureremo la repubblica del buonsenso, dove le leggi non saranno più il trastullo dei potenti e la trappola dei semplici. E se nel frattempo qualche magistrato chiudesse un occhio sui tuoi efferati delitti, a casa ci sono un cane, un cappello e un salame che ti aspettano per festeggiare.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
domenica 1 agosto 2010
Coerenza
La ricetta del governo per il turismo in crisi? Il ministro Michela Vittoria Brambilla ne ha una piuttosto originale: andarsene in vacanza in Francia. Maniaca della tintarella in Costa Azzurra, alla faccia degli italiani che solo pochi giorni fa s'erano sorbiti lo spot ufficiale "Magic Italia" con la voce di Silvio Berlusconi che invita a non tradire il Belpaese: «Questa è la nostra Italia! Un Paese unico, fatto di cielo, di sole e di mare, ma anche di storia, di cultura e di arte. È un Paese straordinario che devi ancora scoprire: impiega le tue vacanze per conoscere meglio l'Italia, la tua magica Italia».
E la ministra del Turismo con i conti in rosso come i suoi capelli, che gli dava pure corda: «Mettersi a disposizione del proprio Paese è un atto di grande amore. Facessero tutti così!». Già, tutti. A partire da lei, che mentre ancora giravano il trailer già progettava la fuga all'estero per la sua villeggiatura.
Con meta il borgo di Menton, terra di Provenza, a una manciata di chilometri da Montecarlo.
La scusa ufficiale c'è: una missione a caccia di spiagge dog-friendly, per lei e chi come lei ama i cani. Questo racconta a un giornale amico.
Strano, però, che anche lo scorso anno, sempre in questo periodo, la bella Michela si trovasse ancora una volta qui a Menton, sempre a spasso per le stesse strade dove ormai è una star. E con tanto di famiglia al seguito. Perché deve tenerci proprio a questa missione di Stato, se alla faccia di Capri, Cortina e Forte dei Marmi, i Brambilla si sono fatti addirittura l'appartamento sulla Promenade du Soleil, il lungomare che da Garavan scorre dritto fino a Cannes passando per Nizza, per studiare le spiagge aperte ai cani.
Sarà pure un caso se il residence che s'è scelta porta addirittura il suo secondo nome di battesimo: The Victoria Palace. Ma certo non è una coincidenza che nei locali della movida di Menton non si parli d'altro che di lei, la ministra italiana che da quelle parti è più conosciuta di Napoleone.
Staranno allegri i suoi cani a spasso, quando nei bar, nei ristoranti, in spiaggia, perfino sulle panchine all'ombra delle magnolie dove tirano fiato gli anziani del paesello la sentono nominare a ogni ora: «La tenda è aperta, sono in casa. Lassù, guardi, da là dominano tutto il panorama», fa il signor Pietro, torinese in pensione, che qui ci viene dal 1989. «Ci vengono sempre qui, parlano con tutti. Anch'io conosco Michela. Esce da quella porta. Vede, abitano al quinto piano».
Intanto un furgone bianco arrivato dritto da villa Brambilla a Calolziocorte, vicino a Lecco, posteggia di fronte all'ingresso della lussuosa palazzina che nel 1996 sostituì le vecchie casupole dei pescatori. Non sembra un furgone in missione, ma piuttosto il trasloco estivo di casa Brambilla visto che in un paio d'ore da là sopra scaricano di tutto: bagagli, biciclette, lampade, sdraio e perfino i climatizzatori. E neppure il collega d'Oltralpe Dominique Perben pare sapere che, nella sua Francia, ci sia un ministro straniero in visita per ragioni di studio. Annunci a parte, insomma, sembrano proprio le vacanze ufficiali del ministro italiano del Turismo, quella che in patria predica di spendere i quattrini lungo la Penisola e poi fugge all'estero quando i soldi in questione sono i suoi.
Sotto casa ci passeggia un'amica milanese che condivide con lei la passione per i cani. I barboncini Tommy e Matteo, sempre al guinzaglio, sono ormai diventati le mascotte di Menton, eppure nemmeno lei sa nulla di questa missione: «Qui si sta bene, ci sono le spiagge pure per loro. Ma quest'anno glielo dico proprio alla Michela: cosa penserebbero gli italiani, se sapessero che proprio lei passa le vacanze all'estero? ».
Già. Che direbbe il Cavaliere se sapesse che da queste parti se la contendono come un trofeo e, forse, a guadagnarci in fatto di turisti non è lui, bensì il collega Nicolas Sarkozy? E infatti in pochi minuti gira la voce del suo arrivo. Al punto che, con i bilanci del turismo italiano che si ritrova, madame Brambilla che fa? Si fa scattare un paio di foto e si presenta agli italiani come la ministra-turista per caso che passa da Menton a studiare. Macché. Dire che da quelle parti è habituée è dire poco. Ormai è l'attrazione principale di rue Saint-Michel, la stradina di Menton che fra salite e piazzette ottocentesche serpeggia fino al Bastione arabeggiante su cui sventola, battuto dal libeccio, il tricolore di Francia.
Conigli con guinzaglio
Nel trentennale del gesto politico più sanguinario della storia repubblicana, Bologna per la prima volta ricorda i suoi morti senza il governo e (quasi) senza lo Stato. La presenza onorevole e simbolica del prefetto non basterà a coprire la voragine di un'assenza oggettivamente gravissima, perché sancisce ufficialmente la mancanza di una memoria condivisa.
E dopo trent'anni, riconsegna il lutto alla comunità bolognese come fosse «cosa sua». I precedenti sono noti. La sentenza definitiva sulla strage, che ne attribuisce l'esecuzione ai terroristi neri (strage fascista, dunque, non è una forzatura ideologica) viene defalcata a «verità politica» da buona parte della destra italiana, così che anche la sola strage terroristica che abbia avuto una lettura giudiziaria pienamente conclusa viene risospinta nel limbo insopportabile delle mezze verità e dei misteri inafferrabili.
Questa lesione, più recente, è andata a sommarsi al radicato astio che una piazza così orribilmente offesa già nutriva per il potere politico del tempo, accusato di depistaggi, coperture, silenzi: in due parole, di alto tradimento. Di qui la radicata pratica dei fischi rabbiosi che accolgono ogni anno governanti anche incolpevoli, ma giudicati responsabili della continuità omertosa dello Stato, simboli di un potere inaffidabile, ipocrita e distante.
Non interessa, qui, valutare ragioni e torti di questa frattura che in trent'anni, piuttosto che ridursi, si è radicalizzata. Interessa misurarla, la frattura, in tutta la sua incurabile profondità: un lutto nazionale tra i più dolorosi e significativi viene infine giudicato non gestibile, politicamente incontrollabile, dal governo centrale, che lo rimbalza alle autorità locali (con macabro sarcasmo, si potrebbe dire che anche questo è federalismo...). Si noti che il ministro incaricato non avrebbe dovuto parlare in piazza ma in Comune, per tutelarlo dalle contestazioni e per tentare di interrompere il rituale aspro dei fischi. Tanto non è bastato al governo per decidere di essere a Bologna questo 2 agosto.
La fuga di Roma da Bologna colpisce anche perché si aggiunge a un quadro di separazione progressiva e tumultuosa dei cittadini dalla politica, e della politica dai cittadini. Paiono vite parallele, dunque mai convergenti, anche quando l'occasione riguardi tanto la società quanto le istituzioni, vedi le commemorazioni palermitane di Falcone e Borsellino che sono state quasi «privatizzate» dai cittadini per evitare contiguità indesiderate.
Probabile che anche a Bologna molte voci commentino con sollievo la latitanza del governo, «stiano pure a casa loro». Ma un Paese nel quale la politica teme il popolo (a meno di incontrarlo in festose adunate di consenzienti, o di farne comparsa per tripudi di massa) e il popolo disprezza la politica, è un paese schizofrenico, sdoppiato, e in ultima analisi paralizzato fino a che accada qualcosa che sblocchi questo impotente ringhiarsi, evitarsi, detestarsi. Se nell'agenda del governo, alla data del 2 agosto, non è segnata con l'evidenziatore la parola «Bologna», significa che il prezzo di quattro fischi non vale il dovere di rappresentare lo Stato, nemmeno nel chiuso di un Palazzo comunale. Sia viltà politica, sia pura sottovalutazione, sia il calcolato sgarbo a una città ex-rossa e oggi commissariata (e quasi felice di esserlo: altro scacco alla politica), è una prova di sconsolante debolezza.
di Michele Serra; la Repubblica
Per sempre
Mi sembra di avere scritto su questo ricordo, ma non so quando. Dieci, venti anni fa. Ma quando ricordo è adesso. Sento la notizia da Brunella, che compra il giornale la mattina presto a Santa Maria di Leuca. Non occorre parlare o mettersi d'accordo. Partiamo, con una vecchia Citroen, e guidiamo alternandoci per ore e ore. Quando arriviamo, siamo ancora nel pieno dei soccorsi, ancora scavano.
Trent'anni fa Bologna era diversa. Era stata colpita perché era diversa, perché era una speranza. Ora è una città come tante del Nord Italia, né brutta né bella. Ma tante persone ricordano quella data. E non certo per nostalgia del dolore. Per la speranza che combatté quel dolore. Perché qualcosa di quella speranza è rimasta. Ci sono state altre stragi, altro sangue, altro dolore inutile. L'ultima strage, quella della legalità, si consuma non con la violenza delle bombe, ma non l'astuzia della propaganda e della potenza economica. Possiamo disquisire se le persone sono le stesse, o altre, o nuove, o migliori o peggiori. Quello che è successo a Duisburg in nome del cosiddetto show, è una strage. Possiamo distinguere dicendo che non è stata pianificata, che tutti sono pentiti. Ma per chi ha perso delle persone care, è difficile distinguere, fare una scala del dolore, trovare qualche consolazione.
Quello che mi è facile invece, è ricordare chi ha ancora speranza. Pensare a quelli che scavavano, a quelli che scavano ancora. Quelli che sperano non ci sia il nome di una persona cara di un elenco di vittime. Quelli che si sentono responsabili, e cercano di evitare stragi future. Quelli che vogliono la verità. So che sono ancora tanti, anche a Bologna. Forse non sono più rappresentati, forse la loro speranza è stata ferita e irrisa, forse qualche volta pensano: perché scavare quando tutto crolla?
Ma io so che queste persone ci saranno sempre, e mi conforta. Ogni volta che torno a Bologna, vedo i nomi sulla lapide della stazione. Qualcuno si ferma e si interroga, qualcuno nemmeno sa cosa significano quei nomi. Qualcuno neanche li guarda. Ma qualche anno fa, vidi una donna straniera entrare, e mettere dei fiori sotto la lapide. Le parlai: non era una parente, era una donna che faceva solo un gesto di ricordo, di rispetto, non davanti alle autorità, ma davanti ai suoi sentimenti. Al di là di ogni retorica e cerimonia, c'è sempre la forza di queste persone che sperano. E io spero che Bologna le ascolti molto di più, che sappia ritrovare il rapporto con la sua energia passata, che non ne faccia una statua in un museo.
Anche io, nel mio piccolo sforzo, scavo ancora, anche se dovrei e vorrei farlo di più. E scavando ho ritrovato il ricordo di quegli anni e posso dirlo forte: non dimentico e non voglio dirlo solo il due agosto.
di Stefano Benni; la Repubblica
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