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mercoledì 29 settembre 2010
(De)rattizzazione
Un personaggio di Kafka, destandosi una mattina, si trovò tramutato in scarafaggio: «Che cosa m’è accaduto?», si domandò terrorizzato. Il terrore non lo molla più. Noi, lettori occidentali, pensavamo che il grande scrittore praghese, ebreo, intuisse e rappresentasse gli incubi delle minoranze oppresse: essere declassati da uomini ad animali. Ma pensavamo tutto questo sforzando il cervello, per intuire una condizione che non sarà mai nostra: noi siamo occidentali, siamo europei, siamo cristiani, le condizioni a-umane o sub-umane non possono toccarci, sarebbe una contraddizione della storia, e noi siamo autori di storia, padroni della storia. Noi italiani, poi, siamo il centro della cristianità, il cuore dell’arte e della genialità. Mai saremo visti, dai fratelli europei, come animali repellenti o feroci. Non siamo lupi. Non siamo scimmie.
Ed ecco, dalla civilissima Svizzera, e dalla parte più italiana della Svizzera, il Canton Ticino, esce uno spot pubblicitario che ci raffigura come topi, anzi toponi. I toponi sono topi grassi. Perché mangiano molto formaggio. Svizzero. Non lo fanno, ma lo mangiano. Entrano in casa e sbafano tutto. Peggio che ladri, sono ladri e rapinatori e parassiti insieme. La didascalia dice: «I ratti invadono la Svizzera italiana», ma il messaggio è: «I ratti italiani invadono la Svizzera». Perché non ci siano dubbi sull’identificazione uomini-topi, i topi, tre, hanno dei nomi. Uno si chiama Fabrizio, vive a Verbania ma va a lavorare in Ticino. Il secondo si chiama Bogdan, è romeno, non ha né casa né lavoro: come uomo, un sotto-uomo, come topo, un sotto-topo. Il terzo si chiama Giulio, e fa l’avvocato. Un Giulio che fa l’avvocato è Tremonti, e Tremonti è descritto poco dopo come citrullo, disonesto, dannoso ai suoi concittadini, sabotatore delle oneste e professionali banche svizzere. Perché, introducendo lo scudo fiscale, richiama dalla Svizzera i capitali illecitamente esportati. Dei tre tipi che incarnano la malaumanità europea, noi italiani siamo presenti in due. La società svizzera-ticinese è laboriosa, risparmia e accumula (il formaggio è lì pronto, una forma enorme), «guadagna bene» (lo dice il testo, con legittimo vanto), insomma rappresenta il benessere capitalistico, e chi sta bene Dio è con lui. Noi italiani siamo il male, e facciamo il male. Non noi napoletani o noi siciliani, insomma noi italiani del Sud, facilmente e ingiustamente disprezzati dal Nord: ma noi italiani del Nord, anzi del Nord del Nord, noi frontalieri della Svizzera. Noi rubiamo il lavoro. Ci facciamo pagare con una cicca, e così eliminiamo ogni concorrenza. I lavoratori svizzeri sono troppo umani e dignitosi, non si fanno pagare da straccioni. E poi hanno una moneta buona, solida, stabile. Non hanno l’euro, ballerino e spregiato. Noi italiani del Nord, sottolavoratori della zona euro, siamo accecati dal salario decente e dal franco.
Ma queste non sono esattamente le accuse che noi, italiani del Nord, rivolgiamo agli europei dell’Est e agli africani del Nord? Vengono da aree dove il lavoro è zero, hanno monete rifiutate dalle nostre banche, qui fanno i sottolavori sporchi o malsani o rischiosi che noi scartiamo, si accontentano delle sottopaghe che noi sdegniamo, qui vivono la loro miserabile sottovita, e noi li accusiamo di rubarci i posti (se non ci fossero loro, li occuperemmo noi), entrare nelle case sfitte, e ripagarci stuprando le nostre donne, rubando nelle nostre case, e riempiendo le nostre prigioni. Non diciamo «siete topi», ma gli incendiamo gli insediamenti, per farli scappare. Come gli svizzeri con noi. Gli italiani ai confini della Svizzera sono ratti, dicono, «e noi vogliamo derattizzare». Testuale. È un calcio in pancia che ci sveglia di soprassalto. Apriamo gli occhi, e ci troviamo trasformati in topi.
di Ferdinando Camon; LA STAMPA
di Ferdinando Camon; LA STAMPA
venerdì 17 settembre 2010
J-27
Una chitarra a forma di freccia, locandine, un paio di manoscritti, un cappello nero a falde larghe, un disegno autografo dedicato al festival dell' isola di Wight, un vestito sgargiante, di quelli che Hendrix si faceva confezionare su misura come uno specchio di stoffa della psichedelia imperante, e una grande mappa di Londra su cui sono segnati tuttii luoghi che hanno fatto parte della sua breve, bruciante biografia. Siamo a Hendrix Britain, piccola ma succosa esibizione allestita in alcune stanze dello Handel Museum, al numero 23 di Brook street, nella zona di Mayfair, dove Hendrix ha abitato per un po' di tempo. Quello è stato il suo flat inglese, la casa bohémien dove visse con l' amica Kathy Etchingham, l' unica di cui si sia fidato completamente, e dove probabilmente passò alcuni tra i rari momenti di relax della sua travolgente esistenza. Ma la mostra è solo uno degli omaggi che si stanno moltiplicando in tutto il mondo. Hendrix del resto doveva molto a Londra, e la passione fu totalmente ricambiata. Furono gli inglesi a capire per primi che nel suo blues da fantascienza c' era una nuova visione dell' universo dei suoni, che nella sua onnivora, devastante capacità di trasformare in puro genio qualsiasi cosa uscisse dalla sua chitarra fiammeggiante, stava inventando una musica che non si era mai sentita prima. Gli americani l' avevano snobbato. Per loro il blues era una musica da cortile, ce l' avevano sotto casa, e per anni quel diamante era rimasto grezzo, appena abbozzato, incapace di abbagliare. Finché, da Londra, non arrivò il suo primo singolo, una folgorante e ruvida canzone intitolata Hey Joe che lanciò il musicista che di lì a poco avrebbe osato sfidare il cielo stesso, nella nebbia iridescente di Purple Haze, quando cantava come se dialogasse con gli dei: «Scusatemi, mentre bacio il cielo». E a Londra Hendrix ci tornò anche per morire, soffocato dal suo stesso vomito, la sera del 18 settembre 1970, in una stanza del Samarkand Hotel. Aveva ventisette anni. Questo numero, nella mitologia rock, è divenuto sinonimo di maledizione, anche perché di lì a poco, il 4 ottobre, morì anche Janis Joplin. Nel suo caso il referto parlava di morte accidentale causata da overdose di eroina. Aveva la testa segnata a sangue come se avesse sbattuto violentemente contro qualcosa, incapace di controllarsi. Anche lei aveva appena ventisette anni. Il 3 luglio dell' anno seguente cadde anche Jim Morrison, al pari degli altri due devastato da una insanabile tendenza all' autodistruzione attraverso sostanze illecite. Neanche a farlo apposta, aveva ventisette anni. E tutti e tre avevano un nome che iniziava per "J". Le tre "J", o la maledizione dei ventisette anni. Complottisti e dietrologi ci hanno ricamato sopra per decenni. Pura coincidenza? O c' erano forze oscure che lavoravano nell' ombra per eliminare i pericolosi araldi della rivoluzione giovanile? Di sicuro erano vittime facili, di sicuro erano tre rivoluzionari, capaci di incendiare le folle, di smuovere certezze, di mettere in discussione per il solo fatto di essere quello che erano i rassicuranti pilastri dell' establishment americano. Hendrix, a Woodstock, aveva addirittura profanato l' inno americano, costruendo una delle pagine in assoluto più memorabili della storia della rock, con una versione distorta di Star Spangled Banner che si trasformava nella riproduzione sonora di un bombardamento in Vietnam. Jim Morrison era pericoloso quanto possono esserlo in certi casi le parole. Aveva cantato come un novello Edipo generazionale di voler «uccidere il padre e fottere la madre». La Joplin era una mina vagante, una donna sboccata, drogata e disinibita, che toglieva il sonno alle buone madri di famiglia. Ma era sensibile e a suo modo delicata. Quando cantava aboliva ogni barriera tra le zone profonde del proprio essere e l' espressione formale, cantava rabbiosamente, con una potenza che attingeva alla tradizione afroamericana, una bianca che cantava come facevano i neri, e che un giorno decise di far costruire una lapide più dignitosa alla prima e più grande delle cantanti blues, Bessie Smith, morta perché non soccorsa tempestivamente, in quanto «negra», dopo un incidente stradale. Nel 1969, dopo un concerto, fu fermata e denunciata dalla polizia per «linguaggio osceno». Ma qualche anno dopo Leonard Cohen le dedicò una delle sue più belle canzoni, Chelsea Hotel #2, in cui descriveva perfettamente l' impudica ma fragile perso nalità di Janis. E poi in tutti e tre i casi, le indagini furono frettolose, per non dire poco accurate, e lasciarono molte zone d' ombra sulle circostanze esatte dei decessi, il che, com' è noto, è pane per i denti dei teorici del complotto di ogni epoca. Ma c' è anche di mezzo la storia.A quei tempi l' America era governata dal suo trentasettesimo presidente, il controverso Richard Nixon che nel 1968 aveva sconfitto, seppure con minimo scarto, il suo rivale democratico con una campagna in cui aveva esplicitamente promesso di ripulire il paese dalla feccia hippy. La verità è che per un momento il Paese aveva davvero avuto paura che la sovversione riuscisse a ribaltare le forme tradizionali del vivere sociale. E del resto, senza bisogno di arrivare alle paranoie complottiste, molti storici hanno sottolineato con legittimo sospetto la strana coincidenza di un improvviso dilagare dell' eroina nella zona di San Francisco nel momento più pericoloso della rivoluzione pacifica, ovvero la "Summer of love" del 1967, quando interi quartieri della città erano diventate zona franca, un territorio liberato in cui si praticava la vita collettiva, il libero scambio, l' amore libero. Guarda caso in California, in quella indimenticabile estate del sogno giovanile, a esaltare la rivoluzione c' erano proprio le tre "J". Non erano i soli a farlo, ma di certo erano quelli che più apertamente sfidavano le regole. Al festival pop di Monterey si esibirono Jimi Hendrix, che in un sommo rito simbolico di sacrificio incendiò la sua chitarra sul palco, e Janis Joplin che cantò una versione di Ball and Chain passata alla storia. Da quelle parti c' erano anche i Doors di Jim Morrison, che sul palco arrivò a denudarsi, il che spinse le forze dell' ordine a interrompere le sue esibizioni: lo scomodo, insostenibile Jim Morrison che sembrava un incubo vivente per ogni benpensante del Paese. Le sue erano poesie cantate, ma sullo sfondo di un paesaggio apocalittico. A ogni concerto dava l' impressione che il mondo non potesse rimanere com' era, che fosse la fine, The End, che il mondo era inevitabilmente alle porte, The Doors appunto, di un cambiamento senza ritorno. Così nel 1967. Tre anni dopo, quando gli eroi cominciarono a morire, barbaramente uccisi dalla loro stessa fragilità, Nixon si fece fotografare alla Casa Bianca mentre stringeva la mano a un bolso Elvis Presley, il quale molti anni prima aveva fatto partire la prima ingenua ribellione giovanile del rock' n' roll, ma che nel frattempo era diventato un bravo, ammirevole conservatore, fiero dei suoi distintivi di sceriffo onorario, patriota esemplare e, a quanto pare, perfino disposto alla delazione nei confronti dei più giovani e ribelli rocker che lo avevano spodestato. Di sicuro la scomparsa dei tre eroi segnò la fine di un' epoca. Ma la maledizione dei ventisette anni non finì lì. Tornò drammaticamente in auge nel 1994, quando il mondo del rock fu letteralmente scioccato dal suicidio di Kurt Cobain, il cantante dei Nirvana, trovato morto l' otto aprile, nella sua casa di Seattle. Si era sparato un colpo di fucile in testa, o almeno così decretò il referto della polizia, ma ovviamente anche in questo caso in molti hanno pensato che la verità potesse essere un' altra. Anche Kobain aveva ventisette anni, compiuti da due mesi, si drogava e per la verità era stato già a un passo dalla morte per overdose, e questo l' ha ovviamente messo in relazione con gli altri tre, sebbene fossero passati più di vent' anni. Nella sua lettera d' addio non c' era alcun riferimento a Jimi Hendrix, a Janis Joplin o Jim Morrison (malgrado Hendrix fosse di Seattle come lui). Citava Freddie Mercury come esempio di una rockstar che si esaltava nel rapporto col pubblico e finiva la lettera citando un verso di una canzone di Neil Young: «Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente».
di Gina Castaldo; la Repubblica
martedì 14 settembre 2010
La seconda infanzia repubblicana
Basta, pietà, cambiate schema, evolvete verso forme di vita più complesse. Di che cosa di tratta? Ma del nuovo modo di concepire il dibattito politico e giornalistico in Italia. Il rimpiattino. Ultimo esempio ieri. Ministro Gelmini, cosa pensa di quella scuola pubblica di Adro che espone dappertutto il simbolo della Lega Nord? Risposta: vorrei che si polemizzasse anche quando nelle classi si utilizzano dei simboli di sinistra. Giusto, il primo studente che trova una foto di Marx o di Bersani sotto il banco è pregato di rivolgersi alla polizia. Ma cosa c’entra, adesso? Stiamo parlando della scuola leghista di Adro! Ed è tutto così. Se gli amici di Berlusconi ficcano il naso nei movimenti immobiliari di Fini, quelli di Fini si affannano a ricordare che Berlusconi comprò sottocosto la villa di Arcore. Ormai i politici vanno in tv con le tasche piene di ritagli, pronti a rintuzzare le critiche non con una spiegazione convincente, ma con una memoria d’archivio che possa testimoniare la mancanza di coerenza dell’accusatore.
Il «doppiopesismo» è stata una vergogna che ha massacrato la verità e le teste di almeno una generazione di italiani. Ma questo suo peloso contraltare, il rimpiattino, è una via di fuga avvilente, un cibo per vittimisti che non scioglie i nodi della storia e porta solo ad accumulare nuovi rancori. All’asilo è normale reagire ai rimbrotti della maestra gridando: è stato lui, ha cominciato lui. All’asilo, appunto.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
Con ironia
Dunque il pubblico presente in studio, nei talk-show politici della Rai, non potrà più parteggiare per questo o quel contendente. Non potrà fare «boo» se sente qualcosa che lo indigna, non potrà sostenere con la voce un discorso che invece condivide. Composti, equanimi e misurati; muti come gli scolari pre-‘68 o pronti ad applaudire a comando, ma con tempi rigorosamente predefiniti (forse proporzionali al peso elettorale di chi parla?).
Il pubblico in studio dovrebbe rappresentare un campione di quello che sta a casa; che certo parteggia e si incavola. O forse no, non più, Masi ha ragione. Allora però estremizzo e avanzo una proposta costruttiva: perché non toglierlo completamente il pubblico, studiando una scenografia graficamente impeccabile che non lo preveda? Immaginate la scena: i politici che litigano, si insultano pesantemente (certo continuerebbero a farlo, sarebbe un’offesa alla loro integrità sospettare che lo facciano soltanto se aizzati da un pubblico) - il tutto in un silenzio glaciale, con un leggero rimbombo delle pareti. Quale più icastica rappresentazione del rapporto tra loro e i cittadini, dell’intercapedine sfiduciata e un po’ attonita che sono riusciti a creare intorno a sé? Se l’immagine del pubblico fosse necessaria per ragioni formali, come effetto-specchio, suggerisco una soluzione già attuata in un quiz di Enrico Papi: il pubblico virtuale proiettato sugli spalti, con applausi registrati. Magari in 3D: quando si tratta di garantire il sopore, si sa, la Rai non bada a spese.
di Walter Siti; LA STAMPA
Senza ironia
Gheddafi il sultano si fa i cazzi suoi, domina il Mediterraneo, esige soldi a destra e a manca con minacce ridicole. L'Italia, solo l'Italia, si inchina a questo dittatore da quattro soldi. La Libia ci spara contro, e Maroni se ne fotte dicendo balle.
Che schifo. Tutti quanti. Anche se votiamo Berlusconi, non ci meritiamo tanto.
lunedì 6 settembre 2010
Non è possibile
Nella frazione di Acciaroli (Salerno), il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, viene brutalmente ucciso, in una agguato che puzza di camorra.
Prendete questi figli di puttana, per favore.
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