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lunedì 27 dicembre 2010
venerdì 24 dicembre 2010
(Im)parzialmente parlando
Se abbiamo capito bene: il capogruppo della Lega alla Camera chiede un dibattito sulla imparzialità del presidente della Camera che, ad avviso dei leghisti, non è più imparziale. Il presidente della Camera risponde che è inammissibile un dibattito sulla sua imparzialità proprio perché, ritenendosi egli un arbitro imparziale, non accetta che si possa discutere della sua imparzialità, unico tema sul quale non è sicuro di garantire la necessaria imparzialità. Quindi è sempre imparziale tranne se si discute della sua imparzialità. Invece, se si discute della sua imparzialità, allora rischia davvero di non essere imparziale. Almeno parzialmente.
di Mattia Feltri; LA STAMPA
Senza titolo
Un artigiano veneto di quarant’anni, oppresso dai debiti, irrompe in una tabaccheria di Forte Marghera agitando la pistola. «Dammi i soldi!», intima al proprietario. Ma prima che l’altro possa aprire la cassa, il rapinatore scuote la testa: «Cosa sto facendo?». Esce dal negozio, monta in bicicletta e va a costituirsi al commissariato. Dove giustamente lo arrestano, perché così prevede la legge. Io, stupidamente, lo avrei un po’ abbracciato. È che è raro trovare dei galantuomini, ma ancor più raro è trovare degli uomini: gente disposta a non prendere le distanze dai propri errori, persino quando, come in questo caso, sono stati soltanto abbozzati.
Più o meno alla stessa ora, in una scuola di Torino va in scena il classico spettacolo di Natale alla presenza delle famiglie. Ogni bambino sale sul palco ed esprime un desiderio per l’anno nuovo. Il primo dice: «Vorrei essere più bravo coi nonni». Il secondo: «Vorrei un certo videogioco». Il terzo: «Vorrei ci fosse ancora il lavoro per mamma e papà».
Nella sala scende il gelo, la realtà è una pasta abrasiva e certe cose non si confessano neanche in tv. Un amico presente alla scena commenta: è un mondo al contrario, quello in cui sono i figli a desiderare un posto per i genitori, ma forse l’unica speranza che resta, a questo mondo, è proprio un bambino che al futuro non chiede un giocattolo ma un lavoro per mamma e papà.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
martedì 21 dicembre 2010
Il mestolo di Natale
Come biglietto di auguri natalizi, una lettrice ha spedito agli amici questa storiella edificante. Un sant’uomo chiede a Dio di poter visitare l’inferno e il paradiso, possibilmente nell’ordine (preferisce il lieto fine). Dio lo conduce davanti a due porte chiuse e spalanca la prima. Al centro della stanza spicca una tavola rotonda e al centro della tavola un pentolone da cui emana un profumo delizioso. Ma le persone sedute intorno alla tavola sono ridotte a scheletri. Ciascuna di esse ha un mestolo attaccato al braccio, lo tuffa nel recipiente per raccogliere il cibo e però poi non riesce a portarlo alla bocca perché il manico del mestolo è più lungo del braccio. Che supplizio atroce, pensa il sant’uomo, compatendo gli affamati. «Hai appena visto l’inferno», dice Dio e spalanca la seconda porta, quella del paradiso. C’è una tavola rotonda al centro della stanza anche lì. Al centro della tavola un pentolone da cui emana lo stesso profumo. E le persone sedute intorno alla tavola hanno un mestolo attaccato al braccio che nessuna di esse riuscirà mai ad avvicinare alla bocca. Eppure sono ben pasciute. «Non capisco», sbotta il sant’uomo. «È semplice» - risponde Dio -. «All’inferno gli uomini muoiono di fame perché non pensano che a se stessi. In paradiso, invece, stanno tutti in salute perché ognuno mangia dal mestolo degli altri».
Questo apologo mi ha talmente toccato il cuore che avrei voglia di dare una mestolata a Gasparri.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
domenica 19 dicembre 2010
Perché prevenire è meglio che curare
L'Onorevole Maurizio Gasparri invoca gli "arresti preventivi", ovviamente tra le file dell'estrema sinitra.
La Polizia quindi si vede costretta ad assoldare indovini e cartomanti. Viene solo da chiedersi come mai Gasparri non sia stato "preventivamente" rinchiuso in un manicomio, magari insieme a Hitler.
La Polizia quindi si vede costretta ad assoldare indovini e cartomanti. Viene solo da chiedersi come mai Gasparri non sia stato "preventivamente" rinchiuso in un manicomio, magari insieme a Hitler.
Goodbye Captain
Donald Van Vliet, alias Captain Beefheart, è morto ieri in California. Van Vliet era malato da tempo di sclerosi multipla. Con lui scompare uno dei grandi visionari del rock degli anni Sessanta e Settanta, compagno di strada di Frank Zappa, artista creativo e inimitabile, figura di riferimento per molti musicisti dei decenni successivi.
Per molto tempo Captain Beefheart è stato quasi un alter ego di Zappa, incarnando il lato più oscuro, istintivo e iconoclasta della controcultura freak. La sua stessa vicenda artistica e personale è strettamente legata negli anni Sessanta a quella del "genio" di Baltimora. Anch'egli cresce ai limiti del deserto di Mojave, manifestando sin dalla più giovane età una spiccata vocazione artistica, non solo musicale ma anche come pittore e scultore. Giovanissimo si trasferisce a Cucamonga dove Zappa aveva appena approntato il suo studio di registrazione e i due vengono così in contatto. Suonano insieme negli anni della gavetta, ma poi si separano per divergenze soprattutto caratteriali.
Van Vliet forma quindi la Magic Band e fa suo il vezzo dadaista di attribuire a ogni membro del gruppo un personaggio, un'identità, con un nome a esso collegato. Il leader è, così, Captain Beefheart, il chitarrista Jeff Cotton si trasforma in Antennae Jimmy Seemens e il batterista John French diventa Drumbo. La magic Band esegue un rhythm'n'blues musicalmente sporco e scalcinato su cui svetta la voce graffiante, allucinata e inquietante di Captain Beefheart, dotato di una estensione vocale di ben sette ottave e mezza. E' però il momento del beat di importazione britannica e il gruppo non riesce a trovare un discografico disposto a puntare su un sound talmente istintivo e viscerale da vedere nel torrido e malato blues del Delta di inizio secolo il proprio, più credibile, progenitore.
La Magic Band registra quell'anno due dischi che vedranno la luce solo alcuni anni dopo. Mirror Man, pubblicato nel '71, è registrato dal vivo e contiene quattro brani che vanno ben oltre il formato dei tre minuti richiesto dalle radio nel '65. Quattro lunghe allucinazioni sonore dove si mescolano in modo sporco ma affascinante blues, rhythm'n'blues, improvvisazioni free jazz, mentre la voce del leader, attraverso una continua emissione di urla, grugniti e rantoli, enuncia testi idioti. Si tratta di musica destinata all'emarginazione, così come resta ai margini, per scelta, la cultura freak e il suo rifiuto bohemien della civiltà dei consumi. Captain Beefheart non è dotato della consapevolezza intellettuale di Zappa, ma Mirror Man è sicuramente un affresco impressionista da brividi di ciò che era il messaggio freak.
Safe as Milk, che vede la luce nel '67, è il primo disco di studio della Magic Band e presenta connotati piuttosto diversi. I brani sono dodici e la loro durata viene riportata ai canonici tre minuti. Se il lavoro di studio lima certe vette di pura libertà espressiva e sperimentale di Mirror Man, la base è sempre quel blues scorticante caratterizzato da steel guitar sgangherate ma efficacissime, una batteria libera da vincoli e la solita voce "posseduta". Captain Beefheart carica ogni brano di un corredo di gag e umorismo parodistico che lo accomuna a Zappa.
Ma se Zappa è diventato nel frattempo una star, Captain Beefheart e il suo seguito di psicopatici vivono nel più completo isolamento artistico, sabotati persino dai loro discografici, i quali manipolano i master della band per coprire gli effetti più sconci e orripilanti. Ed è proprio Zappa che decide di offrire al vecchio compagno di strada l'occasione per incidere un disco nella più totale libertà artistica, senza limiti di tempo e di budget. Beefheart amplia così la band, inserisce una sezione di fiati e si cimenta egli stesso al clarinetto basso. Ne scaturisce nel '69 Trout Mask Replica, vera e propria antologia del caos. Doppio album, ventotto brani di breve durata nei quali si scatenano tutte le componenti caratteristiche dei dischi precedenti. Dal punto di vista strettamente musicale si tratta di anarchia pura, improvvisazioni disordinate e devastanti cui fanno da contraltare dei blues privi di accompagnamento in cui Beefheart dà tutto se stesso, sfoggiando il suo allucinante repertorio di urla e versi bestiali. Sono presenti tra un brano e l'altro i caratteristici siparietti chiacchierati, cui partecipa lo stesso Zappa, ma in Trout Mask Replica l'umorismo viene soppiantato da un delirio al limite della psicosi. E' la chiara, definitiva, forse disperata manifestazione di odio verso la inquadrata, ordinata, gerarchizzata società del benessere industriale che ha reso prigionieri anche i giovani.
La vicenda di Captain Beefheart continuerà sino alla metà degli anni Ottanta, tra improvvisi ammorbidimenti, legati al tentativo di diventare una star anche in termini di vendite, e susseguenti rigurgiti della sua potenza devastatrice. Quindi il ritiro dalle scene e la rinascita come pittore. La sua figura resta comunque fissata nella storia della Los Angeles dei freak come il complemento, in termini di follia, dell'opera di Frank Zappa, e come romantico e straordinario esempio di come si potesse coniugare in maniera assolutamente originale arte, libertà e rock.
di Ernesto Assante; la Repubblica
Chi ci capisce è bravo
Le cose che non capisco. Non capisco come Paolo Bonolis, quello di «Ciao Darwin» e di «Chi ha incastrato Peter Pan?», possa andare in un'università a dire che certa tv ha contribuito a corrompere il nostro Paese. Lui dov'era? Ma, ancora di più, non capisco come il pubblico degli studenti - un incontro promosso da Sinistra universitaria alla Statale di Milano - scenda in piazza a protestare contro la Gelmini e, intanto, si beva gli alibi di Bonolis.
Non capisco come il nostro Paese possa avere un futuro, dopo aver assistito alle performance radiofoniche dell'onorevole Domenico Scilipoti («Un giorno da pecora») e a quelle televisive del ministro Ignazio La Russa e dell'onorevole Antonio Di Pietro («Annozero»). Uno dice: ma è spettacolo! Sì, ma poi basta un po' di neve per spezzare la penisola in due. È spettacolo anche quello.
Non capisco come Gad Lerner, dopo averci propinato noiosissime trasmissioni sul corpo delle donne e contro il velinismo di «Striscia», possa prendersela con Caterina Soffici (una brava giornalista culturale) per aver scritto: «Sono entrata in un negozio perché avevo bisogno di una chiavetta. Dietro al commesso ho visto Belén sdraiata che mi ammiccava e ho deciso di uscire e comprare la chiavetta dalla concorrenza».
Non capisco come Gerry Scotti, dopo aver accettato (immagino non per beneficenza) di condurre tre o quattro programmi, di dirigere una radio, di fare il testimonial per più ditte, possa lamentarsi di essere sfruttato da Mediaset. Ha persino confessato di essere ricorso alle vie legali per mettere un freno a questa sovraesposizione. Naturalmente la confessione è avvenuta durante la presentazione alla stampa di un suo nuovo programma, «Paperissima».
Non capisco come Benedetta Parodi («Cotto e mangiato») possa aver scritto un libro. Non mi sorprende però che sia il primo nelle classifiche dei libri più venduti. Di cosa ci lamentiamo, in Italia?
di Aldo Grasso; CORRIERE DELLA SERA
sabato 18 dicembre 2010
Non è un regalo ma una conquista
Finirà questa discesa nel vuoto, questa disgregazione del paese Italia, civile e fisica? In quest'autunno di pioggia senza fine gli italiani guardano in televisione il loro "bel paese ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe" disfarsi in frane e smottamenti, lo "sfascio pendulo" che si consuma, che vien giù con le sue case e le sue chiese millenarie, i superstiti che indicano ai cronisti la linea bianca della frana e raccontano storie di parenti, di amici scomparsi sotto il fiume di fango.
Finirà questo imbarbarimento della politica ridotta ai giochi e alla volgarità di un sultano che l'ha sostituita, coperta con la sua ossessiva fame di potere, di ricchezza e di protagonismo?
Finirà, finirà anche questa volta: chi ha conosciuto la caduta del fascismo e il ritorno alla democrazia e gli anni dei miracoli economici e politici sa che finirà, che si troveranno sempre i mille di Garibaldi o della guerra partigiana, le minoranze capaci di riunire il Paese o di combattere gli invasori, capaci di rovesciare gli opportunismi millenari, di chiedere al signore della storia di dargli tempo, dopo l'8 settembre del '43, di pagare il ritorno alla libertà, non di averlo in regalo.
Una cosa va detta: nessuno, neanche il più pessimista, pensava che saremmo finiti così in basso, che il sultano brianzolo sarebbe arrivato al pubblico dileggio della democrazia, all'esortazione a "non leggere giornali", a garantire i segreti dei potenti. C'è chi ha detto del sultano: la sua eccellenza politica consiste in questo: ha fatto degli italiani suoi complici, che riconoscono nei suoi difetti i loro difetti, la loro furbizia, il loro gallismo, i loro piaceri plebei, la loro voglia di harem, il loro squadrismo. L'ha fatto perché è fatto così o per calcolo sottile, perché conosce se stesso e il suo prossimo, perché sa che il male è più divertente del bene. Di certo le ultime sortite contro l'informazione, contro la giustizia, contro lo Stato, contro la democrazia erano mirate all'eterno qualunquismo italico, e così l'esibizionismo dei suoi piaceri volgari a misura piccolo borghese, le feste che piacciono al generone, coca e puttane, ville nei Caraibi, in Sardegna e sul lago Maggiore. E su tutto l'attivismo incessante, il "faso tuto mi", anche l'amor del prossimo, la protezione delle minorenni ladruncole.
Finirà, anche stavolta finirà.
Non lo dico per una vana patriottica speranza, ma perché so che può accadere, che è già accaduto, nel settembre del '43 quando i mille che diedero il via alla guerra partigiana salirono in montagna. Il pensiero affliggente e paradossale di quella minoranza era: non sarà troppo tardi? Gli alleati angloamericani padroni del mare e del cielo non sbarcheranno in Liguria come sono sbarcati in Sicilia? Quanti giorni ci rimarranno per meritarci sul campo il ritorno alla democrazia e alla libertà? Sì, a dirlo può sembrare retorico, ma la guerra che continuava, la lenta risalita dei liberatori dalla Sicilia alla Pianura padana furono per la Resistenza un sollievo: inspiegabilmente la strategia dei vincitori ci concedeva il tempo per il nostro esame di riparazione, avremmo avuto il tempo di formare un esercito di popolo, il Corpo volontari della libertà come fu chiamato.
Anche allora gli attendisti, i prudenti, quelli di buon senso pensavano che fosse meglio aspettare che la tempesta passasse da sola, "chinati giunco che il maltempo se ne andrà". Ma avevano ragione i mille, la libertà la si conquista, non la si riceve in regalo.
di Giorgio Bocca; L'ESPRESSO
Simpatia
Non c'è nemmeno un Andy Warhol alla vaccinara, una versione provinciale dell'arte-provocazione, dello scandalo creativo. C'è soltanto l'insipienza estetica del sindaco di Roma coniugata con la furbizia imprenditoriale di un allegro neocostruttore d'auto. Il risultato è l'esibizione - gratis - dentro l'Ara Pacis, di due modelli di una stessa utilitaria.
Il lancio commerciale della Dany, una piccola automobile che, per quello che si vede, somiglia a tutte le altre utilitarie del mondo. Ma se è vero che questa automobile stona dentro il museo, non stona certo come accadde ai baffi sul viso della Gioconda, senso forte dei tempi moderni, né ha la forza dei monumenti impacchettati dal bulgaro Christo, non è l'ossimoro visivo, non è la contaminazione dei generi, ma è solo una delle mille volgarità - piccola questa volta, anche se significativa - commesse di questi tempi contro la cultura italiana.
Gli avessero almeno chiesto dei soldi a Stefano Maccagnani, che adesso non sa spiegare perché hanno concesso a lui quello che hanno negato a tanti altri, Maserati compresa: "È vero, mi hanno fatto un favore, forse per premiare un prodotto tutto italiano, che sarà costruito interamente a Roma". E se invece Maccagnani, che prima produceva materiale militare per la Difesa e aveva fatto parte della cordata messa assieme da Berlusconi per salvare Alitalia e, nel giorno della fiducia, ha pure scritto un'appassionata lettera al presidente del consiglio, se invece Maccagnani dicevamo, fosse solo un raccomandato, come tutti quelli che sono stati assunti nelle municipalizzate romane? "No. Al massimo sono più simpatico degli altri".
Certo, se gli avessero imposto almeno un ticket per l'uso privato del museo, ora staremmo a discutere se è giusto o sbagliato affittare i monumenti a fini commerciali, se è lecito noleggiare il Pantheon per una "convention", far sfilare l'alta moda all'Altare della Patria, promuovere un profumo davanti alla Primavera del Botticelli, vendere lingerie alle mademoiselles d'Avignon. I monumenti non sono certo sacri, e restituirli alla vita guadagnando qualche soldo forse potrebbe non essere male.
E invece la gratuita esposizione pubblicitaria della versione elettrica e della versione a benzina di questa Dany è stata voluta dal Comune "per amore della cultura". E si capisce subito che quest'auto dentro l'Ara Pacis fa il verso a invenzioni, slogan, immagini della grande arte, alle peripezie dei pennelli di Boccioni, di Picasso e di Magritte. Ma è un orecchiare appunto. Perché qui non c'è neppure la raffinatezza maliziosa della pubblicità, della cartellonistica e degli spot che chiedono solidarietà, ammiccano, seducono e sempre impongono un rapporto di grande complicità. C'è soltanto un'auto dove non dovrebbe stare col risultato di imbruttire sia l'auto sia il museo. E si ritrova come costante la cecità o, se preferite, l'insensibilità estetica di una generale amministrazione dei beni culturali ed artistici alla quale non importa nulla né di Pompei né dell'Ara Pacis.
È vero che l'Altare alla pace romana ha già subito ogni genere di insulto, da quel gabinetto che fu abbandonato all'ingresso del museo nel 2009 sino al disprezzo del sindaco Alemanno il quale appena eletto dichiarò di voler distruggere la teca di Richard Meier. "Ho scelto l'Ara Pacis perché e un luogo ameno" mi dice invece Maccagnani che forse non sa cosa significa "ameno", ma ha l'aria furba di chi pensa di passare alla cassa sfregiando un capolavoro o montando il destriero del Gattamelata.
Di sicuro questa autopromozione è stata approvata della sovra-intendenza di Roma e benedetta del sotto-segretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta: "Mi ha fatto l'onore di venire". Ed è forse tutto qui l'evento: un "sotto" che si crede "sopra", un favore promozionale spacciato per sapienza estetica, roba da chiamare la polizia del buon gusto, se esistesse.
Considerando che nella Roma di Alemanno i raccomandati "simpatici" sono battaglioni è possibile che questo nuovo buon gusto prenda piede nei luoghi e nei simboli d'arte e si faccia moda, con la complicità appunto tra il sotto e il sopra, tra la sotto-Italia e la sovra-Italia, tra il sotto-segretario e la sovra-intendenza.
di Francesco Merlo; la Repubblica
Opposizione
L’astutissima intervista in cui Bersani liquida le primarie e annuncia di volersi alleare con Fini e Casini anziché far fronte comune con Vendola e Di Pietro ha finalmente ricompattato il popolo dei democratici. Lo si evince da una passeggiata nel sito del Pd.
«Sono un ex iscritto e tra poco sarò un ex elettore» (Francesco). «Ma Fini è di destra! Come è possibile anche solo pensare a un’alleanza con lui?» (Michele). «Stasera restituisco la tessera» (Francesca). «Così non andiamo da nessuna parte, anzi sì: al suicidio» (Chiara). «Mi domando cosa avete nel cervello. Ma davvero le partorite voi queste cavolate? Andatevi a nascondere e non fatevi più rivedere!» (Gianni). «Cacchio, ma si può?» (Gian Piero). «Se succede, lascio il partito in un secondo» (Gianluca). «Bersani fa bene, sono d’accordo con lui» (Fassina, ma forse è la sorella dell’ex segretario). «Cioè, fatemi capire: dovrei scegliere alle prossime elezioni fra Fini e Berlusconi?» (Alessandro). «Dopo la fatica che abbiamo fatto a liberarci di Binetti e Rutelli, paffete che ci ritroviamo a subire i loro veti!» (Monica). «State ancora una volta riuscendo a rivitalizzare Berlusconi. Sono allibito» (Stefano). «Ero un ventenne che aveva trovato una piccola speranza. Ora lei me l’ha spenta di nuovo. Grazie, segretario» (Riccardo). «D’ora in poi come inizierà i suoi comizi? Cari democratici, cari compagni, cari camerati?» (Concita). «Grazie a tutti quelli che stanno commentando l’intervista» (Pier Luigi Bersani). «Segretario, tu ci ringrazi, ma i commenti li leggi o guardi solo le figure?» (Monica).
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
martedì 14 dicembre 2010
sabato 11 dicembre 2010
giovedì 9 dicembre 2010
Quanto sono belli i passerotti
Quanto invidio mia moglie, che riesce ad assentarsi dal telegiornale per guardare una coppia di passerotti appollaiati sulla ringhiera del balcone. Io, noto masochista, pure nel dì di festa non stacco gli occhi dal racconto della crisi, dove gli ex missini scorrono a frotte: La Russa, Gasparri, Ronchi, Urso, Matteoli, Bocchino, non se ne vedevano tanti, e tutti insieme, dalla giornata dell’oro alla Patria del 1935. Dopo la cacciata da Berlusconia, Bocchino ha chiesto asilo politico a un cameraman: lunedì litigava con La Russa a «Porta a Porta», martedì si accapigliava con Rotondi a «Ballarò» e ieri faceva jogging solitario in un boschetto di microfoni.
Fosse solo Bocchino. Poi ci sono tutti gli altri. I soliti ignoti, il cui voto non ha mai contato un tubo e ora invece può far cadere governi e sbilanciare bilanci allargando lo spread con la Germania, come ripetono minacciosi gli economisti. Così restiamo appesi, noi e lo spread, agli umori dell’onorevole Scilipoti, dipietrista apparentato con Rossella O’Hara, che «oggi la mia posizione resta quella di ieri, ma domani vedremo» e annuncia una conferenza stampa con Cesario che potrebbe partorire ribaltoni a breve, mentre Calearo aggiorna il tassametro della fiducia (da 350 mila euro in su) e Razzi ammette che le proposte sono allettanti, specie per chi ha un mutuo da pagare come lui. Confidavo nella nota rigidità dei sudtirolesi, ma il tg dice che stanno trattando l’astensione in cambio della segnaletica bilingue e allora spengo la tv con un’espressione intraducibile e mi metto a guardare i passerotti anch’io.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
martedì 7 dicembre 2010
Il colore
Ogni persona, di origine italiana o straniera, dev'essere sempre giudicata singolarmente, per quello che è. È la più ovvia delle frasi.
L'ha pronunciata ieri il cardinale arcivescovo di Milano. Ci sono momenti in cui non ripetere le parole più ovvie diventa una viltà. Sia risparmiato alla nostra generazione il ritorno di quei momenti, se già non ci siamo.
Scrivo mentre le notizie sull'indagine per la scomparsa della piccola Yara si fanno incerte, e vengono in dubbio i sospetti sul giovane arrestato. E si riaccende una speranza per lei, che è la cosa più importante. Se i sospetti su un presunto colpevole sono stati precipitosamente trattati come certezze, anche della sorte peggiore di Yara si potrà dubitare.
Ci sarà tempo per riflettere. Ma qualcosa è già successo e se ne può misurare la tristezza. È successo ancora una volta che a un evento terribile - la paura di un evento terribile, e la convinzione che si fosse consumato - siamo stati tentati di reagire, prima che nelle manifestazioni esteriori nei nostri stessi sentimenti intimi, trasferendo il dolore per la vittima, la compassione con i suoi e la ripugnanza per i suoi carnefici, nell'ansia per le conseguenze civili e perfino politiche dell'imputazione di uno straniero. Un simile trasferimento è anche un modo di attutire e sfogare la commozione, ma è soprattutto la misura di un guasto che ci va rosicchiando dentro. Dentro quelli fra noi che corrono a gridare minacce di furia cieca o calcolata, e anche dentro chi ne è spaventato e si affanna ad arginarne i danni. Così ci si trova subito a ripetere pensieri di desolata ovvietà, che ad Avetrana e in mille altri inferni la brutalità è indigena e domestica, che l'infamia umana non ha colore.
Ci sono state però dall'inizio, in questa storia angosciosa, cose diverse e degne di ammirazione e di considerazione. Prima di tutto l'atteggiamento di una famiglia, che ha rigettato ogni sfogo vendicativo, e tanto più quelli esibiti per conto terzi; e si è limpidamente sottratta allo spettacolo della propria sofferenza. Dunque questo può avvenire, e i media possono prenderne atto. È successo anche che il sindaco (leghista, ma è appena un dettaglio) di una comunità colpita abbia dato un chiaro sostegno a questo atteggiamento della famiglia, e abbia messo al bando i propositi razzisti, xenofobi e linciatori. Chi ha avuto una gran fretta di pronunciare parole orrende di odio violenza e - non ultima - imbecillità, non ha potuto farlo in nome delle vittime o di una comunità. Solo in conto della propria violenza, odio e, non ultima, imbecillità.
Adesso aspettiamo. Restituendo ai sentimenti e ai pensieri dell'attesa il loro ordine naturale. Cominciando dalla trepidazione per una creatura cui il mondo dovrebbe essere solo promettente, e dalla simpatia per i suoi. E poi pensando al prezzo che paga un paese indotto a chiedersi di colpo, di fronte a un sequestro, uno stupro, un assassinio, una sciagura stradale, se il sequestratore, il violentatore, l'assassino, il guidatore sciagurato, sia italiano o no, e a compiacersi che lo sia o pregare che non lo sia. È una questione morale, psicologica, civile, ed è per eccellenza una questione politica. Una questione banalmente culturale, anche. Perché a distanza di un paio di generazioni dall'avvento della questione migratoria forse bisognerebbe contare di più sulla capacità di tradurre affidabilmente dall'arabo la preghiera: "Allah mi protegga" o "Allah mi perdoni".
di Adriano Sofri; la Repubblica
sabato 4 dicembre 2010
Wiki wiki
Diciamo la verità: per ora è stata più eccitante la Waka Waka del Wiki Wiki. I rapporti degli ambasciatori americani, rivelati in un’atmosfera thriller dal sito Wikileaks, sembrano una scopiazzatura di Dagospia e forse lo sono. Berlusconi è un donnaiolo vanitoso che fa affari con il macho Putin. Sul serio? E io che quei due me li ero sempre immaginati dentro la biblioteca di un monastero, immersi nella lettura dei «Fratelli Karamazov». Sarkozy: uomo permaloso e dispotico. Strano, con quell’aria umile e remissiva, tipicamente francese. La Merkel, poi: ostinata, prudente, poco creativa. Tutto il contrario dell’immagine dei tedeschi, genia di improvvisatori estroversi. Aspettiamo qualche indiscrezione sul presidente svizzero che va matto per il cioccolato fondente e gli orologi a cucù. Ah, ma ce n’è anche per Gheddafi: uccide le rughe col botulino e si fa scortare da un’infermiera bionda. Un’informazione top secret (se si escludono quelle due o trecento copertine sull’argomento) che cambierà la storia. Come quell’altra, secondo cui i diplomatici fanno le spie. Da alcune migliaia di anni, verrebbe da dire. Almeno giustificano lo stipendio, perché per fare il «copia e incolla» degli articoli di giornale bastava una segretaria.
Sicuramente domani usciranno prove di torture, golpe, alieni seppelliti nel deserto con le antenne di fuori. Ma per adesso la vera vittima di Wikileaks è il mito della carriera diplomatica. Con gli ambasciatori, per secoli burattinai del potere, ridotti a messaggeri dell’ovvio.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
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