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sabato 26 marzo 2011
Tutto è bene
Come il Pangloss di Voltaire che tesseva l’elogio del terremoto di Lisbona coi parenti delle vittime, Roberto De Mattei ha spiegato dai microfoni di Radio Maria che lo tsunami giapponese «è stata un’esigenza della giustizia di Dio» e che «per i bimbi innocenti morti nella catastrofe accanto ai colpevoli» (ma colpevoli di che?) si è trattato di «un battesimo di sofferenza con cui Dio ha inteso purificare le loro anime». Ora, Pangloss era un paradosso letterario. Ma De Mattei esiste davvero ed è pure il vicepresidente del Cnr, tempio e motore della ricerca scientifica.
Inutile replicare alle sue farneticazioni, offensive per qualsiasi credente dotato di un cervello e soprattutto di un cuore. Chissà se avrebbe il coraggio di ripeterle in faccia ai frati che si videro cascare addosso la basilica di Assisi: immagino che, per De Mattei, il Dio dei terremoti avesse deciso di castigare anche loro. Ma in quale Paese l’autore di simili affermazioni può restare ai vertici della ricerca finanziata dal denaro pubblico, senza che si muova il governo o almeno la Croce Rossa? Forse solo nel migliore dei mondi possibili vagheggiato da Pangloss. E in Italia, naturalmente. Dove due anni fa il vicepresidente del Cnr organizzò, a spese del Cnr, un convegno contro Darwin, che è come se il vicepresidente dell’Inter organizzasse un convegno contro Mourinho. Possibile che quest’uomo non avverta l’incompatibilità paradossale fra la sua carica e le sue idee? Non resta che invocare l’intervento divino: un terremoto «ad personam» che gli sfili la poltrona da sotto il sedere.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
mercoledì 23 marzo 2011
Appluasi
L'Italia è un paese immerso nello show da parecchi anni, ma la scena che si è vista ieri al tribunale di Milano era ancora inedita: la claque in un aula di giustizia. Era già capitato, in passato, di udire strepiti e invettive levarsi dal ridotto pubblico che assiste ai processi: ma in genere si trattava di parenti degli imputati o delle vittime, scossi da qualche sentenza.
Altre manifestazioni, alcune molto civili altre meno, si erano dipanate attorno ai palazzi di Giustizia, che sono diventati, loro malgrado, un palcoscenico non secondario del lungo sfacelo di una classe dirigente. Ma quella di Milano è stata una piccola premiere: tifosi organizzati, con volti e linguaggio da studio televisivo del pomeriggio, hanno pensato che il processo fosse un ottima occasione per dare corpo, sia pure in miniatura, al loro amore per "Silvio".
Le parole e i concetti espressi davanti all'occhio crudele delle telecamere non facevano pensare a un'adunata politica: per lo meno non in senso classico. Piuttosto, replicavano il giubilo emotivo dei fan di un cantante o di un attore, quei crocchi di teen-ager o di massaie che cingono d'assedio l'Ariston quando c'è il Festival, o i mega-store dove si firmano gli autografi. La star non c'era ("ci fosse stato Lui saremmo stati il doppio", ha dichiarato una delle creature presenti), ma c'erano i suoi avvocati, portati in trionfo come body guard che vegliano sulla Sua incolumità.
Naturalmente, anche una folla di giuristi e costituzionalisti schiamazzanti, benché più autorevole e ferrata in materia, sarebbe stata cortesemente allontanata dalle forza dell'ordine. Ma l'idea di totale incongruenza politico-giuridica che eruttava dalle parole e dal comportamento dei Silvio-boys (and girls) rimanda direttamente allo sfascio strutturale del discorso pubblico di questo Paese, affidato alle viscere, ai moti affettuosi e/o ringhiosi, alle affermazioni più rudimentali ("io sto con lui qualunque cosa abbia fatto", "lasciatelo lavorare", "smettetela di prendervela con lui").
Chiunque, e in qualunque veste, abbia assistito a un processo importante, ne conosce la grave, quasi inquietante solennità. Poiché si parla di colpa e di innocenza, e si decidono destini umani, si suole ascoltare e tacere, e a volte tremare o impietosirsi. Si sente, si capisce che nessun pregiudizio può mettere in secondo piano, nella drammaturgia processuale, il giudizio. E questo può piacere o non piacere (più spesso: non piacere), ma appartiene alle convenzioni di una comunità civile. Tanto è vero che nei film e telefilm di genere, quando l'arringa è pronunciata o la sentenza emessa, il giudice, severo e autorevole, invita a sgomberare l'aula al primo mormorio irriverente. E perfino nei vari para-processi televisivi nei quali magistrati in pensione dirimono le liti tra figuranti, nessuno si è ancora sognato di introdurre un pubblico vociante.
Benché ingozzati di televisione fino a stordirsene, i berluscones affluiti ieri a Palazzo di Giustizia non hanno messo a profitto queste solide tradizioni. Fiocco azzurro sul petto, volevano dare voce al loro ardore contro le toghe rosse e le astruse congiure (ah, quei difficili articoli di legge, ah quei faldoni più opprimenti di un libro) ai danni del loro "Silvio", che ha ragione in quanto Silvio, e in quanto Silvio è al di sopra di ogni banale impiccio giuridico.
Ora si spera che animosi di opposto sentire non vogliano costituire una claque colpevolista. Ai processi, se non si è avvocati o giudici o imputati, si ascolta e si tace. Simbolicamente, fare sgomberare l'aula processuale serve anche a ricordare che non tutto, nella vita, è applausi e fischi. Per quanto stupefacente, è una notizia che in qualche maniera, o prima o dopo, riuscirà ad arrivare anche alle orecchie dei settori meno avveduti dell'audience nazionale.
di Michele Serra; la Repubblica
martedì 22 marzo 2011
Chi ci capisce è bravo
Certe mattine mi sveglio con la sensazione che l’Occidente sia in mano a una banda di megalomani intontiti. Oggi è una di quelle mattine. Intanto vorrei conoscere il cervellone del Pentagono che ha inventato il nome della guerra libica: Odissea all’alba (o Alba dell’odissea, non è chiaro neanche questo). Sarà lo stesso che ha partorito i manifesti dell’Oltre(tomba) di Bersani? Come tasso iettatorio siamo lì, essendo «odissea» sinonimo di peregrinazione infinita. Poi non si è ancora capito chi comanda. Sarkò pensa di essere Napoleone, e non si trova un francese disposto a chiamare l’ambulanza. Silviò ha da pensare agli scilipoti suoi e non vorrebbe bombardare nessuno (al limite la Boccassini), per cui fa sapere che i nostri aerei volano sulla Libia ma non sparano. Cosa facciano non si sa, ma la fanno senza entusiasmo, spiega La Russa, ardito in crisi depressiva. E comunque mai per ordine della Francia, specifica Frattini, piuttosto dell’America. Già, ma quale America? Quella cingolata di Hillary Clinton che vuole ridurre Gheddafi a un soufflé? O quella burrosa di Obama, che prima scimmiotta la prosa guerrafondaia di Bush (gli ha copiato l’intero discorso dell’attacco all’Iraq) e poi fa dire al suo ministro della Difesa che nei prossimi giorni bombarderà un po’ meno?
Sì, tale è la confusione sotto il cielo del Mediterraneo che avrei voglia di tornare a dormire. Se non fosse che negli incubi la Cina si pappa pure l’Africa del Nord. Forse, amico Occidente, è il caso di mettere la sveglia.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
giovedì 17 marzo 2011
150 volte cerea
Come tanti torinesi in questa giornata di festa, passeggio sotto i portici imbandierati del centro levandomi il cappello ogni volta che qualcuno mi saluta: «Cerea». Cerea. Anzi... buongiorno!». Oggi si parla italiano. Perché oggi sulla Gazzetta Ufficiale del Regno è nata l’Italia e, comunque la pensiate, è una gran cosa. Una cosa fatta da noi. Già, noi. Una minoranza di entusiasti. Ma sono le minoranze di entusiasti a fare la storia, per poi imporla ai pigri e agli scettici come epica collettiva. Davanti a Palazzo Carignano bivacca un gruppo di patrioti lombardi che cantano Mameli a squarciagola. Soltanto uno rimane in silenzio: «Perché tu non canti, Trota?» lo apostrofa un bergamasco. «Perché son federalista». «E alura? Gli americani sono più federalisti di te. Però quando parte l’inno nazionale si mettono la mano sul cuore! Te capì?».
Uno stormo di tonache svolazza sul selciato, lanciando anatemi contro il misfatto appena compiuto da quella banda di massoni: unire l’Italia contro la volontà del Santo Padre! Svoltano l’angolo, ma uno dei pretini torna indietro, lanciando occhiate furtive. Quando è sicuro che i confratelli non lo vedono, estrae dalla tonaca un fazzolettone tricolore e lo sventola in direzione dei ragazzi lombardi. Poi lo rimette in tasca, si fa il segno della croce e fugge via. Fosse un profeta direbbe: «Fra un secolo e mezzo persino il Papa la penserà come me». Invece è solo un povero diavolo innamorato dell’Italia, nonostante tutto. Come tanti italiani in questa benedetta domenica 17 marzo 1861.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
mercoledì 16 marzo 2011
sabato 12 marzo 2011
La distruzione delle farfalle
Perfino la Torre di Tokyo non ha retto lo shock e si è piegata. La freccia di acciaio puntata verso il cielo adesso è un emblema triste della tecnologia sconfitta.
Con la Tokyo Tower si è piegata l'illusione di prevenire le catastrofi e proteggersi grazie alla ricchezza. Il mondo intero assiste sgomento alla sofferenza del paese più evoluto, più sofisticato nelle tecniche antisismiche e nella protezione civile. La Tokyo Tower, quell'antenna tv di 330 metri che manda i segnali della rete Nhk, non è solo la torre Eiffel dei giapponesi e la loro risposta all'Empire State Building. E' il simbolo di una nazione che "si piega ma non si spezza", che ha assorbito la tragedia unica nella storia umana di due olocausti nucleari. Da ieri il Giappone ha capito che non basta sapersi "piegare", la flessibilità delle nuove tecnologie di costruzione non lo ha salvato dalla tragedia. La modernità è sconfitta e molti abitanti della capitale d'istinto ieri sono fuggiti verso le piazze e i parchi antistanti il Palazzo imperiale: è l'unica zona di Tokyo dov'è proibito costruire grattacieli, e tutti gli edifici sono bassi. Per chiamare parenti e amici si sono gettati verso i vecchi telefoni a gettoni, i soli risparmiati dal grande black-out delle comunicazioni che per ore ha ammutolito i cellulari. Hanno dato l'assalto ai negozi di biciclette: il mezzo di trasporto più antico era l'unico a poterli riportare a casa, nel caos immane degli ingorghi stradali e della paralisi di treni e metro. Tutto ciò che il Giappone ha costruito di più avanzato, ieri era al collasso: come le centrali nucleari da cui dipende un terzo della sua energia elettrica. E' dovuta intervenire la US Air Force dalle basi militari americane per rifornirle d'urgenza con il "liquido refrigerante" dopo che i sistemi di raffreddamento del reattore atomico di Fukushima si erano guastati. "Emergenza nucleare", ha proclamato il governo, e un altro allarme si è aggiunto al sisma, nonostante i decenni di esercitazioni per garantire che le centrali atomiche giapponesi erano a prova di terremoto.
E' uno spettacolo a cui assiste sgomenta la superpotenza amica sull'altra sponda dell'oceano. L'America si è svegliata col terrore che lo tsunami travolgesse le Hawaii, poi la West Coast. Intere città della California sono state evacuate ma le onde gigantesche hanno fatto una vittima in mare a Crescent City, e danni in diverse zone costiere. Ma è soprattutto l'immagine del disastro giapponese seguito in diretta dagli americani col fiato sospeso, ad accentuare il senso d'impotenza. "Il Giappone ha le leggi antisismiche più rigorose del mondo - osserva il New York Times - lo stesso sisma in qualsiasi altra nazione del mondo, anche le più ricche, avrebbe già fatto decine di migliaia di morti in poche ore". Gli americani lo sanno, neppure la California ha investito tanto quanto il Giappone: nei grattacieli costruiti per "piegarsi e non spezzarsi" assorbendo l'impatto; nelle dighe costiere anti-tsunami; nei sensori digitali che collegano perfino le abitazioni individuali col più vasto sistema elettronica di allerta. Di certo avrà limitato il bilancio delle vittime, ma è pur sempre una tragedia. Quando prende la parola Barack Obama promettendo "tutti gli aiuti che il governo giapponese ci sta chiedendo", l'America sente che questa tragedia è un segno di vulnerabilità globale. E' un altro "cigno nero", uno di quegli eventi che gli statistici definiscono "a bassissima probabilità, e altissimo potenziale di danno".
Come la crisi dei mutui che precipitò il mondo nella recessione del 2008-2009. Di nuovo l'America teme che si addensi all'orizzonte una "tempesta perfetta". Il doppio shock terremoto-tsunami in Giappone è l'ultimo dei colpi all'economia globale che si sono susseguiti improvvisamente in poche settimane, oscurando un orizzonte che sembrava volgere al bello. Prima c'era stata l'onda delle rivoluzioni anti-autoritarie del mondo arabo, con il suo impatto collaterale sui prezzi petroliferi "che da solo è già una pesante tassa sulla crescita" secondo il banchiere centrale Ben Bernanke. Legato al caro-petrolio c'è il ritorno delle aspettative inflazioniste. Il più grande fondo obbligazionario mondiale, Pimco, ha venduto tutto il suo portafoglio di Buoni del Tesoro, talmente è certo che le banche centrali dovranno rialzare i tassi presto (in quel caso i vecchi Bot si deprezzano brutalmente). Poi è arrivata una sorpresa dalla Cina: le sue esportazioni sono cresciute solo del 2,4% negli ultimi dodici mesi. Si teme che la cura anti-inflazione della banca centrale cinese cominci a "mordere", ma se rallenta la locomotiva asiatica tutto il mondo ne sentirà le conseguenze. Il terzo shock simultaneo è venuto dall'agenzia di rating Moody's con il declassamento del debito sovrano della Spagna. "L'Europa torna ad essere una bomba a orologeria", è il commento di Desmond Lachman dell'American Enterprise Institute sul Washington Post.
L'ultimo shock è la calamità che mette in ginocchio il Giappone, terza economia del pianeta. Una catastrofe paradossalmente "amplificata" proprio dalla modernità e dalla ricchezza: perché il Giappone in quanto paese avanzatissimo è iper-assicurato (a differenza dell'Indonesia) e quindi i danni si ripercuotono immediatamente sui bilanci delle compagnie assicurative mondiali. Se il disastro di Kobe nel 1995 costò 100 miliardi, a 15 anni di distanza l'impatto non può che essere moltiplicato. Il "battito d'ali di farfalla dall'altra parte del pianeta che genera un uragano" non è un'immagine letteraria, è la teoria del caos che studiano i matematici. Tre, quattro farfalle in simultanea, possono piegare non solo la Torre di Tokyo ma un mondo senza pareti né compartimenti stagni, dove il contagio delle crisi viaggia alla velocità della luce.
di Federico Rampini; la Repubblica
mercoledì 9 marzo 2011
Ufficio intuizione
L’orrore è spudorato, ma la meraviglia coltiva la riservatezza. Perciò dei protagonisti di questa storia sappiamo solo che sono veneti. E che sono stati sposati. Poi lui si ammala gravemente e ha bisogno di un rene compatibile che, come capita spesso, non si trova. L’ex moglie lo rivede, coglie la situazione e senza dirgli nulla si presenta al centro trapianti di Padova. Disposta a donare un pezzo del suo corpo all’uomo con cui ha diviso un pezzo della sua vita. La commissione medica ha già dato il nulla osta, si attende a giorni quello del magistrato.
Subito interpellato dal sottoscritto, l’ufficio cinismo (ha sede in una stanza acciaccata del cuore) comunica che la donna agirebbe in preda alla sindrome di Stoccolma - l’attrazione per il proprio persecutore - oppure al senso di colpa, a seconda che nel matrimonio naufragato avesse più sofferto o più fatto soffrire. Invece l’ufficio pragmatismo (si trova nell’emisfero sinistro del cervello e salva l’essere umano dai precipizi, anche se gli impedisce di volare) insinua che l’ex moglie sarebbe mossa dal senso materno: verso l’ex marito o gli eventuali figli, per non farne degli orfani. Ma l’ufficio intuizione (emisfero destro del cervello, poco frequentato) azzarda una terza ipotesi piuttosto straordinaria: che l’amore di quella donna per quell’uomo non sia finito col matrimonio e la riconosciuta impossibilità di vivere insieme. Perché l’amore, le rare volte in cui è davvero tale, non è un’emozione e neppure solo un sentimento. E’ un’energia. E l’energia non la puoi fermare, purtroppo. Per fortuna.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
lunedì 7 marzo 2011
La giustizia del cuore
Questa storia comincia con un malato cardiaco che sta morendo in ospedale. E con un cuore nuovo a bordo di un aereo-ambulanza, fermo sulla pista in attesa di spiccare il volo. Fra il malato e il cuore ci sono 400 chilometri e un cielo pieno di neve. In sala operatoria tutto è pronto per l’espianto del cuore guasto, eppure il chirurgo frena: prima, dice, assicuriamoci che l’aereo parta davvero. Scelta giusta numero 1: la saggezza. Sulla pista nevica fitto, non ci sono le condizioni per decollare, ma il pilota e l’équipe medica sanno che è questione di vita o di morte e così decidono di mettere in gioco la loro, di vita. Scelta giusta numero 2: il coraggio.
L’aereo prova ad alzarsi, ma la tormenta lo sbatte a terra, costringendolo a piegarsi su un’ala. Tutti sani e salvi tranne il cuore, che l’urto ha reso inservibile. Nessuno recrimina, nessuno perde la testa. Viene lanciato un appello per un cuore nuovo. Scelta giusta numero 3: il carattere. La fortuna ha un debole per i forti: il cuore viene subito trovato e condotto a destinazione in tempo utile per salvare il paziente. Intanto ha smesso di nevicare e l’aereo azzoppato può decollare: dal cuore inservibile i medici riescono comunque a recuperare due valvole. Serviranno ad altri malati. Il gesto di un eroe dipende, in fondo, da un uomo solo. Mentre questa storia è meravigliosa perché allinea una serie ininterrotta di gesti giusti compiuti da un numero rilevante di persone. Che sia potuta succedere in Italia (fra Torino, Lecco e Forlì) è una di quelle notizie che fanno davvero bene al cuore.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
martedì 1 marzo 2011
Illuminazione semplificata
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgp7ArHN1b3cS5YdNpTkfZndWzqaN5AdaEMXlR1X6qkqXvuwFgjxTwgQHLPAS8S_3aVGsqXAgKm38hyphenhyphenJjK_5-ju6puBHXMpvTn3U3dE6sVshwqJy3lZj6wcXKhVOoOo_rxSbY2-wKGY2SE/s400/59636c7f628740299a5508f1a4a458eb_7.jpg)
Per certe cose neanche Calderoli può bastare:
eccovi un segnalibro digitale.
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