martedì 21 giugno 2011

Tutto si spiega

Che paura

Guai a tremare davanti a Bossi, che fa il lanzichenecco e tenta un nuovo sacco di Roma, agitando uno spadone di latta e una fifa blu (anzi verde) di non beccare più un voto neppure negli alpeggi più hard. Infischiarsene del leghista Salvini che fa il duro, e annuncia che l’Italia intera deve obbedire alla loro pretesa di spostare i ministeri da Roma, altrimenti... «Altrimenti c’arrabbiamo», dice il capetto lumbard, citando il titolo del celebre film di Bud Spencer e Terence Hill.

Replicare con una risatona, possibilmente farcita di alitate alla coda alla vaccinara o alla pajata, come quella che la Polverini ha fatto mangiare lo scorso anno al Senatur imboccandolo come un infante munito di cravatta verde al posto del bavaglino, di fronte a Calderoli che va in giro esponendo una targa di ottone con su scritto il nuovo indirizzo del ministero della semplificazione legislativa. Ossia il suo giochetto personale, a spese pubbliche, che da Roma dovrebbe finire in qualche sperduto caseggiato di Monza (e comunque non lo rimpiangeremo).

Ecco, occorre essere superiori e gradassi al cospetto delle sparate anti-romane dei lumbard. Perchè resta valido e sacrosanto quel grido che un bottegaio di via Cavour, anni fa, uscendo dal suo negozio e imbattendosi in una sfilata leghista per le vie dell’Urbe, lanciò contro i manifestanti: «Ao, quando voi vivevate ancora sugli alberi, noi quaggiù eravamo già gay!».

di Mario D'Ajello; Il Messaggero

Elefantino delirante

«Il problema non è nelle quattro fesserie che si sono detti al telefono gli attori dell’ultimo teatrino detto della P4. Il problema è che la politica è così debole e divisa da non riuscire a impedire lo scandalo infinito delle retate telefoniche». Sono vent’anni che Giuliano Ferrara scrive in ottimo italiano lo stesso articolo (le righe succitate sono apparse domenica sul Giornale). Vent’anni - in realtà molti di più, considerando il periodo comunista - che questo prete spretato del Potere, allergico alla spiritualità quanto affascinato dal carisma sgangherato dei leader, sostiene che lo scandalo non sono i maneggioni, ma il racconto dei loro maneggi. La politica non deve essere onesta. Deve essere forte. E’ solo quando perde forza che diventa pericolosa. Non quando fornisce cattivi esempi a una società che le fa la morale, ma fa di tutto per assomigliarle. La politica non sbaglia a essere turpe. Sbaglia quando consente ad altri di giudicare la propria turpitudine. I potenti rubano, trafficano, vanno a supermignotte. E’ nella loro natura di predatori. Sarebbe meglio se lo facessero con più stile. Ma tant’è. L’importante è che suppliscano al disprezzo per le regole con l’energia vitale. Ai barbari non si chiede di rispettare le convenzioni, ma di fondare imperi.

Fine del «bignamino» di Ferrara, almeno nell’interpretazione di un pericoloso seguace del partito d’Azione. A cui però hanno insegnato che la politica può essere anche altro. Tensione morale, slancio di giustizia. Poiché agisce nel mondo, spesso ha le mani impolverate. Ma allora se le sciacqua, invece di incolpare il sapone.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Forza, a casa!!!

E' un complotto

No, questo è troppo. Anche per chi lo considera il principale responsabile del rimbecillimento televisivo di alcune generazioni di italiani, il trattamento che il vecchio attore a fine carriera Silvio Berlusconi sta riservando a se stesso è quasi straziante. Dopo aver incolpato Crozza per la sconfitta ai referendum, ieri ha telefonato a un convegno di italoamericani in Calabria presieduto dal fido onorevole Nucara. «Pronto?». La sua voce tristemente allegra ha echeggiato nella sala sgombra. Se n’erano già andati via tutti. Rimaneva solo un drappello di tecnici addetti allo smontaggio, che lo hanno sentito predicare il suo verbo berluscottimista in un deserto di sedie vuote, fili penzolanti e luci ormai spente. Richiamati precipitosamente dal buffet, il Nucara e un riccone italoamericano sono andati al telefono per ringraziare il vecchio attore e illuderlo che dietro di loro ci fosse un pubblico adorante in ascolto. Lui di rimando ha salutato le sedie ricoperte di panno bianco: «Viva gli Stati Uniti d’America, viva la Calabria, viva l’Italia!» e mentre un tecnico sghignazzava con scarso ritegno, io davanti alla tv ho sentito una stretta al cuore.
Per scongiurare la malinconia che mi procurano le uscite di scena ritardate (ricordo Maradona in campo col panzone) ho aperto l’Antologia di Spoon River in cerca dei versi giusti. «Andatevene dalla stanza se perdete, andatevene quando il vostro tempo è finito. E’ vile sedersi e brancicare le carte, e maledire le perdite con occhi cerchiati, piagnucolando per tentare ancora».

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 14 giugno 2011

Tutti e nessuno

Chi ha perso? Berlusconi, Bossi, l’idea che il Privato sia sempre e comunque meglio del Pubblico, i telegiornali di regime che hanno cercato di abrogare i referendum dalla testa degli spettatori. Chi ha vinto? Una rabbia e una speranza indefinite, il Noi che torna dopo tanto tempo a prevalere sull’Io, migliaia di cittadini riuniti nelle nuove famiglie elettroniche dei social network, dove si va a votare perché ti ha informato l’amico e non il partito. Tra i due elenchi, una differenza salta subito agli occhi. In quello degli sconfitti ci sono dei leader (ancorché anziani), mentre fra i vincitori nemmeno uno. Poteva esserlo Di Pietro, ma è stato abbastanza furbo da fare un passo indietro. Vorrebbe esserlo Bersani, ma appena ha provato a intestarsi il trionfo è stato zittito dal resto della compagnia.

La verità è che se pensi al referendum sul divorzio ti viene in mente Pannella. Se pensi a quelli sulla partitocrazia, Mariotto Segni. Invece le vittorie su acqua, nucleare e legittimo impedimento non possono essere collegate a nessun politico. Al massimo a Celentano e Santoro.

Di solito sono le sconfitte a non avere padri. Ma qui sta succedendo il contrario. Prima le elezioni amministrative di Milano e Napoli hanno premiato due eretici. E adesso i referendum, vinti da cittadini che sono tornati a credere nella politica, ma non nei politici. Un movimento di massa sganciato dai partiti, che sancisce il declino dei due capi-popolo più potenti dell’ultimo ventennio, ma non incorona nessuno al posto loro, perché in nessuno riconosce una figura davvero estranea alla Casta.
Questo movimento è un magma rovente che si condenserà in qualcosa di inedito o di antico, ma solo a patto di incontrare qualcuno capace di dargli uno sbocco. Veniamo da anni di personalizzazione eccessiva, dove ai leader si è voluto delegare anche troppo, trattandoli come anfore luminescenti nelle quali versare tutte le nostre aspettative e i nostri pensieri migliori (o peggiori). Un meccanismo tipico dell’innamoramento. A cui hanno fatto seguito, come in tanti innamoramenti, le montagne russe della delusione trasmutata in rabbia, poi in nausea e infine in una fuga percorsa da volontà di riscossa. Ma non si può restare orfani di padre troppo a lungo. Ogni mutazione sociale ha bisogno di interpreti forti. E perché avvenga dentro i canoni della democrazia, richiede da questi interpreti qualità non solo carismatiche, ma di sostanza: la competenza, la sobrietà, il demone del riformismo. Quel talento del vero leader che consiste nell’anticipare i bisogni profondi dei cittadini, anziché inseguirli lungo la china demagogica dei sondaggi. La fine sfilacciata ma inesorabile del berlusconismo sorprende l’Italia senza padri, a destra e a sinistra. Magari il futuro prossimo ci riserva personalità ancora ignote o sotto traccia. Ma per il momento l’ironia della sorte è che i nomi più appetibili sul mercato - da Casini a Matteo Renzi a Rosi Bindi - sono tutti democristiani. Come se questo Paese non potesse essere nient’altro, nel bene e nel male.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

lunedì 13 giugno 2011

Sarebbe bello

Che bellezza indire un referendum abrogativo per il TG1... Tutti in vacanza gratis! Grazie alla generosità della nuova agenzia di viaggi Minzolini. Niente quorum? Pazienza. Non si può mica avere l'uovo, la gallina e il culo caldo.

...Anche con Lei

Questione di quorum

Gli editti bulgari valgono sempre.

Lei non so chi sono io... o forse sì

Poiché cercava di entrare all’hotel Suvretta di St. Moritz, dove si teneva l’annuale e segretissima riunione del club Bilderberg, Mario Borghezio è stato malmenato dalla polizia, schedato e condotto alla frontiera. «Sono europarlamentare!», ha protestato. Quando gli hanno fatto notare che la Svizzera non è nell’UE, ha aggiunto: «Non è una buona ragione per trattarmi da extracomunitario... adesso i no global mi sono più simpatici». I no global ricambiano: anche a loro, adesso, sono più simpatici gli sbirri.

di Mattia Feltri, LA STAMPA

giovedì 9 giugno 2011

Senza scampo...

Se non ti sposti ci pensa Lei.

Dannato T9

Maledetto telefonino! Maledetti messaggini! Li sapete voi i guai che combina la scrittura veloce? Bene, ecco l’ultimo esempio: mi chiedono di intervistare Marcello Dell’Utri. Lo chiamo e lui, gentilissimo come sempre, declina invitandomi a ricontattarlo per sms di lì a qualche giorno. Alla data prestabilita gli scrivo: «Caro senatore, eravamo d’accordo che ci saremmo sentiti oggi». Silenzio. Nessuna risposta. Provo a chiamare una volta, due volte, niente. Ricontrollo il sms è che c’è scritto? «Caro senatore, eravamo d’accordo che ci saremmo pentiti oggi».

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Prima o poi s'incazza anche lui

Speriamo bene... comunque vada

No alla meritocrazia

Niente vacanze

L’altra sera, guardando Ballarò, mi sono stropicciato gli occhi. L’ecologista Bonelli e il liberista Giannino discutevano di referendum. Ma non come accade di solito in tv. Quei due sapevano di cosa stavano parlando. Tanto da sollevarsi dal tema specifico, l’acqua, alle grandi questioni ideali: quando il Pubblico non funziona, è meglio cambiare il Pubblico o cedere il passo al Privato? Questa è la politica che mi piace. E perciò ho la massima stima di chi domenica e lunedì voterà Sì come Bonelli o No come Giannino. Merita rispetto anche chi si asterrà per disinteresse, sebbene il nucleare, la gestione di un bene primario come l’acqua e l’uguaglianza davanti alla legge siano questioni su cui ogni cittadino dovrebbe cercare di formarsi un’opinione.

Chi invece non sopporto sono gli astenuti biforcuti. Quelli interessati ai referendum. Interessatissimi. Ma che proprio per questo, dopo aver cercato di vanificarli spingendoli alla soglia dell’estate, si asterranno al puro scopo di farli fallire. Per giustificarsi, costoro tirano in ballo la volontà dei Padri Costituenti. Ma chiunque vada a rileggersi i lavori preparatori della Costituzione scoprirà che il quorum del 50% degli aventi diritto al voto fu inserito come clausola di autodifesa contro i referendum di scarsa presa popolare, non come trappola per consentire ai contrari di truccarsi da disinteressati. Questa gherminella viene usata solo in Italia. Ed è anche per infliggere una lezione a certi azzeccagarbugli da strapazzo che domenica e lunedì non andrò al mare.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 7 giugno 2011

Quote

A quanto è data la vittoria del sì nel referendum
contro il calcio scommesse?

Viva Cavour

Il tessitore dell'Italia unita moriva il 6 giugno di 150 anni fa.
Un formidabile testimonial del riformismo liberale
A quattordici anni avevo tre poster nella stanza: Pulici, i Genesis e il conte di Cavour. Qualcuno troverà innaturale l’innamoramento di un adolescente per un professionista della politica, per di più di idee liberali. I giovani dovrebbero ergere a proprio modello i rivoluzionari e concordare con Dumas, l’inventore dei Tre moschettieri : «Che posso farci con Cavour, io? Cavour è un grande uomo di Stato, un politico consumato, un uomo di genio. Più in gamba di Garibaldi, ma non porta la camicia rossa, lui! Garibaldi è un pazzo, uno sciocco, ma uno sciocco eroico: ci intenderemo benissimo».

Invece la mia indole garibaldina rimase sedotta da Cavour. Forse per la legge degli opposti. O forse perché Cavour è un personaggio romantico che per esserlo non ha bisogno di lanciare proclami da un cavallo bianco. La mia fascinazione fu in gran parte determinata dalla lettura delle sue «bravate» giovanili.

Il disprezzo con cui accolse la nomina a paggio di Carlo Alberto («Non vedo l’ora di togliermi di dosso questa livrea da gambero») e la descrizione che di lui diede il padre, il marchese Michele, in una lettera alla moglie: «Nostro figlio è un ben curioso tipo. Anzitutto, ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro! Dopodiché mi ha recitato parecchi canti di Dante e le canzoni di Petrarca, passeggiando a grandi passi in vestaglia con le mani affondate nelle tasche». Mi catturò questa bulimia del vivere, la ricerca spasmodica di emozioni forti che farà di lui uno scommettitore spregiudicato, un viaggiatore infaticabile e un amante smanioso di conquiste ma incapace di amori profondi, perché la quiete in cui crescono i sentimenti autentici si scontrava con il perpetuo bisogno d’azione che in lui fungeva da antidoto alla depressione.

Mi identificai con questa sua tara psicologica e ancora oggi, quando salgo al Monte dei Cappuccini per rimirare il panorama di Torino, il pensiero corre al giovane Cavour che non vede sbocchi per il suo talento in un Piemonte asfittico e reazionario, e al culmine di una giornata di pensieri cupi si affaccia al bastione per gettarsi nel vuoto, trattenuto a stento da un cappuccino, fra Valeriano. Che un frate abbia salvato la vita al futuro mangiapreti mi è sempre sembrata un’ironia della Provvidenza. Non nego che da ragazzo il suo anticlericalismo (abbinato però a un grande rispetto per la spiritualità) abbia contribuito a farmi innamorare di lui. Lessi l’articolo del Risorgimento in cui l’ormai quarantenne Cavour raccontava la scena del ricatto subìto sul letto di morte dal suo amico del cuore, Santorre di Santarosa, al quale il prete negò l’estrema unzione, subordinandola all’abiura delle leggi Siccardi. Erano leggi civili, che abolivano odiosi privilegi ecclesiastici nel campo della giustizia e del fisco. Il 7 marzo 1850, il deputato Camillo Cavour le appoggiò alla Camera con un discorso magistrale: «Gli abusi vanno riformati in tempi pacifici, prima che ci vengano imposti dai partiti estremi. Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano, invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza». Era ed è il manifesto del riformismo: l’unica ricetta di progresso sociale possibile, perciò osteggiata dai reazionari che non vogliono cambiare nulla e dai massimalisti che, per la smania di cambiar tutto, finiscono sempre per fare il gioco dei reazionari.

Emozionarsi per il riformismo a vent’anni ha qualcosa di mostruoso, lo ammetto. Ma la colpa o il merito erano di quel formidabile «testimonial». Cavour non era un parolaio né un utopista. Ma quanto coraggio e quanta passione vibravano nella sua politica economica liberale, che abolì i dazi e indebitò lo Stato per costruire infrastrutture all’avanguardia e promuovere consumi e investimenti, proiettando il Piemonte nel futuro. E quanto genio e quanta visione nella sua politica estera. Fu abbastanza sognatore da immaginare l’Italia (almeno quella del Nord) e abbastanza pragmatico per capire che non potevamo costruirla solo con le nostre forze, come avrebbe voluto Mazzini. Così curò il suo alleato, Napoleone III, lo compiacque nelle smanie cospiratrici, nei viziettid’alcova e finanche nei disegni dinastici, obbligando Vittorio Emanuele II, pover’uomo, a concedere in sposa la renitente figlioletta Clotilde a un parente dell’imperatore. Ecco, se Cavour aveva un difetto, era di essere disposto a sacrificare tutto, compresi gli affetti, agli interessi supremi dello Stato. Ma siamo sicuri che per un politico sia un difetto?

È più semplice innamorarsi di un Garibaldi, di un Braveheart, di un Che Guevara. Ma Cavour è l’Utopia che scende sulla Terra e si fa carne, progetto concreto. È l’eterno bambino che quando gli annunciano che l’Austria ha abboccato al suo bluff e ci ha dichiarato guerra (facendo così scattare la clausola di mutuo soccorso con la Francia) incomincia a saltellare per la stanza, cantando una romanza e steccandola maledettamente. È il despota collerico che, dopo l’armistizio di Villafranca che concede al Piemonte la sola Lombardia, implora Vittorio Emanuele di non firmare e, di fronte alle resistenze del sovrano, gli grida: «Sono io il vero Re!» e se ne va sbattendo la porta.

Non mi fu facile da ragazzo, e non lo è nemmeno oggi, digerire la spregiudicatezza con cui il Conte scalò la presidenza del Consiglio, segando la poltrona su cui stava seduto quel gentiluomo di Massimo D’Azeglio, che pure lo aveva voluto al governo come ministro dell’Agricoltura («Ch’a stago sicur che côl lì, an poch temp, an lo fica an’t el pronio a tuti», «state sicuri che quello lì in poco tempo lo metterà in quel posto a tutti», profetizzò allora il Re, che non lo amò mai, ma seppe intuirne il talento). Anche l’idea del Connubio, l’accordo con la sinistra moderata di Rattazzi, fa storcere la bocca ai puristi, che vi vedono l’archetipo degli «inciuci» parlamentari che da 150 anni sono la nostra croce. Eppure c’è una differenza fondamentale tra Cavour e i suoi pallidi successori. In lui la manovra politica non era mai un fine, ma un mezzo per perseguire obiettivi più grandi, che trascendevano la sua ambizione personale. Il Conte aveva un progetto. E sono i progetti a distinguere gli statisti dai politicanti. «Noi abbiamo fatto l’Italia. E la cosa va», disse sul letto di morte. Una morte prematura, a soli 51 anni. Il triste finale di una storia che rileggo ogni anno nella speranza infantile di un colpo di scena: che Cavour guarisca e, 150 anni dopo aver fatto l’Italia, ci aiuti a fare gli italiani. Lui che di italiano non aveva nulla, se non il genio, se non il cuore.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 1 giugno 2011

Votate tutti per lei

Re qualunquista

«Ha vinto il Sistema. Quello che ti fa scendere in piazza perché hai vinto tu, ma alla fine vince sempre lui… Il Sistema ha liquidato Berlusconi e deve presentare nuove facce per non essere travolto». L’ultimo monologo di Grillo, «L’Italia di Pisapippa», non rappresenta una novità. La novità è la reazione dei seguaci, che stavolta si sono ribellati al verbo qualunquista: per i suoi toni gratuitamente volgari («e se cominciassimo a chiamarti Beppe Grullo?», gli ha scritto uno), ma soprattutto perché «Pisapippa» lo hanno votato e tifato anche loro.

Mi rifiuto di credere che Grillo parli male del nuovo sindaco di Milano per invidia da soubrette. Ma mi chiedo e gli chiedo che senso abbia mettere sempre tutti sullo stesso piano, Bush e Obama, Borghezio e Vendola, Berlusconi e i critici di Berlusconi. Come se chiunque entri nel teatrone della politica senza il suo «placet» faccia automaticamente parte dell’Impero delle Multinazionali che affamano i popoli per ingrassare gli squali della finanza. Grillo riconoscerà che i suoi argomenti sono gli stessi che portarono i terroristi rossi a sparare, e a sparare proprio contro quei riformisti che il Sistema cercavano di cambiarlo nell’unico modo possibile: un po’ alla volta, dall’interno. Gli suggerisco di andarsi a leggere il più commovente discorso politico di tutti i tempi (almeno per me). Quello in cui Cavour sostiene che le comunità umane sopravvivono se sanno autoriformarsi di continuo nella libertà, rimanendo insensibili alla seduzione esercitata da due scorciatoie ingannevoli: conservazione e rivoluzione.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Ciao Silvio

Oh cara Letizia Brichetto Arnaboldi, che tranvata!