venerdì 24 dicembre 2010

(Im)parzialmente parlando

Se abbiamo capito bene: il capogruppo della Lega alla Camera chiede un dibattito sulla imparzialità del presidente della Camera che, ad avviso dei leghisti, non è più imparziale. Il presidente della Camera risponde che è inammissibile un dibattito sulla sua imparzialità proprio perché, ritenendosi egli un arbitro imparziale, non accetta che si possa discutere della sua imparzialità, unico tema sul quale non è sicuro di garantire la necessaria imparzialità. Quindi è sempre imparziale tranne se si discute della sua imparzialità. Invece, se si discute della sua imparzialità, allora rischia davvero di non essere imparziale. Almeno parzialmente.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Abbasso Wikileaks

Musica, maestro!

Senza titolo

Un artigiano veneto di quarant’anni, oppresso dai debiti, irrompe in una tabaccheria di Forte Marghera agitando la pistola. «Dammi i soldi!», intima al proprietario. Ma prima che l’altro possa aprire la cassa, il rapinatore scuote la testa: «Cosa sto facendo?». Esce dal negozio, monta in bicicletta e va a costituirsi al commissariato. Dove giustamente lo arrestano, perché così prevede la legge. Io, stupidamente, lo avrei un po’ abbracciato. È che è raro trovare dei galantuomini, ma ancor più raro è trovare degli uomini: gente disposta a non prendere le distanze dai propri errori, persino quando, come in questo caso, sono stati soltanto abbozzati.

Più o meno alla stessa ora, in una scuola di Torino va in scena il classico spettacolo di Natale alla presenza delle famiglie. Ogni bambino sale sul palco ed esprime un desiderio per l’anno nuovo. Il primo dice: «Vorrei essere più bravo coi nonni». Il secondo: «Vorrei un certo videogioco». Il terzo: «Vorrei ci fosse ancora il lavoro per mamma e papà».

Nella sala scende il gelo, la realtà è una pasta abrasiva e certe cose non si confessano neanche in tv. Un amico presente alla scena commenta: è un mondo al contrario, quello in cui sono i figli a desiderare un posto per i genitori, ma forse l’unica speranza che resta, a questo mondo, è proprio un bambino che al futuro non chiede un giocattolo ma un lavoro per mamma e papà.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 21 dicembre 2010

Il mestolo di Natale

Come biglietto di auguri natalizi, una lettrice ha spedito agli amici questa storiella edificante. Un sant’uomo chiede a Dio di poter visitare l’inferno e il paradiso, possibilmente nell’ordine (preferisce il lieto fine). Dio lo conduce davanti a due porte chiuse e spalanca la prima. Al centro della stanza spicca una tavola rotonda e al centro della tavola un pentolone da cui emana un profumo delizioso. Ma le persone sedute intorno alla tavola sono ridotte a scheletri. Ciascuna di esse ha un mestolo attaccato al braccio, lo tuffa nel recipiente per raccogliere il cibo e però poi non riesce a portarlo alla bocca perché il manico del mestolo è più lungo del braccio. Che supplizio atroce, pensa il sant’uomo, compatendo gli affamati. «Hai appena visto l’inferno», dice Dio e spalanca la seconda porta, quella del paradiso. C’è una tavola rotonda al centro della stanza anche lì. Al centro della tavola un pentolone da cui emana lo stesso profumo. E le persone sedute intorno alla tavola hanno un mestolo attaccato al braccio che nessuna di esse riuscirà mai ad avvicinare alla bocca. Eppure sono ben pasciute. «Non capisco», sbotta il sant’uomo. «È semplice» - risponde Dio -. «All’inferno gli uomini muoiono di fame perché non pensano che a se stessi. In paradiso, invece, stanno tutti in salute perché ognuno mangia dal mestolo degli altri».

Questo apologo mi ha talmente toccato il cuore che avrei voglia di dare una mestolata a Gasparri.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

domenica 19 dicembre 2010

Perché prevenire è meglio che curare

L'Onorevole Maurizio Gasparri invoca gli "arresti preventivi", ovviamente tra le file dell'estrema sinitra.
La Polizia quindi si vede costretta ad assoldare indovini e cartomanti. Viene solo da chiedersi come mai Gasparri non sia stato "preventivamente" rinchiuso in un manicomio, magari insieme a Hitler.

Goodbye Captain

Donald Van Vliet, alias Captain Beefheart, è morto ieri in California. Van Vliet era malato da tempo di sclerosi multipla. Con lui scompare uno dei grandi visionari del rock degli anni Sessanta e Settanta, compagno di strada di Frank Zappa, artista creativo e inimitabile, figura di riferimento per molti musicisti dei decenni successivi.

Per molto tempo Captain Beefheart è stato quasi un alter ego di Zappa, incarnando il lato più oscuro, istintivo e iconoclasta della controcultura freak. La sua stessa vicenda artistica e personale è strettamente legata negli anni Sessanta a quella del "genio" di Baltimora. Anch'egli cresce ai limiti del deserto di Mojave, manifestando sin dalla più giovane età una spiccata vocazione artistica, non solo musicale ma anche come pittore e scultore. Giovanissimo si trasferisce a Cucamonga dove Zappa aveva appena approntato il suo studio di registrazione e i due vengono così in contatto. Suonano insieme negli anni della gavetta, ma poi si separano per divergenze soprattutto caratteriali.

Van Vliet forma quindi la Magic Band e fa suo il vezzo dadaista di attribuire a ogni membro del gruppo un personaggio, un'identità, con un nome a esso collegato. Il leader è, così, Captain Beefheart, il chitarrista Jeff Cotton si trasforma in Antennae Jimmy Seemens e il batterista John French diventa Drumbo. La magic Band esegue un rhythm'n'blues musicalmente sporco e scalcinato su cui svetta la voce graffiante, allucinata e inquietante di Captain Beefheart, dotato di una estensione vocale di ben sette ottave e mezza. E' però il momento del beat di importazione britannica e il gruppo non riesce a trovare un discografico disposto a puntare su un sound talmente istintivo e viscerale da vedere nel torrido e malato blues del Delta di inizio secolo il proprio, più credibile, progenitore.

La Magic Band registra quell'anno due dischi che vedranno la luce solo alcuni anni dopo. Mirror Man, pubblicato nel '71, è registrato dal vivo e contiene quattro brani che vanno ben oltre il formato dei tre minuti richiesto dalle radio nel '65. Quattro lunghe allucinazioni sonore dove si mescolano in modo sporco ma affascinante blues, rhythm'n'blues, improvvisazioni free jazz, mentre la voce del leader, attraverso una continua emissione di urla, grugniti e rantoli, enuncia testi idioti. Si tratta di musica destinata all'emarginazione, così come resta ai margini, per scelta, la cultura freak e il suo rifiuto bohemien della civiltà dei consumi. Captain Beefheart non è dotato della consapevolezza intellettuale di Zappa, ma Mirror Man è sicuramente un affresco impressionista da brividi di ciò che era il messaggio freak.

Safe as Milk, che vede la luce nel '67, è il primo disco di studio della Magic Band e presenta connotati piuttosto diversi. I brani sono dodici e la loro durata viene riportata ai canonici tre minuti. Se il lavoro di studio lima certe vette di pura libertà espressiva e sperimentale di Mirror Man, la base è sempre quel blues scorticante caratterizzato da steel guitar sgangherate ma efficacissime, una batteria libera da vincoli e la solita voce "posseduta". Captain Beefheart carica ogni brano di un corredo di gag e umorismo parodistico che lo accomuna a Zappa.

Ma se Zappa è diventato nel frattempo una star, Captain Beefheart e il suo seguito di psicopatici vivono nel più completo isolamento artistico, sabotati persino dai loro discografici, i quali manipolano i master della band per coprire gli effetti più sconci e orripilanti. Ed è proprio Zappa che decide di offrire al vecchio compagno di strada l'occasione per incidere un disco nella più totale libertà artistica, senza limiti di tempo e di budget. Beefheart amplia così la band, inserisce una sezione di fiati e si cimenta egli stesso al clarinetto basso. Ne scaturisce nel '69 Trout Mask Replica, vera e propria antologia del caos. Doppio album, ventotto brani di breve durata nei quali si scatenano tutte le componenti caratteristiche dei dischi precedenti. Dal punto di vista strettamente musicale si tratta di anarchia pura, improvvisazioni disordinate e devastanti cui fanno da contraltare dei blues privi di accompagnamento in cui Beefheart dà tutto se stesso, sfoggiando il suo allucinante repertorio di urla e versi bestiali. Sono presenti tra un brano e l'altro i caratteristici siparietti chiacchierati, cui partecipa lo stesso Zappa, ma in Trout Mask Replica l'umorismo viene soppiantato da un delirio al limite della psicosi. E' la chiara, definitiva, forse disperata manifestazione di odio verso la inquadrata, ordinata, gerarchizzata società del benessere industriale che ha reso prigionieri anche i giovani.

La vicenda di Captain Beefheart continuerà sino alla metà degli anni Ottanta, tra improvvisi ammorbidimenti, legati al tentativo di diventare una star anche in termini di vendite, e susseguenti rigurgiti della sua potenza devastatrice. Quindi il ritiro dalle scene e la rinascita come pittore. La sua figura resta comunque fissata nella storia della Los Angeles dei freak come il complemento, in termini di follia, dell'opera di Frank Zappa, e come romantico e straordinario esempio di come si potesse coniugare in maniera assolutamente originale arte, libertà e rock.

di Ernesto Assante; la Repubblica

Chi ci capisce è bravo

Le cose che non capisco. Non capisco come Paolo Bonolis, quello di «Ciao Darwin» e di «Chi ha incastrato Peter Pan?», possa andare in un'università a dire che certa tv ha contribuito a corrompere il nostro Paese. Lui dov'era? Ma, ancora di più, non capisco come il pubblico degli studenti - un incontro promosso da Sinistra universitaria alla Statale di Milano - scenda in piazza a protestare contro la Gelmini e, intanto, si beva gli alibi di Bonolis.

Non capisco come il nostro Paese possa avere un futuro, dopo aver assistito alle performance radiofoniche dell'onorevole Domenico Scilipoti («Un giorno da pecora») e a quelle televisive del ministro Ignazio La Russa e dell'onorevole Antonio Di Pietro («Annozero»). Uno dice: ma è spettacolo! Sì, ma poi basta un po' di neve per spezzare la penisola in due. È spettacolo anche quello.

Non capisco come Gad Lerner, dopo averci propinato noiosissime trasmissioni sul corpo delle donne e contro il velinismo di «Striscia», possa prendersela con Caterina Soffici (una brava giornalista culturale) per aver scritto: «Sono entrata in un negozio perché avevo bisogno di una chiavetta. Dietro al commesso ho visto Belén sdraiata che mi ammiccava e ho deciso di uscire e comprare la chiavetta dalla concorrenza».

Non capisco come Gerry Scotti, dopo aver accettato (immagino non per beneficenza) di condurre tre o quattro programmi, di dirigere una radio, di fare il testimonial per più ditte, possa lamentarsi di essere sfruttato da Mediaset. Ha persino confessato di essere ricorso alle vie legali per mettere un freno a questa sovraesposizione. Naturalmente la confessione è avvenuta durante la presentazione alla stampa di un suo nuovo programma, «Paperissima».

Non capisco come Benedetta Parodi («Cotto e mangiato») possa aver scritto un libro. Non mi sorprende però che sia il primo nelle classifiche dei libri più venduti. Di cosa ci lamentiamo, in Italia?

di Aldo Grasso; CORRIERE DELLA SERA

sabato 18 dicembre 2010

Non è un regalo ma una conquista

Finirà questa discesa nel vuoto, questa disgregazione del paese Italia, civile e fisica? In quest'autunno di pioggia senza fine gli italiani guardano in televisione il loro "bel paese ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe" disfarsi in frane e smottamenti, lo "sfascio pendulo" che si consuma, che vien giù con le sue case e le sue chiese millenarie, i superstiti che indicano ai cronisti la linea bianca della frana e raccontano storie di parenti, di amici scomparsi sotto il fiume di fango.
Finirà questo imbarbarimento della politica ridotta ai giochi e alla volgarità di un sultano che l'ha sostituita, coperta con la sua ossessiva fame di potere, di ricchezza e di protagonismo?
Finirà, finirà anche questa volta: chi ha conosciuto la caduta del fascismo e il ritorno alla democrazia e gli anni dei miracoli economici e politici sa che finirà, che si troveranno sempre i mille di Garibaldi o della guerra partigiana, le minoranze capaci di riunire il Paese o di combattere gli invasori, capaci di rovesciare gli opportunismi millenari, di chiedere al signore della storia di dargli tempo, dopo l'8 settembre del '43, di pagare il ritorno alla libertà, non di averlo in regalo.

Una cosa va detta: nessuno, neanche il più pessimista, pensava che saremmo finiti così in basso, che il sultano brianzolo sarebbe arrivato al pubblico dileggio della democrazia, all'esortazione a "non leggere giornali", a garantire i segreti dei potenti. C'è chi ha detto del sultano: la sua eccellenza politica consiste in questo: ha fatto degli italiani suoi complici, che riconoscono nei suoi difetti i loro difetti, la loro furbizia, il loro gallismo, i loro piaceri plebei, la loro voglia di harem, il loro squadrismo. L'ha fatto perché è fatto così o per calcolo sottile, perché conosce se stesso e il suo prossimo, perché sa che il male è più divertente del bene. Di certo le ultime sortite contro l'informazione, contro la giustizia, contro lo Stato, contro la democrazia erano mirate all'eterno qualunquismo italico, e così l'esibizionismo dei suoi piaceri volgari a misura piccolo borghese, le feste che piacciono al generone, coca e puttane, ville nei Caraibi, in Sardegna e sul lago Maggiore. E su tutto l'attivismo incessante, il "faso tuto mi", anche l'amor del prossimo, la protezione delle minorenni ladruncole.
Finirà, anche stavolta finirà.

Non lo dico per una vana patriottica speranza, ma perché so che può accadere, che è già accaduto, nel settembre del '43 quando i mille che diedero il via alla guerra partigiana salirono in montagna. Il pensiero affliggente e paradossale di quella minoranza era: non sarà troppo tardi? Gli alleati angloamericani padroni del mare e del cielo non sbarcheranno in Liguria come sono sbarcati in Sicilia? Quanti giorni ci rimarranno per meritarci sul campo il ritorno alla democrazia e alla libertà? Sì, a dirlo può sembrare retorico, ma la guerra che continuava, la lenta risalita dei liberatori dalla Sicilia alla Pianura padana furono per la Resistenza un sollievo: inspiegabilmente la strategia dei vincitori ci concedeva il tempo per il nostro esame di riparazione, avremmo avuto il tempo di formare un esercito di popolo, il Corpo volontari della libertà come fu chiamato.
Anche allora gli attendisti, i prudenti, quelli di buon senso pensavano che fosse meglio aspettare che la tempesta passasse da sola, "chinati giunco che il maltempo se ne andrà". Ma avevano ragione i mille, la libertà la si conquista, non la si riceve in regalo.

di Giorgio Bocca; L'ESPRESSO

Simpatia

Non c'è nemmeno un Andy Warhol alla vaccinara, una versione provinciale dell'arte-provocazione, dello scandalo creativo. C'è soltanto l'insipienza estetica del sindaco di Roma coniugata con la furbizia imprenditoriale di un allegro neocostruttore d'auto. Il risultato è l'esibizione - gratis - dentro l'Ara Pacis, di due modelli di una stessa utilitaria.

Il lancio commerciale della Dany, una piccola automobile che, per quello che si vede, somiglia a tutte le altre utilitarie del mondo. Ma se è vero che questa automobile stona dentro il museo, non stona certo come accadde ai baffi sul viso della Gioconda, senso forte dei tempi moderni, né ha la forza dei monumenti impacchettati dal bulgaro Christo, non è l'ossimoro visivo, non è la contaminazione dei generi, ma è solo una delle mille volgarità - piccola questa volta, anche se significativa - commesse di questi tempi contro la cultura italiana.

Gli avessero almeno chiesto dei soldi a Stefano Maccagnani, che adesso non sa spiegare perché hanno concesso a lui quello che hanno negato a tanti altri, Maserati compresa: "È vero, mi hanno fatto un favore, forse per premiare un prodotto tutto italiano, che sarà costruito interamente a Roma". E se invece Maccagnani, che prima produceva materiale militare per la Difesa e aveva fatto parte della cordata messa assieme da Berlusconi per salvare Alitalia e, nel giorno della fiducia, ha pure scritto un'appassionata lettera al presidente del consiglio, se invece Maccagnani dicevamo, fosse solo un raccomandato, come tutti quelli che sono stati assunti nelle municipalizzate romane? "No. Al massimo sono più simpatico degli altri".

Certo, se gli avessero imposto almeno un ticket per l'uso privato del museo, ora staremmo a discutere se è giusto o sbagliato affittare i monumenti a fini commerciali, se è lecito noleggiare il Pantheon per una "convention", far sfilare l'alta moda all'Altare della Patria, promuovere un profumo davanti alla Primavera del Botticelli, vendere lingerie alle mademoiselles d'Avignon. I monumenti non sono certo sacri, e restituirli alla vita guadagnando qualche soldo forse potrebbe non essere male.

E invece la gratuita esposizione pubblicitaria della versione elettrica e della versione a benzina di questa Dany è stata voluta dal Comune "per amore della cultura". E si capisce subito che quest'auto dentro l'Ara Pacis fa il verso a invenzioni, slogan, immagini della grande arte, alle peripezie dei pennelli di Boccioni, di Picasso e di Magritte. Ma è un orecchiare appunto. Perché qui non c'è neppure la raffinatezza maliziosa della pubblicità, della cartellonistica e degli spot che chiedono solidarietà, ammiccano, seducono e sempre impongono un rapporto di grande complicità. C'è soltanto un'auto dove non dovrebbe stare col risultato di imbruttire sia l'auto sia il museo. E si ritrova come costante la cecità o, se preferite, l'insensibilità estetica di una generale amministrazione dei beni culturali ed artistici alla quale non importa nulla né di Pompei né dell'Ara Pacis.

È vero che l'Altare alla pace romana ha già subito ogni genere di insulto, da quel gabinetto che fu abbandonato all'ingresso del museo nel 2009 sino al disprezzo del sindaco Alemanno il quale appena eletto dichiarò di voler distruggere la teca di Richard Meier. "Ho scelto l'Ara Pacis perché e un luogo ameno" mi dice invece Maccagnani che forse non sa cosa significa "ameno", ma ha l'aria furba di chi pensa di passare alla cassa sfregiando un capolavoro o montando il destriero del Gattamelata.

Di sicuro questa autopromozione è stata approvata della sovra-intendenza di Roma e benedetta del sotto-segretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta: "Mi ha fatto l'onore di venire". Ed è forse tutto qui l'evento: un "sotto" che si crede "sopra", un favore promozionale spacciato per sapienza estetica, roba da chiamare la polizia del buon gusto, se esistesse.

Considerando che nella Roma di Alemanno i raccomandati "simpatici" sono battaglioni è possibile che questo nuovo buon gusto prenda piede nei luoghi e nei simboli d'arte e si faccia moda, con la complicità appunto tra il sotto e il sopra, tra la sotto-Italia e la sovra-Italia, tra il sotto-segretario e la sovra-intendenza.

di Francesco Merlo; la Repubblica

Opposizione

L’astutissima intervista in cui Bersani liquida le primarie e annuncia di volersi alleare con Fini e Casini anziché far fronte comune con Vendola e Di Pietro ha finalmente ricompattato il popolo dei democratici. Lo si evince da una passeggiata nel sito del Pd.

«Sono un ex iscritto e tra poco sarò un ex elettore» (Francesco). «Ma Fini è di destra! Come è possibile anche solo pensare a un’alleanza con lui?» (Michele). «Stasera restituisco la tessera» (Francesca). «Così non andiamo da nessuna parte, anzi sì: al suicidio» (Chiara). «Mi domando cosa avete nel cervello. Ma davvero le partorite voi queste cavolate? Andatevi a nascondere e non fatevi più rivedere!» (Gianni). «Cacchio, ma si può?» (Gian Piero). «Se succede, lascio il partito in un secondo» (Gianluca). «Bersani fa bene, sono d’accordo con lui» (Fassina, ma forse è la sorella dell’ex segretario). «Cioè, fatemi capire: dovrei scegliere alle prossime elezioni fra Fini e Berlusconi?» (Alessandro). «Dopo la fatica che abbiamo fatto a liberarci di Binetti e Rutelli, paffete che ci ritroviamo a subire i loro veti!» (Monica). «State ancora una volta riuscendo a rivitalizzare Berlusconi. Sono allibito» (Stefano). «Ero un ventenne che aveva trovato una piccola speranza. Ora lei me l’ha spenta di nuovo. Grazie, segretario» (Riccardo). «D’ora in poi come inizierà i suoi comizi? Cari democratici, cari compagni, cari camerati?» (Concita). «Grazie a tutti quelli che stanno commentando l’intervista» (Pier Luigi Bersani). «Segretario, tu ci ringrazi, ma i commenti li leggi o guardi solo le figure?» (Monica).

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 9 dicembre 2010

Quanto sono belli i passerotti

Quanto invidio mia moglie, che riesce ad assentarsi dal telegiornale per guardare una coppia di passerotti appollaiati sulla ringhiera del balcone. Io, noto masochista, pure nel dì di festa non stacco gli occhi dal racconto della crisi, dove gli ex missini scorrono a frotte: La Russa, Gasparri, Ronchi, Urso, Matteoli, Bocchino, non se ne vedevano tanti, e tutti insieme, dalla giornata dell’oro alla Patria del 1935. Dopo la cacciata da Berlusconia, Bocchino ha chiesto asilo politico a un cameraman: lunedì litigava con La Russa a «Porta a Porta», martedì si accapigliava con Rotondi a «Ballarò» e ieri faceva jogging solitario in un boschetto di microfoni.

Fosse solo Bocchino. Poi ci sono tutti gli altri. I soliti ignoti, il cui voto non ha mai contato un tubo e ora invece può far cadere governi e sbilanciare bilanci allargando lo spread con la Germania, come ripetono minacciosi gli economisti. Così restiamo appesi, noi e lo spread, agli umori dell’onorevole Scilipoti, dipietrista apparentato con Rossella O’Hara, che «oggi la mia posizione resta quella di ieri, ma domani vedremo» e annuncia una conferenza stampa con Cesario che potrebbe partorire ribaltoni a breve, mentre Calearo aggiorna il tassametro della fiducia (da 350 mila euro in su) e Razzi ammette che le proposte sono allettanti, specie per chi ha un mutuo da pagare come lui. Confidavo nella nota rigidità dei sudtirolesi, ma il tg dice che stanno trattando l’astensione in cambio della segnaletica bilingue e allora spengo la tv con un’espressione intraducibile e mi metto a guardare i passerotti anch’io.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 7 dicembre 2010

Il colore

Ogni persona, di origine italiana o straniera, dev'essere sempre giudicata singolarmente, per quello che è. È la più ovvia delle frasi.

L'ha pronunciata ieri il cardinale arcivescovo di Milano. Ci sono momenti in cui non ripetere le parole più ovvie diventa una viltà. Sia risparmiato alla nostra generazione il ritorno di quei momenti, se già non ci siamo.
Scrivo mentre le notizie sull'indagine per la scomparsa della piccola Yara si fanno incerte, e vengono in dubbio i sospetti sul giovane arrestato. E si riaccende una speranza per lei, che è la cosa più importante. Se i sospetti su un presunto colpevole sono stati precipitosamente trattati come certezze, anche della sorte peggiore di Yara si potrà dubitare.

Ci sarà tempo per riflettere. Ma qualcosa è già successo e se ne può misurare la tristezza. È successo ancora una volta che a un evento terribile - la paura di un evento terribile, e la convinzione che si fosse consumato - siamo stati tentati di reagire, prima che nelle manifestazioni esteriori nei nostri stessi sentimenti intimi, trasferendo il dolore per la vittima, la compassione con i suoi e la ripugnanza per i suoi carnefici, nell'ansia per le conseguenze civili e perfino politiche dell'imputazione di uno straniero. Un simile trasferimento è anche un modo di attutire e sfogare la commozione, ma è soprattutto la misura di un guasto che ci va rosicchiando dentro. Dentro quelli fra noi che corrono a gridare minacce di furia cieca o calcolata, e anche dentro chi ne è spaventato e si affanna ad arginarne i danni. Così ci si trova subito a ripetere pensieri di desolata ovvietà, che ad Avetrana e in mille altri inferni la brutalità è indigena e domestica, che l'infamia umana non ha colore.

Ci sono state però dall'inizio, in questa storia angosciosa, cose diverse e degne di ammirazione e di considerazione. Prima di tutto l'atteggiamento di una famiglia, che ha rigettato ogni sfogo vendicativo, e tanto più quelli esibiti per conto terzi; e si è limpidamente sottratta allo spettacolo della propria sofferenza. Dunque questo può avvenire, e i media possono prenderne atto. È successo anche che il sindaco (leghista, ma è appena un dettaglio) di una comunità colpita abbia dato un chiaro sostegno a questo atteggiamento della famiglia, e abbia messo al bando i propositi razzisti, xenofobi e linciatori. Chi ha avuto una gran fretta di pronunciare parole orrende di odio violenza e - non ultima - imbecillità, non ha potuto farlo in nome delle vittime o di una comunità. Solo in conto della propria violenza, odio e, non ultima, imbecillità.

Adesso aspettiamo. Restituendo ai sentimenti e ai pensieri dell'attesa il loro ordine naturale. Cominciando dalla trepidazione per una creatura cui il mondo dovrebbe essere solo promettente, e dalla simpatia per i suoi. E poi pensando al prezzo che paga un paese indotto a chiedersi di colpo, di fronte a un sequestro, uno stupro, un assassinio, una sciagura stradale, se il sequestratore, il violentatore, l'assassino, il guidatore sciagurato, sia italiano o no, e a compiacersi che lo sia o pregare che non lo sia. È una questione morale, psicologica, civile, ed è per eccellenza una questione politica. Una questione banalmente culturale, anche. Perché a distanza di un paio di generazioni dall'avvento della questione migratoria forse bisognerebbe contare di più sulla capacità di tradurre affidabilmente dall'arabo la preghiera: "Allah mi protegga" o "Allah mi perdoni".

di Adriano Sofri; la Repubblica

sabato 4 dicembre 2010

Il profeta

...Altro che Wikileaks.

Wiki wiki (II)

C'è chi lo dice con gli articoli,
c'è chi lo dice con le vignette.

Wiki wiki

Diciamo la verità: per ora è stata più eccitante la Waka Waka del Wiki Wiki. I rapporti degli ambasciatori americani, rivelati in un’atmosfera thriller dal sito Wikileaks, sembrano una scopiazzatura di Dagospia e forse lo sono. Berlusconi è un donnaiolo vanitoso che fa affari con il macho Putin. Sul serio? E io che quei due me li ero sempre immaginati dentro la biblioteca di un monastero, immersi nella lettura dei «Fratelli Karamazov». Sarkozy: uomo permaloso e dispotico. Strano, con quell’aria umile e remissiva, tipicamente francese. La Merkel, poi: ostinata, prudente, poco creativa. Tutto il contrario dell’immagine dei tedeschi, genia di improvvisatori estroversi. Aspettiamo qualche indiscrezione sul presidente svizzero che va matto per il cioccolato fondente e gli orologi a cucù. Ah, ma ce n’è anche per Gheddafi: uccide le rughe col botulino e si fa scortare da un’infermiera bionda. Un’informazione top secret (se si escludono quelle due o trecento copertine sull’argomento) che cambierà la storia. Come quell’altra, secondo cui i diplomatici fanno le spie. Da alcune migliaia di anni, verrebbe da dire. Almeno giustificano lo stipendio, perché per fare il «copia e incolla» degli articoli di giornale bastava una segretaria.

Sicuramente domani usciranno prove di torture, golpe, alieni seppelliti nel deserto con le antenne di fuori. Ma per adesso la vera vittima di Wikileaks è il mito della carriera diplomatica. Con gli ambasciatori, per secoli burattinai del potere, ridotti a messaggeri dell’ovvio.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 30 novembre 2010

Un pentito

Fine

"Se dovessi essere costretto a una vita che non è vita, la farei finita anch'io". Mario Monicelli me lo disse anni fa, a casa sua nel rione Monti. Erano i giorni del caso Welby. Sembrava più una presa di posizione intellettuale di un grande laico che non una confessione personale. A novant'anni era ancora bellissimo, elegante, ironico, sempre dentro qualche battaglia. L'altro giorno era ancora in piazza a protestare contro i tagli alla cultura. Questa notte ha deciso lui dove mettere la parola fine. Con Monicelli se ne va un genio e un maestro del cinema, anche se entrambe le definizioni l'avrebbero fatto sorridere.

"Appartengo ancora a una generazione dove si diventava registi di cinema soltanto perché non si era capaci di scrivere un bel romanzo. Potendo scegliere, avrei continuato a cercare d'imitare Dostoevskji". Si è ucciso come il padre Tomaso, giornalista di gran talento. Da giornalista aveva cominciato anche Mino e diceva di non aver mai smesso. Sempre curioso, polemico, informatissimo, divoratore di notizie grandi e piccole.

Nessuno come Monicelli ha indagato tanto e descritto meglio gli italiani dal dopoguerra a oggi. E' stato il nostro Balzac, l'autore di una gigantesca commedia umana degli italiani, attraverso decine di film, spesso capolavori. Titoli e storie che conoscono tutti, entrati nel linguaggio comune per descrivere l'oroscopo dei caratteri nazionali. L'elenco mette i brividi, dagli inizi col Totò di "Guardie e Ladri" a "I soliti ignoti", da "La grande guerra" a "I Compagni", e poi "L'Armata Brancaleone", "Amici miei", "I nuovi mostri", "Il marchese del Grillo", "Speriamo che sia femmina". Senza contare i film definiti minori dalla critica, come "Risate di gioia" o "Romanzo popolare", che da soli valgono più di alcune decine di presunti capolavori da festival.

Monicelli ha inventato la commedia all'italiana nel '58 con "I soliti ignoti" e ne ha dichiarato la fine vent'anni dopo con "Il borghese piccolo piccolo". In mezzo ha fabbricata l'unica epica di cui disponiamo, tragicomica, amorale, ma grande. Da parte sua, era quanto di più lontano dai suoi personaggi si potesse immaginare. Anti retorico, moralista, sempre a schiena dritta, con un profondo credo nei suoi valori laici, socialisti, libertari, antropologicamente antifascista. E' paradossale che un anti italiano tanto fieramente minoritario abbia ottenuto un tale immenso successo. Frutto, secondo Monicelli, anche di un significativo fraintendimento. "Ho quasi sempre descritto personaggi mostruosi. All'estero si stupiscono che gli italiani li trovino tanto simpatici".

Non credeva nella religione. Diceva che gli sarebbe piaciuto credere negli dei greci perché erano tanti, cialtroni ma allegri, mentre "il dio della Bibbia è in assoluto uno dei personaggi più cupi della letteratura mondiale". Sul set dell'ultimo film, "Le rose del deserto", girato a novant'anni, in condizioni ambientali eroiche anche per un trentenne, confessò di non avere paura della morte, ma del giorno in cui avrebbe smesso di lavorare. Come sempre, era la verità.

di Curzio Maltese; la Repubblica

sabato 27 novembre 2010

Facciamola finita

Scusate, ma manca il contraddittorio. 

Il complotto che non c'è

Non ce n'eravamo accorti, ma è in atto un complotto mondiale contro l'Italia. Lo abbiamo scoperto ieri da una nota ufficiale del Consiglio dei ministri. E pensare che era lì, sotto gli occhi di tutti. Come abbiamo potuto ignorarlo? Le immagini dei rifiuti di Napoli sulle prime pagine dei giornali americani: un complotto (forse un fotomontaggio). Come il crollo del tetto di Pompei trasmesso nei tg cinesi, che hanno deliberatamente ignorato la vera notizia: che gli altri muri erano rimasti in piedi. Tutto si tiene, è talmente evidente: i rifiuti, Pompei, l'inchiesta per corruzione che ha investito Finmeccanica. E, aggiungiamo noi, la neve prevista per domani: una manovra meschina dei meteorologi, anche se il governo per ora non vi ha fatto cenno. In compenso ha citato i documenti riservati che il sito Wikileaks si accinge a pubblicare in Rete.

Riguarderebbero gli Stati Uniti e decine di altri Paesi, fra cui il nostro. Eppure solo qui si grida al complotto. Perché tutti ce l'hanno con noi. Obama, Putin, la Merkel, il comitato centrale del partito comunista cinese al completo. Si alzano la mattina e pensano soltanto a come danneggiare quel colosso di efficienza che dalle sponde del Mediterraneo minaccia di invaderli. Abbassando un po' la voce per non essere intercettati dal nemico, ci permettiamo di suggerire ai nostri governanti qualche contromossa spiazzante. Togliere la spazzatura dalle strade di Napoli: d'incanto nessun giornale americano ne parlerà più. Fare di Pompei la Disneyland dell'archeologia, così i cinesi ci manderanno i turisti invece che i cronisti. E ogni tanto aprire le finestre nei palazzi della grande industria di Stato, affinché anche i concorrenti che vi penetrano animati dalle peggiori intenzioni non riescano a trovarvi troppa puzza di bruciato.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 17 novembre 2010

Ex

Gli elenchi declinati da Fini e Bersani in tv non erano elenchi ma frasi fatte. Invitati a usare il linguaggio evocativo delle «classifiche», i due hanno tracimato nel comizietto, confermandosi politici di un altro secolo. Destra e sinistra sono termini ormai pigri per definire quel che ci succede. Le ideologie da cui prendono le mosse si suicidarono entrambe nel Novecento. Quando, dopo aver conquistato il potere con l’obiettivo di cambiare l’essere umano, lo condussero nei lager e nei gulag. Da allora destra e sinistra hanno rinunciato a qualsiasi velleità di palingenesi. Non puntano più a migliorare l’individuo, stimolandolo a essere più responsabile (la destra) e più spirituale (la sinistra). E di fronte allo sconquasso del mondo - con la ricchezza che abbandona l’Europa e gli Usa per spostarsi altrove - si limitano a narrazioni consolatorie dell’esistente.

L’ex destra, che da noi è berluscoleghista (Fini rischia la fine del vecchio Pri, che piaceva a tutti ma votavano in pochi), invita gli elettori ad andare orgogliosi di ciò che la destra detestava: l’aggiramento delle regole e il disprezzo della cultura, sinonimo di snobismo improduttivo. L’ex sinistra continua a raccontarsi la favola che l’italiano medio sia vittima di Berlusconi, mentre l’italiano medio è Berlusconi, solo più povero. Così si ritorna al punto di partenza: la società non cambia se vince un leader o un altro. Cambia se cambiano gli individui. Ma è un lavoro duro: più comodo continuare a scornarsi fra destra e sinistra, illudendosi che esistano ancora.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 16 novembre 2010

La tessera

Egregio Ministro Roberto Maroni, scusi se insistiamo ma la tessera del tifoso, così com'è, è del tutto inutile. Non solo: penalizza le persone per bene, i padri di famiglia (come da numerose lettere che ci stanno arrivando). Non è vero che è servita per debellare la violenza negli stadi: già lo scorso anno c'era stato un calo di incidenti e se adesso la situazione è migliorata (ed è vero che è migliorata) il merito principale è della maggiore attenzione e organizzazione di alcune questure. Mi riferisco in particolar modo a quella di Roma: si sono disputate partite delicate come il derby e Lazio-Napoli senza incidenti (inoltre rispetto allo scorso anno sono raddoppiati i Daspo). Si è disputato il derby di Sicilia, Palermo-Catania, con la presenza dei tifosi etnei: merito del comportamento dei tifosi, delle due questure e anche dei presidenti Zamparini e Pulvirenti. La tessera del tifoso che c'entra? Niente, egregio Ministro: anche perché di fatto i questori l'hanno abolita, non ne tengono assolutamente conto. Altrimenti avrebbero problemi ancora maggiori di quelli che già hanno. Soprattutto con le trasferte dove il settore riservato alle tifoserie ospiti (quelle con tessera del tifoso) è quasi sempre deserto mentre i tifosi non tesserati si mischiano con i sostenitori di casa, creando (a volte) grossi problemi. Se ne è accorto lo stesso Maroni (era ora...): "Stiamo monitorando queste situazioni, dobbiamo intervenire sugli irriducibili che non vogliono la tessera e vanno in trasferta ma non siedono nel settore ospiti: ma nel complesso i risultati sono positivi". Gli irriducibili, come li chiama Maroni, sono la stragrande maggioranza dei tifosi che vanno in trasferta: che facciamo, li lasciamo a casa?

Intervenuto ai microfoni de La Politica nel Pallone di Gr Parlamento, Maroni ha annunciato anche l'intenzione di voler inserire la legge sugli stadi nel decreto sicurezza: "Ho presentato il decreto per la sicurezza stadi che prevede l'estensione della flagranza differita, poi c'è la legge sugli stadi che è ferma in Parlamento da troppo tempo e non si capisce perché: spero di inserire questo pacchetto in sede di conversione del decreto". La legge adesso è all'esame della commissione cultura della Camera: va avanti con lentezza esasperante dall'11 maggio scorso. "Gli stadi di proprietà aiuterebbero anche sul fronte della sicurezza", ha detto Maroni: e ha ragione ma non sembra che i club siano particolarmente preoccupati, a parte qualche presidente che già fiutava il business...

"I feriti sono diminuiti del 50% e del 40% il numero degli incontri con incidenti, mentre la media degli spettatori è aumentata nonostante il calendario spezzatino", ha ribadito Maroni in radio. Il ministro ha anche assicurato di volere "eliminare reti e barriere negli stadi fra campo e tribune entro il 2013. Lo stadio deve essere luogo di gioia e non di separazione". Giusto: ma lasci perdere la tessera del tifoso che non serve a nulla.

Intanto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che reintroduce l'arresto in flagranza differita - scaduto lo scorso 30 giugno - per i tifosi che commettono reati entro 48 ore dagli eventi, sulla base delle riprese video. Vengono poi ampliati i compiti degli steward, chiamati a "servizi ausiliari dell'attività di polizia, relativi ai controlli nell'ambito dell'impianto sportivo" e se ne rafforza la tutela penale. E di questo va dato atto a Maroni.

di Fulvio Bianchi; la Repubblica

Povero Silvio

Vai via con loro

Per "Vieni via con me", Fazio-Saviano su Raitre, seconda puntata, sono cifre pazzesche (posto che usiamo l'Auditel come parametro): 9 milioni e 31 mila telespettatori, 30.21% di share. E' come se una parte consistente d'Italia, dimenticata dalla tv del dolore, delle lacrime, della cialtroneria, fosse stata finalmente accontentata. Chi non guardava più la tele, è tornato a guardarla. Il bacino del pubblico da conquistare è enorme. Se in Italia siamo quasi 60 milioni, contiamone 55, e 15 seguono in media la tv, c'è una spaventosa fetta di pubblico tutta da scoprire. Questa è la sfida accolta da Fazio. E questa non è politica, è spettacolo. E, come dicono gli americani che nel genere la sanno lunga, "there is no business like show business".

di Alessandra Comazzi; LA STAMPA

domenica 14 novembre 2010

Pompei

Il telegiornale tedesco informa con sobria soddisfazione come Angela Merkel, al G20, abbia trattato da pari a pari con i Grandi del mondo. Poi, dopo alcuni istanti, sullo stesso schermo il panorama muta drasticamente: un amaro servizio dall’Italia parla di Pompei che si sbriciola, metafora della società italiana che si sfalda. L’accostamento mediatico dei due eventi colpisce. Dopo la fase della critica, dello sdegno, del sarcasmo verso il nostro Paese, è rimasto soltanto lo stupore che chiede - invano - spiegazioni. Chi avrebbe immaginato l’abisso che nel giro di pochi anni si sarebbe creato tra Germania e Italia, a livello di opinione e di immagine pubblica? Chi poteva prevedere l’attuale indifferenza reciproca delle classi politiche?

E l’enorme fatica dei rapporti culturali? La stagione dei rapporti costruttivi tra Germania e Italia - al di là delle ovvie differenze -, la stagione politica degli Andreotti e dei Genscher, per citare due testimoni viventi, sembra preistoria.

Conosco le irritate reazioni degli alti funzionari ministeriali a quanto sto dicendo: elencano i comunicati degli incontri bilaterali italo-tedeschi, rituali e sempre più rari. O l’elenco delle manifestazioni di arte e spettacolo. O le cifre degli ottimi rapporti commerciali tra i due Paesi. Certo, gli affari vanno bene e l’arte italiana attira sempre. Ma è nettissima la percezione che si è rotto qualcosa di profondo.

Conosciamo le ragioni storiche oggettive di quanto è accaduto nell’ultimo quindicennio: il mutato equilibrio geopolitico in Europa che ha portato la Germania verso un nuovo ruolo continentale e ha spinto l’Italia alla periferia Sud-europea. L’allargamento dell’Ue, che ha declassato l’Italia tra le nazioni di media rilevanza. Ma dietro queste spinte e fatti oggettivi ci sono uomini e politiche di governo che hanno la loro responsabilità.

Da un lato c’è la Germania della Merkel che sta orientando autorevolmente di fatto la politica europea senza pretendere di comandarla. Dall’altro c’è l’Italia (post) berlusconiana che arranca per non precipitare nel vuoto. Ma non è più soltanto un problema di prestazione economica, bensì di tenuta spirituale (se mi è consentito questo impegnativo termine, diventato obsoleto).

Non è colpa di un solo uomo ma della compartecipazione di una classe politica, di un ceto dirigente e della complicità di una parte consistente della società civile. Ora l’edificio si sta sfaldando?
La metafora di Pompei-Italia, diventata mediaticamente potente, merita di essere presa sul serio.

Mettiamoci nei panni dello spettatore tedesco che guarda con doloroso stupore all’accaduto. Gli viene detto che la colpa è del governo che ha tagliato indiscriminatamente i fondi per il mantenimento del patrimonio artistico; viene messo sotto accusa il ministro dei Beni culturali, che si difende in modo maldestro e patetico; si denuncia la incompetenza delle autorità locali preposte. Ma lo stato d’abbandono e di degrado dell’area di Pompei (messa impietosamente in luce dai media ma da tempo ben nota ai visitatori) mostra un livello di indecenza e di diseducazione civica che va ben oltre la responsabilità dei singoli amministratori. È la metafora della società italiana - indifferenza e inciviltà alla base, incompetenza nell’amministrazione, incapacità della politica.

Da che parte incominciare per invertire la rotta? Dal vertice? Se si cambia un governo rivelatosi incapace, si rimette tutto a posto? L’eccesso di personalizzazione che ha caratterizzato la politica di Berlusconi rischia di trasformarsi in un boomerang di aspettative eccessive per un suo ipotetico allontanamento.

Per questo l’opinione pubblica tedesca è sconcertata. Non riesce a capire che cosa sta succedendo a Roma e si chiede se è davvero pronta una nuova classe politica capace e competente per un dopo-Berlusconi frettolosamente preannunciato. Questa nuova classe politica può uscire dalla composizione attuale del Parlamento? O saranno necessarie nuove elezioni? E se invece tutto si ricompattasse come prima?

Il pubblico tedesco è in attesa. In altri tempi la solidarietà tra le «famiglie politiche» europee - democristiana, socialista e anche verde - avrebbe portato spontaneamente a forme di consultazione e sostegno reciproco. Ora non è più così. Gli italiani sono soli. E sotto scettica osservazione.

di Gian Enrico Rusconi; LA STAMPA

giovedì 11 novembre 2010

Sveglia!!!

Quando era soltanto un leghista, Roberto Cota poteva reggere il posacenere di Bossi o sostituirsi a esso con mani d’amianto. Poteva persino sventagliare la nuca del suo signore come uno schiavo nubiano. Ma da alcuni mesi Cota è alla testa di una Regione italiana di una qualche importanza: il Piemonte.

Questo significa che, qualsiasi cosa faccia, non è più il leghista che la fa, ma il governatore del Piemonte. E Cavour non combinò tutto quell’ambaradan perché i suoi eredi finissero a reggere il posacenere del pronipote di Alberto da Giussano in una prefettura di Vicenza dove tra l’altro sarebbe pure vietato fumare.

È legittimo che Cota nutra per il suo futuro progetti ambiziosi, come reggere il posacenere al prossimo presidente della Repubblica Padana. Però, nell’attesa che più alti destini si compiano, dovrebbe almeno far finta di rappresentare la Regione che lo ha votato. Per quanto possa sembrargli strano, Cota incarna un’istituzione. Quindi via le camicie, le cravatte, i fazzolettini verdi. E i posacenere, per favore, sul tavolino.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 9 novembre 2010

Vieni via con me (II)

Benigni esausto che canta «E’ tutto mio» è stato un gran pezzo di televisione. E «Vieni via con me» è stato soprattutto teatro in televisione. Quelle tre ore di elenchi, monologhi, canzoni, sembravano ciò che di più antitelevisivo si possa dare, in questi video-tempi veloci e affrettati, fatti di slogan e non di ragionamenti. Il programma di Fabio Fazio ha invece riscoperto il valore della parola. Non a caso, di sfondo, stavano le pietre millenarie di un teatro greco. Con orgoglio intellettuale, il riferimento non detto era al Verbo, «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Orgoglio ma non presunzione, perché la presunzione è fatta di improvvisazione e di superficialità e di scarsa conoscenza dei mezzi propri e altrui. Fazio invece è così: si prepara, e cerca il meglio su piazza, inseguendo il pensiero trasversale. In fondo fu lui a portare Gorbaciov e il Nobel Dulbecco sul palcoscenico di Sanremo. Ebbe un successo ancora ineguagliato, pure quantitativo, e in fondo quel Festival segnò la via.

Canta Daniele Silvestri il fondamentale brano di Gaber «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono», e a poco a poco la parola «italiano» trascolora e diventa «Saviano». Fazio aveva cominciato questo spettacolo che è una citazione di Paolo Conte, con una serie di elenchi alla Hornby, i buoni motivi per costruire una moschea a Torino, i mestieri di una giovane neolaureata. Poi è arrivato Nichi Vendola a dire i modi in cui si può definire l’omosessuale. E Abbado ha elencato i motivi per cui è sbagliato tagliare i fondi alla cultura.

All’Italia e alla mafia era dedicato il monologo di Saviano, lungo una buona mezzora. Mezzora è molto lunga in tv. Lui l’ha saputa gestire con foga oratoria, richiami a Falcone e Borsellino, la lucida indignazione sulla macchina del fango, che ricopre chi si schiera «contro questo governo. Viene attaccata la vita privata, e chi deve scrivere ha paura. Così si attacca la libertà di stampa, di informazione». Luci splendide, primi piani gloriosi. Poi è arrivato Benigni: «Poiché io non prendo il mio cachet, spero che Masi rinunci allo stipendio». Battute battute battute, e una narrazione di una lucida analisi comico politica, culminata nella canzone «E’ tutto mio». Battuta migliore. «Dice Bersani di Berlusconi: bisogna abbatterlo politicamente: la prossima voglia bisogna beccarlo con una minorenne del pd».

di Alessandra Comazzi; LA STAMPA

Vieni via con me

Come dimostrano gli ascolti (superiori al previsto, e quasi otto milioni non li fa ormai più nessuno, per di più su Raitre) quello che fa imbestialire i censori interessati del gruppo Fazio & Saviano è l'accorgimento usato nell'allestire un programma popolare. Nel senso che ieri sera si capiva tutto quello che dicevano in tv. E con una formula che, in senso lato, è quella del vecchio varietà coi numeri uno dopo l'altro. E con quelli bravi sulla piazza. Tutto che stride maledettamente con le accuse di snobismo, ingaggi miliardari, cuori a sinistra e portafogli a destra etc etc. Comunque un riscontro che i talk-show se lo sognano, almeno finché non porteranno in trasmissione Ruby, Nadia e le altre, e a patto che facciano qualche numeretto.

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In prima pagina sul Giornale una (legittima) reprimenda del direttore Alessandro Sallusti contro Fazio&Saviano&Benigni. Ma il respiro è più ampio, salvo fermarlo un attimo di fronte al fatto che Sallusti sostiene di non percepire, testuale, "il vento che nasce dalla pancia del paese". Sembra un ribaltamento di vecchi slogan rivoluzionari, con la differenza che quella destinata a seppellire il potere stavolta non è esattamente una risata. Non siamo ancora al "Turatevi il naso e votate Berlusconi" ma non ci siamo mai andati così vicini.

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A X-Factor si esibisce Edoardo Bennato. Alla fine Facchinetti lo avvicina per una breve intervista, Bennato
si lancia nella disamina del programma e dei talent-show, ricorda che oltre trent'anni fa lui mise in guardia tutti i Pinocchio della terra a stare attenti al Gatto e la Volpe, che ti fanno firmare i contratti e poi "noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai/noi sapremo sfruttare le tue qualità". E poi Bennato si rende conto che il discorso in quella sede diventa scivolosissimo e chissà che, e a quel punto ci si mette tutti a parlare d'altro.

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Ciucciati il tigiuno
"Quanto agli ascolti abbiamo sofferto molto il successo dei Simpson" (Augusto Minzolini al Corriere della Sera)

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Il concorrente: "Queste cene nel Peloponneso poi finivano con atteggiamenti collettivi promiscui"
Gerry Scotti: "Bunga Bunga!!"
(Chi vuol essere milionario, Canale 5)

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"Lei era un sex symbol anche da giovane?" (Daria Bignardi a Ferruccio De Bortoli, Le invasioni barbariche, La7)

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"E' in arrivo una temibile minaccia terroristica che nasce dall'unione di due sette fondamentaliste. Una è islamica, l'altra sono i Testimoni di Geova". Si fanno chiamare I Fondamentalisti di Geova e minacciano di far esplodere i citofoni nelle case la domenica mattina. (Gene Gnocchi, Raitre)

di Antonio Dipollina; la Repubblica

giovedì 4 novembre 2010

Effetto bunga bunga

Imperversa mentalmente:
Crisi d'astinenza:

Mai abbassare la guardia

Cavoli a merenda

Davvero fosforica l’idea concepita dal Festival di Sanremo per i 150 anni dell’Italia unita: eseguire sul palco «Bella ciao» e «Giovinezza», rispettivamente colonna sonora della Resistenza e dei pestaggi squadristi. Erano italiani anche quelli, no? Come l’olio d’oliva e l'olio di ricino, la Costituzione e le leggi razziali. Ah, le forzature della par condicio! Perché le due canzoni non sono proprio la stessa cosa. «Bella ciao» è la torva nenia dei partigiani rossi ed evoca cosacchi a San Pietro e santori ad Annozero. Invece «Giovinezza» trasuda ottimismo spensierato: ti mette subito voglia di afferrare un manganello e scendere in strada a sgranchirti un po’. Come dite, organizzatori del Festival dell’Ipocrisia? «Giovinezza era l’inno della goliardia toscana del primo Novecento». Ma certo. E' per questo che è famosa. E’ per questo che volete trasmetterla in eurovisione. Per rendere omaggio a quel fenomeno ingiustamente sottovalutato che fu la goliardia toscana del primo Novecento. E «Faccetta nera» allora, era lo slogan di una crema abbronzante?

Peccato che tanti italiani saliti in montagna o internati in Germania dopo l'8 settembre non siano più qui a commentare questo gemellaggio ardito (in ogni senso): vi avrebbero spiegato la differenza fra «Bella ciao» e «Giovinezza» meglio di me, anche se con toni meno ilari. Provo a condensare il loro pensiero: il fascismo è stato un regime dittatoriale precipitato in catastrofe, non può essere banalizzato in questo modo. In nessun modo. Vi sembrerà incredibile, ma non tutto fa spettacolo nella vita.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Tutto ok!

Ok, non c'è parolina al mondo più abusata. E, ok, duecento pagine per una storia da due lettere potranno sembrare troppe. Ma quella sillaba che ha fatto il giro del pianeta non è forse la più grande invenzione americana? Allan Metcalf, segretario dell'American Dialect Society ha contato quante volte appare sul web. E si è accorto che era come riempire il mare col secchiello: l'uso dell'ok è universale. E pensare che nacque per scherzo e a strapparlo dall'oblio ci pensò una campagna elettorale...

Una vicenda che lo storico della lingua ha ricostruito nel suo Ok: The Improbable Story of America's Greatest Word, in libreria il 9 novembre. Il papà di quella parolina, Charles Gordon Greene, non pensava certo che avrebbe avuto fortuna: altrimenti l'avrebbe brevettata. L'editore del Boston Morning Post creava abitualmente acronimi per i suoi lettori: una lingua per fedelissimi in fondo simile a quella usata oggi su internet. Mister Greene inzeppava i suoi articoli di "NG" cioè no go, non andare. "GC", gin cocktail e perfino "raotflmmfaoiaatkflmm", "rolling around on the floor laughing my motherf ing ass off in an attempt to keep from losing my mind": modo bizzarro per dire che non conteneva le risate. Finché, il 23 marzo 1839, in una disputa con il rivale Providence Journal gli scappò quel "o. k." che, specificò, significava "all correct". Ma perché con la O e con la K?

L'abbreviazione scorretta, arguisce Metcalf, era simile alla pronuncia. Come altre abbreviazioni usate sul giornale: per esempio "ow" per all right, tutto bene. Non staremmo qui a parlarne se però non ci fosse di mezzo un presidente. Leggenda vuole che l'inventore dell'ok sia stato il populista e massacratore d'indiani Andrew Jackson: che i suoi avversari accusavano di essere un illetterato. Nel 1828 produssero una sua finta e sgrammaticata lettera che ottenne l'effetto opposto: una valanga di voti. Non ci sono prove che siglasse davvero ok, oll korrect, i documenti. Ma certo sdoganò l'uso della K al posto della C.

Fu un altro presidente a dare popolarità a quella parolina: Martin van Buren nel 1840 in cerca di secondo mandato. Veniva da Kinderhook, New York. E i suoi sostenitori lo chiamarono OK, Old Kinderhook, che nel nuovo significato stava anche per l'uomo giusto. Fu una campagna elettorale spettacolare. La sillaba campeggiò su ogni cartello, battezzò nuovi club. E una rissa diede vita al suo contrario, K.O.: che stava per kicked over, espulsi, e non per il pugilistico knock-out. Da allora Ok è diventata abbreviativo diffuso fra i telegrafisti prima e i telefonisti poi.

Il cinema ci ha messo del suo e Ok è diventato così popolare da essere la prima parola pronunciata sulla Luna. E quella che ha preceduto l'azione eroica di Todd Beamer nell'affrontare, l'11 settembre 2001, i terroristi del volo 93 che si schiantò in Pennsylvania. Fino all'ultima rivoluzione: i messaggini telefonici che hanno amplificato all'infinito il suo uso. Del resto, provateci voi a trovare una parolina più efficace: ok?

di Anna Lombardi; la Repubblica

domenica 31 ottobre 2010

Raccomandazione

Visitate l'archivio on line completo de LA STAMPA, per informarvi e per divertirvi.
Grazie e complimenti a chi ci ha lavorato.

sabato 30 ottobre 2010

venerdì 29 ottobre 2010

Bunga bunga

Gli americani sono dei quaccheri. Lì un presidente può fare bunga bunga con Marilyn Monroe o una stagista della Casa Bianca, ma se telefonasse all’Fbi per far rilasciare una minorenne arrestata per furto, oltretutto spacciandola per nipotina di Mubarak, sarebbe costretto a dimettersi alla velocità della luce. E se dicesse di averlo fatto perché è un uomo di buon cuore? Peggiorerebbe soltanto la situazione. L’abuso di potere, la sacralità della carica, bla-bla.

Che perbenismo triste, che formalismo ipocrita. E la Francia giacobina? Neanche a parlarne. Lì un presidente può tenere nascosta una figlia tutta la vita come Mitterrand o sposare una modella col birignao più appuntito delle caviglie, ma se telefonasse alla Gendarmerie per far rilasciare una minorenne arrestata per furto, oltretutto spacciandola per nipotina di Mubarak, sarebbe costretto a ritirarsi a vita privata. I francesi non hanno una storia alle spalle che consenta loro di apprezzare certi slanci liberali. Sapranno cucinare le omelette, ma la democrazia non gli è mai riuscita bene. I tedeschi, poi: luterani, gente fanatica. Lì un cancelliere non telefonerebbe al Polizeipräsidium neanche per far rilasciare la propria, di nipotina, altro che quella di Mubarak. Ecco, forse solo in Egitto, dove la democrazia affonda nei millenni (i famosi Faraoni della Libertà), il presidente telefonerebbe alla polizia per far rilasciare una minorenne arrestata per furto. Ma non la spaccerebbe per nipotina di Mubarak, essendo lui Mubarak. Semmai per nipotina di Berlusconi: esisterà, al riguardo, un accordo bilaterale?

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 28 ottobre 2010

Tutti uguali, tutti peggiori

Ogni volta che vedete i roghi di Terzigno, prima di arrabbiarvi pensate a Vincenzo Cenname. Dopo vi arrabbierete molto di più. Cenname è un ingegnere ambientale, eletto sindaco di un Comune di duemila anime della provincia di Caserta, Camigliano. Alle spalle non ha né la destra né la sinistra, ma una laurea. Sulle spalle una testa. E dentro la testa un sogno: trasformare il suo borgo in una Svizzera col sole. Mette le luci a basso impatto energetico al cimitero e i pannolini lavabili all'asilo nido. Si inventa una moneta, l'eco-euro, spendibile solo in paese, con cui ricompensa i bambini che portano a scuola il vetro da riciclare. Giorno dopo giorno, senza alcun aumento dei costi, cattive abitudini inveterate si trasformano in comportamenti virtuosi, mentre la raccolta differenziata raggiunge percentuali scandinave.

E i luoghi comuni sul Sud immutabile e inemendabile? Rottamati dal sogno di un sindaco casertano che ha meno di quarant'anni. Ci si aspetterebbe la fila di notabili alla sua porta: la prego, ingegner Cenname, venga a insegnarci come si fa. Arriva invece una legge assurda che solo in Campania toglie ai Comuni la raccolta dei rifiuti per affidarla a un carrozzone provinciale. Il sindaco si ribella, sostenuto dall'intera popolazione, ma il prefetto segnala il suo caso al ministro Maroni. In dieci giorni il consiglio comunale viene sciolto e Cenname rottamato neanche fosse un mafioso. Da allora sono passati tre mesi, ma non lo sconforto per l'ottusità di uno Stato che per far rispettare una brutta legge ha sporcato quel po' di pulito che c'era.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 27 ottobre 2010

Ai posteri

Spiegare Silvio Berlusconi agli italiani è una perdita di tempo. Ciascuno di noi ha un'idea, raffinata in anni di indulgenza o idiosincrasia, e non la cambierà. Ogni italiano si ritiene depositario dell'interpretazione autentica: discuterla è inutile. Utile è invece provare a spiegare il personaggio ai posteri e, perché no?, agli stranieri. I primi non ci sono ancora, ma si chiederanno cos'è successo in Italia. I secondi non capiscono, e vorrebbero. Qualcosa del genere, infatti, potrebbe accadere anche a loro. Com'è possibile che Berlusconi - d'ora in poi, per brevità, B. - sia stato votato (1994), rivotato (2001), votato ancora (2008) e rischi di vincere anche le prossime elezioni? Qual è il segreto della sua longevità politica? Perché la maggioranza degli italiani lo ha appoggiato e/o sopportato per tanti anni? Non ne vede gli appetiti, i limiti e i metodi? Risposta: li vede eccome. Se B. ha dominato la vita pubblica italiana per quasi vent'anni, c'è un motivo. Anzi, ce ne sono dieci.

1) Fattore umano
Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «Ci somiglia, è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme. B. vuole bene ai figli, parla della mamma, capisce di calcio, sa fare i soldi, ama le case nuove, detesta le regole, racconta le barzellette, dice le parolacce, adora le donne, le feste e la buona compagnia. È un uomo dalla memoria lunga capace di amnesie tattiche. È arrivato lontano alternando autostrade e scorciatoie. È un anticonformista consapevole dell'importanza del conformismo. Loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio e la sera si porta a casa le ragazze. L'uomo è spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto. Tanti italiani non si curano dei conflitti d'interesse (chi non ne ha?), dei guai giudiziari (meglio gli imputati dei magistrati), delle battute inopportune (è così spontaneo!). Promesse mancate, mezze verità, confusione tra ruolo pubblico e faccende private? C'è chi s'arrabbia e chi fa finta di niente. I secondi, apparentemente, sono più dei primi.

2) Fattore divino
B. ha capito che molti italiani applaudono la Chiesa per sentirsi meno colpevoli quando non vanno in chiesa, ignorano regolarmente sette comandamenti su dieci. La coerenza tra dichiarazioni e comportamenti non è una qualità che pretendiamo dai nostri leader. L'indignazione privata davanti all'incoerenza pubblica è il movente del voto in molte democrazie. Non in Italia. B. ha capito con chi ha a che fare: una nazione che, per evitare delusioni, non si fa illusioni. In Vaticano - non nelle parrocchie - si accontentano di una legislazione favorevole, e non si preoccupano dei cattivi esempi. Movimenti di ispirazione religiosa come Comunione e Liberazione preferiscono concentrarsi sui fini - futuri, quindi mutevoli e opinabili - invece che sui metodi utilizzati da amici e alleati. Per B. quest'impostazione escatologica è musica. Significa spostare il discorso dai comportamenti alle intenzioni.

3) Fattore Robinson
Ogni italiano si sente solo contro il mondo. Be', se non proprio contro il mondo, contro i vicini di casa. La sopravvivenza - personale, familiare, sociale, economica - è motivo di orgoglio e prova d'ingegno. Molto è stato scritto sull'individualismo nazionale, le sue risorse, i suoi limiti e le sue conseguenze. B. è partito da qui: prima ha costruito la sua fortuna, accreditandosi come un uomo che s'è fatto da sé; poi ha costruito sulla sfiducia verso ciò che è condiviso, sull'insofferenza verso le regole, sulla soddisfazione intima nel trovare una soluzione privata a un problema pubblico. In Italia non si chiede - insieme e con forza - un nuovo sistema fiscale, più giusto e più equo. Si aggira quello esistente. Ognuno di noi si sente un Robinson Crusoe, naufrago in una penisola affollata.

4) Fattore Truman
Quanti quotidiani si vendono ogni giorno in Italia, se escludiamo quelli sportivi? Cinque milioni. Quanti italiani entrano regolarmente in libreria? Cinque milioni. Quanti sono i visitatori dei siti d'informazione? Cinque milioni. Quanti seguono Sky Tg24 e Tg La7? Cinque milioni. Quanti guardano i programmi televisivi d'approfondimento in seconda serata? Cinque milioni, di ogni opinione politica. Il sospetto è che siano sempre gli stessi. Chiamiamolo Five Million Club. È importante? Certo, ma non decide le elezioni. La televisione - tutta, non solo i notiziari - resta fondamentale per i personaggi che crea, per i messaggi che lancia, per le suggestioni che lascia, per le cose che dice e soprattutto per quelle che tace. E chi possiede la Tv privata e controlla la Tv pubblica, in Italia? Come nel Truman Show, il capolavoro di Peter Weir, qualcuno ci ha aiutato a pensare.

5) Fattore Hoover
La Hoover, fondata nel 1908 a New Berlin, oggi Canton, Ohio (Usa), è la marca d'aspirapolveri per antonomasia, al punto da essere diventata un nome comune: in inglese, «passare l'aspirapolvere» si dice to hoover. I suoi rappresentanti (door-to-door salesmen) erano leggendari: tenaci, esperti, abili psicologi, collocatori implacabili della propria merce. B. possiede una capacità di seduzione commerciale che ha ereditato dalle precedenti professioni - edilizia, pubblicità, televisione - e ha applicato alla politica. La consapevolezza che il messaggio dev'essere semplice, gradevole e rassicurante. La convinzione che la ripetitività paga. La certezza che l'aspetto esteriore, in un Paese ossessionato dall'estetica, resta fondamentale (tra una bella figura e un buon comportamento, in Italia non c'è partita).

6) Fattore Zelig
Immedesimarsi negli interlocutori: una qualità necessaria a ogni politico. La capacità di trasformarsi in loro è più rara. Il desiderio di essere gradito ha insegnato a B. tecniche degne di Zelig, camaleontico protagonista del film di Woody Allen. Padre di famiglia coi figli (e le due mogli, finché è durata). Donnaiolo con le donne. Giovane tra i giovani. Saggio con gli anziani. Nottambulo tra i nottambuli. Lavoratore tra gli operai. Imprenditore tra gli imprenditori. Tifoso tra i tifosi. Milanista tra i milanisti. Milanese con i milanesi. Lombardo tra i lombardi. Italiano tra i meridionali. Napoletano tra i napoletani (con musica). Andasse a una partita di basket, potrebbe uscirne più alto.

7) Fattore harem
L'ossessione femminile, ben nota in azienda e poi nel mondo politico romano, è diventata di pubblico dominio nel 2009, dopo l'apparizione al compleanno della diciottenne Noemi Letizia e le testimonianze sulle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli. B. dapprima ha negato, poi ha abbozzato («Sono fedele? Frequentemente»), alla fine ha accettato la reputazione («Non sono un santo»). Le rivelazioni non l'hanno danneggiato: ha perso la moglie, ma non i voti. Molti italiani preferiscono l'autoindulgenza all'autodisciplina; e non negano che lui, in fondo, fa ciò che loro sognano. Non c'è solo l'aspetto erotico: la gioventù è contagiosa, lo sapevano anche nell'antica Grecia (dove veline e velini, però, ne approfittavano per imparare). Un collaboratore sessantenne, fedele della prima ora, descrive l'insofferenza di B. durante le lunghe riunioni: «È chiaro: teme che gli attacchiamo la vecchiaia».

8) Fattore Medici
La Signoria - insieme al Comune - è l'unica creazione politica originale degli italiani. Tutte le altre - dal feudalesimo alla monarchia, dal totalitarismo al federalismo fino alla democrazia parlamentare - sono importate (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna o dagli Stati Uniti). In Italia mostrano sempre qualcosa di artificiale: dalla goffaggine del fascismo alla rassegnazione del Parlamento attuale. La Signoria risveglia, invece, automatismi antichi. L'atteggiamento di tanti italiani di oggi verso B. ricorda quello degli italiani di ieri verso il Signore: sappiamo che pensa alla sua gloria, alla sua famiglia e ai suoi interessi; speriamo pensi un po' anche a noi. «Dall'essere costretti a condurre vita tanto difficile», scriveva Giuseppe Prezzolini, «i Signori impararono a essere profondi osservatori degli uomini». Si dice che Cosimo de' Medici, fondatore della dinastia fiorentina, fosse circospetto e riuscisse a leggere il carattere di uno sconosciuto con uno sguardo. Anche B. è considerato un formidabile studioso degli uomini. Ai quali chiede di ammirarlo e non criticarlo; adularlo e non tradirlo; amarlo e non giudicarlo.

9) Fattore T.I.N.A.
T.I.N.A., There Is No Alternative. L'acronimo, coniato da Margaret Thatcher, spiega la condizione di molti elettori. L'alternativa di centrosinistra s'è rivelata poco appetitosa: coalizioni rissose, proposte vaghe, comportamenti ipocriti. L'ascendenza comunista del Partito democratico è indiscutibile, e B. non manca di farla presente. Il doppio, sospetto e simmetrico fallimento di Romano Prodi - eletto nel 1996 e 2006, silurato nel 1998 e 2008 - ha un suo garbo estetico, ma si è rivelato un'eredità pesante. Gli italiani sono realisti. Prima di scegliere ciò che ritengono giusto, prendono quello che sembra utile. Alcune iniziative di B. piacciono (o almeno dispiacciono meno dell'alternativa): abolizione dell'Ici sulla prima casa, contrasto all'immigrazione clandestina, lotta alla criminalità organizzata, riforma del codice della strada. Se queste iniziative si dimostrano un successo, molti media provvedono a ricordarlo. Se si rivelano un fallimento, c'è chi s'incarica di farlo dimenticare. Non solo: il centrodestra unito rassicura, almeno quanto il centrosinistra diviso irrita. Se l'unico modo per tenere insieme un'alleanza politica è possederla, B. ne ha presto calcolato il costo (economico, politico, nervoso). Senza conoscerlo, ha seguito il consiglio del presidente Lyndon B. Johnson il quale, parlando del direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover, sbottò: «It's probably better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», probabilmente è meglio averlo dentro la tenda che piscia fuori, piuttosto di averlo fuori che piscia dentro. Così si spiega l'espulsione e il disprezzo verso Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della libertà. Nel 2010, dopo sedici anni, l'alleato ha osato uscire dalla tenda: e non è ben chiaro quali intenzioni abbia.

10) Fattore Palio
Conoscete il Palio di Siena? Vincerlo, per una contrada, è una gioia immensa. Ma esiste una gioia altrettanto grande: assistere alla sconfitta della contrada rivale. Funzionano così molte cose, in Italia: dalla geografia all'industria, dalla cultura all'amministrazione, dalle professioni allo sport (i tifosi della Lazio felici di perdere con l'Inter pur di evitare lo scudetto alla Roma). La politica non poteva fare eccezione: il tribalismo non è una tattica, è un istinto. Pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, molti italiani avrebbero votato il demonio. E B. sa essere diabolico. Ma il diavolo, diciamolo, ha un altro stile.

di Beppe Severgnini; CORRIERE DELLA SERA

venerdì 22 ottobre 2010

Avviso ai naviganti

Scrivo e "pubblico" articoli altrui soprattutto per confrontarmi con Voi.
Saremo pure quattro gatti, ma commentate!!!

A destra e a manca

Esistono ancora una destra e una sinistra? Da tempo (ormai tanto) si tratta di una questione annosa e dibattuta, oggetto delle risposte più varie da parte degli studiosi. Per rimanere dalle parti di casa nostra, Norberto Bobbio, come noto, mai avrebbe rinunciato alla distinzione tra i due campi politici, mentre Massimo Cacciari la ritiene una «geografia politica superata».

Quando dai cieli altissimi della teoria politica, passiamo però all'ambito delle prassi e dei comportamenti e a quello delle immagini (altrettanto importante del primo, visto che viviamo nell'età liquida), le barriere cadono, e di brutto.

Così, non sappiamo se la situazione sia eccellente, come avrebbe commentato il presidente Mao, ma, certo, grande è la confusione sotto il cielo. Basti guardare una foto che, in queste ore, ha fatto il giro del mondo, ed è stata pubblicata da vari quotidiani internazionali di prima fila, quella dell’italiana Licia Ronzulli che, nell’aula dell’Europarlamento, vota con marsupio e bambino al braccio. Un’immagine potente, di quelle che rimangono impresse nella memoria, e che, a voler richiamare dei precedenti pittorici illustri, ci rimanda quasi al Quarto Stato, il celeberrimo dipinto inizio secolo di Pellizza da Volpedo che illustrava la grande e irresistibile marcia del proletariato. E, infatti, la fotografia dell'on. Ronzulli, al lavoro con il figlioletto, mentre si vota una civilissima misura di sostegno alla maternità e alla paternità, si iscrive perfettamente nel solco iconografico delle conquiste femministe, e ci mostra la protagonista nelle potenziali vesti di una politica scandinava (dove situazioni come queste sono consuete).

Però... Sì, perché, c'è un però. Licia Ronzulli, a essere precisi, nulla c'entra con le sinistre di qualunque latitudine. È, invece, una deputata europea del Pdl e, come specificherebbero i giornalisti politici di lungo corso, una «berlusconiana» dell'inner circle, di quelle di più stretta consonanza col premier. Siamo allora di fronte a una specie di vero e proprio cortocircuito cognitivo (del resto, il mondo postmoderno è luogo, quanto altri mai, di paradossi di ogni genere). E, al tempo stesso, ci troviamo anche davanti al fatto che, nella civiltà delle immagini e dei consumi, tramontate le ideologie, e diventate molto più leggere le identità politiche (anche se non sempre e non in tutti i casi), i travasi di simboli e comportamenti (come pure di idee) da destra a sinistra, e ritorno, sono diventati molto più «naturali» e all'ordine del giorno. Tony Blair era un alfiere delle politiche di sicurezza «legge e ordine», David Cameron ha fatto dell’ecologia una delle sue bandiere (e anche Angela Merkel si proclama ambientalista). Clinton si era scoperto neocomunitarista, e non lesinava certo l'uso delle armi per ribadire il primato degli Stati Uniti, mentre Sarkozy ha insediato una commissione «per liberare l'economia dalla dipendenza dal Pil», affidandola a personaggi come Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi. Che Guevara (oltre a essere un volto buono per vendere qualunque tipo di merce) rimane un’icona giovanile di sinistra, ma funziona molto anche per le inquietudini di certa destra, più o meno radicale. E, a proposito di destra in cerca di nuove strade, FareFuturo, la fondazione di Gianfranco Fini, ci sta abituando a passaggi e riappropriazioni di ogni genere (anche i più spericolati), Gramsci compreso. Per non dire del ministro Tremonti colbertista e «anti-global» o della rivoluzione liberale divenuta uno dei cavalli di battaglia di Massimo D’Alema. Ecco, dunque, che la foto di Licia Ronzulli rappresenta un’altra espressione del nostro, maggioritario, spirito dei tempi, il cui eroe è, non per caso, Barack Obama, fotogenico come una rockstar, e decisamente «oltre la destra e la sinistra».

Contaminazione, contaminazione, tutti la cercan, e in molti la trovano...

di Massimiliano Panarari; LA STAMPA

giovedì 21 ottobre 2010

Aggiungi un posto in banca

L’Unicredit si è impegnata con i sindacati a privilegiare le assunzioni dei figli dei dipendenti, purché la prole sia laureata e in grado di spiccicare un po’ d’inglese. Si tratta di un progresso formidabile: in tante altre aziende, e non solo bancarie, i figli prendono il posto dei padri anche se sono dei perfetti caproni (con tutto che si può essere perfetti caproni con una laurea e un paio di «how are you»). Il lavoro come diritto ereditario è uno dei cardini del nuovo medioevo e, oltre alla Casta dei politici, oggetto di esecrazione collettiva, ci sono cento, mille caste con l’iniziale minuscola, ma anch’esse con un mucchio di figli da sistemare. La mobilità sociale è uno splendido argomento di conversazione, come la meritocrazia. Ma appena ci si siede a trattare con il datore di lavoro, l’orizzonte etico si riduce precipitosamente al solito familismo amorale: mio figlio prima di tutti, anche di chi è più bravo di lui (dopotutto, chi sarà mai più bravo di mio figlio?).

Uno studente che non ha genitori in banca si starà probabilmente chiedendo il senso delle sue fatiche e se non gli convenga piuttosto intentare una causa di paternità a qualche dirigente dell’Unicredit. E chi il genitore in banca ce l’ha - e però magari desidera diventare carpentiere, flautista o costruttore di macchinine per i plastici di «Porta a Porta» - finirà per tarpare le ali alla sua vocazione perché il privilegio esercita un’attrazione fatale a cui soltanto i puri di cuore e di intelletto (altrimenti chiamati «matti») riescono a sottrarsi.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 19 ottobre 2010

Goccia dopo goccia

La libertà d’informazione è un bene fragile, come un’antica porcellana. Va in mille pezzi se la butti giù dal tavolo, e non c’è mastice che ti restituisca poi l’originale. Ecco perché abbiamo bisogno di tenere gli occhi aperti perfino sui dettagli. Specie quando sul dettaglio può inciampare un giornalista d’inchiesta, uno di quelli che vanno in prima linea, sotto il tiro delle artiglierie nemiche. Come Milena Gabanelli, come ahimè ben pochi altri suoi colleghi. È una forma di censura togliere alla Gabanelli la tutela legale della Rai? A prima vista no: nessuno minaccia di spegnere Report, né d’amputarne le parti più urticanti. D’altronde in Italia non c’è più il Minculpop, non c’è una propaganda di Stato come quella che il nazismo aveva affidato a Goebbels. La censura, quella tutt’oggi praticata dai regimi autoritari, è un’altra cosa; e il giornalista che la sfida sa che può rimetterci la vita. La Gabanelli, al massimo, ci rimetterà qualche quattrino. Tuttavia non esiste soltanto questa forma brutale di censura. Ce n’è una più obliqua e più indiretta, ma non meno efficace. Cade sulla propria vittima goccia a goccia, con un insieme d’azioni preordinate che hanno lo scopo di sfiancarla, oltre che d’intimidirla. Pressioni, ostacoli, ritardi burocratici, e ovviamente la leva finanziaria. L’arma perfetta, per i giornalisti non meno che per gli artisti.

Due secoli più tardi, rimane infatti più che mai eloquente il verso del poeta Béranger: «Io non vivo, che per scrivere dei canti; ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere».

Del resto nelle democrazie contemporanee l’ostracismo apertamente dichiarato può risolversi in un cattivo affare per i suoi mandanti. Finiscono per rimediarci una figura truce, mentre il censurato di turno si trasforma in martire, in eroe popolare. Guadagna tifosi, e magari trova un contratto più ricco altrove. Non è forse già successo dopo l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi? Correva il 2002, e da Sofia il presidente del Consiglio pronunziò un diktat contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Vennero immediatamente cancellati dai palinsesti Rai, ma dopo qualche anno (e qualche sentenza giudiziaria) i primi due ci hanno fatto ritorno passando sotto l’Arco di trionfo. Sarà per questo che nel frattempo i metodi si sono raffinati, sono diventati un po’ meno plateali. Come dimostra, per l’appunto, un rosario di episodi.

La Gabanelli, cui comunque già l’anno scorso il direttore generale Masi voleva togliere il patrocinio legale della Rai, senza riuscirci per l’opposizione di Zavoli, presidente della Vigilanza. Michele Santoro: programma a lungo in bilico, poi apre ma senza i contratti di Travaglio e Vauro, che da tre puntate lavorano a titolo gratuito; e per sovrapprezzo un provvedimento disciplinare. Serena Dandini: anche lei tenuta sulla corda, tanto che fino all’ultimo l’interessata non sapeva quante puntate le toccassero. Saviano e Fazio: altro programma ballerino, benché a novembre (salvo nuove giravolte) lo vedremo in onda. Senza dire di Paolo Ruffini, il direttore di Raitre cacciato e successivamente reintegrato per mano giudiziaria. È insomma il metodo della goccia cinese, che alla fine ti lascia un buco in fronte. Ma le torture, almeno quelle, sarebbero vietate.

di Michle Ainis; LA STAMPA

giovedì 14 ottobre 2010

Ivan alla rovescia

La telecamera di una stazione della metropolitana ha appena mostrato una scena stupefacente. Un uomo di mezza età dall’aspetto dimesso, riconducibile alla nota setta dei ragionieri, è stato sorpreso nell’atto di aiutare una signora a scendere dal treno. Le immagini non lasciano adito a dubbi: il ragioniere tende la mano e la donna, dopo un momento di comprensibile stupore, vi si appoggia con fiducia. I due si sono poi allontanati in direzioni opposte nell’indifferenza generale, ma non si dispera di poterli rintracciare: le indagini sono in corso, con un massiccio impiego di cockerini scampati alle ruote dei tassisti e di tassisti scampati ai padroni dei cockerini.

Tornando alla mano tesa del ragioniere, i contenitori televisivi del pomeriggio si interrogano sull’opportunità di mostrare un filmato di così forte impatto emotivo. Il pubblico potrebbe essere indotto a credere che l’umanità non abbia smarrito il seme della gentilezza e anche prestarsi a pericolose emulazioni. Tanto più che, con una concomitanza perlomeno sospetta, l’emittente locale Telebarbabietola ha diffuso lo spezzone agghiacciante di un giovane precario appassionato di calcio, Ivan il Sensibile, fermato all’ingresso dello stadio di Genova mentre tentava di introdurvi una cassa gigantesca, immediatamente sequestrata dalla polizia. Era piena di coriandoli: rossi, verdi, gialli, arancioni, addirittura blu. Ancora non è chiaro cosa intendesse fare Ivan con quelle briciole di carta fuori stagione: per precauzione, gli artificieri le hanno rovesciate su un asilo nido nei paraggi.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 12 ottobre 2010