venerdì 29 gennaio 2010

Ultim'ora

"Meno immigrati, meno criminalità."
Silvio Berlusconi

"Meno Italiani, nessun Berlusconi. Nessun Berlusconi, meno merda."
Il sottoscritto

venerdì 15 gennaio 2010

INVICTUS (II)

Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio quali che siano gli dei
per la mia indomabile anima.

Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’Orrore delle ombre,
e ancora la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto colma di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino.
Io sono il capitano della mia anima.

William Ernest Henley

INVICTUS

Out of the night that covers me,
Black as the Pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

William Ernest Henley

La mamma del tassista

Non è solo l’onestà che colpisce, è la costanza. La costanza nel voler fare a tutti i costi la cosa giusta. Mukul Asudazzaman è un tassista bengalese a New York City. Una pensionata italiana, Felicia, dimentica sulla sua vettura i 21.000 dollari che devono finanziare il viaggio transoceanico dell’intera tribù familiare. Possibilità di rivederli?, domanda affranta alla polizia. Sottozero, signora. Alla fine del turno Mukul trova il tesoro sul sedile posteriore. Conta i soldi dieci volte, perché così tanti non ne ha visti mai. E nel contarli trova un indirizzo di Long Island, ottanta chilometri di tangenziale. Ci torna tre volte, prima di incontrare qualcuno. Ore e ore di vita, e almeno un pieno di benzina. La costanza. Anche nel resistere alle tentazioni.

Finalmente gli aprono. È una parente, alla quale il bengalese - buono sì, mica scemo - non dà i soldi, ma un biglietto per la loro proprietaria: «Non preoccuparti, Felicia, li terrò al sicuro io». Felicia torna a casa e pensa, nell’ordine, a uno scherzo, a un ricatto, a un miracolo. Decide di rischiare e chiama Mukul. Il tassista ripercorre un’altra volta gli ottanta chilometri e consegna i 21.000 dollari all’italiana. Lei ne toglie mille dal mucchio per darli a lui, che li rifiuta e quasi si offende. «Quando avevo cinque anni mia mamma mi disse: sii onesto, lavora sodo e salirai di livello». Poi non va sempre così. Ma di sicuro si sale: se non nella carriera, nella considerazione di se stessi. Grazie alla mamma di Mukul per quel che ha insegnato. E grazie a Mukul per come lo ha imparato.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Tutto torna

Mai in una sala cinematografica avevo visto tutti gli spettatori, ma proprio tutti -215- alzarsi in piedi e applaudire un film in modo così caldo e convinto. È successo ieri a Parigi in un cinema del boulevard Saint Germain alla fine di "Invictus" che racconta e celebra la vittoria del Sudafrica nella coppa del mondo di rugby del 1995. Era l'anno successivo all' elezione di Nelson Mandela alla presidenza della Repubblica. Ed è stato uno spettacolo più emozionante dello spettacolo perché i parigini sono freddi e cortesi e anche al cinema non si fanno troppo incantare dalle ribalte fatate. Invece ieri sera, dopo un' ora e mezza di epica dello sport coniugata con la democrazia e con l' antirazzismo, non sembrava più di essere al cinema ma a teatro o meglio ancora allo stadio Ellis Park di Johannesburg dove appunto i ragazzi verde oro, gli Springbocks, battevano gli avversari, i leggendari All Blacks della Nuova Zelanda, ma soprattutto battevano i pronostici e se stessi, l' apartheid, l'odio razziale, i pregiudizi che sino ad allora, sotto la commedia del tifo civile ed elegante, avevano incarnato e simboleggiato. Il film racconta la geniale intuizione di Mandela: appropriandosi di quei colori e di quel simbolo sportivo che il popolo nero, ferocemente umiliato, voleva comprensibilmente abolire, riuscì a trasformare la squadra nell'officina democratica di un intero Paese, la squadra dei pingui poliziotti bianchi e dei malnutriti ladruncoli neri, del ricco spaventato e del povero rancoroso. Mandela capì che lo sport poteva accendere la passione unitaria, diventare uno strumento formidabile di integrazione, il laboratorio di un' idea di Paese, lo scrigno magico di nuovi valori condivisi, la banca delle risorse del sudafricano del futuro. Il film è uno schiaffo per un italiano che è abituato alle Curve Nord e alle Curve Sud dove l'odio è permesso e tollerato, luoghi a statuto speciale dove si picchia e si lincia, si insulta e ci si divide e senza neppure la lealtà dello scontro, nascosti e protetti dalla folla, che è la dimensione del fuorilegge, l' anomia e l' impunità. Anche in Sudafrica, prima di Mandela, lo stadio era diventato la nicchia del nativismo e del razzismo con i neri che tifavano sempre e comunque contro gli Springbocks, sgolandosi e dimenandosi e sputando sui colori del proprio paese. Mandela rovescia il mito che era stato costruito per opprimere, scova il valore che cova in ogni sport ed espugna la cittadella inespugnabile. Ma c'è di più in quel lungo applauso del pubblico parigino. C'è l'ovazione alla pulizia di un cinema che racconta i sapori forti, la morte crudele e il più violento dei conflitti etnici e razziali, con le allusioni e con gli accenni discreti. Niente brutte parole, niente sangue, niente bestemmie. C'è un Mandela poeta, il magnifico Morgan Freeman, che lascia una prigione dove penetrava una luce divina, e cerca di imporre al proprio disgraziato e bellissimo paese la cultura del pudore. Mandela amplifica sino all' epopea i colori tenui delle buone maniere e la dolcezza delle mezze tinte, è il massimo della gentilezza contro il massimo della ferocia. Il film è prodotto e diretto da Clint Eastwood, che nella vecchiaia è diventato un artista leggero come una piuma, senza più la voglia di ingombrare del "biondo" di Sergio Leone o del Dirty Harry che dice «come on punk, make my day» «fallo brutto schifoso e rendi allegra la mia giornata», un Eastwood che quasi domanda perdono per gli eccessi compiuti nella presunzione degli anni del vigore. Ha fatto dei suoi 79 anni l' età della perfezione artistica, senza sotterfugi, senza furbizie di mestierante. E sui marciapiedi degli Champes Elysees Parigi gli dedica un' affollatissima mostra di fotografie. C'è Clint con la barba e con il sigaro, con la pistola, con il fucile, con la macchina da presa, il titolo è «Cinema in libertà», e c' è anche una foto con De Sica ("Le streghe", 1967). Ma il film è soprattutto un film sullo sport che sarebbe piaciuto a Gianni Brera che lo usava come pretesto per raccontare i popoli e la politica, lo sport che rivelava la fantasia o la forza o la presunzione, insomma il carattere dei paesi. Ma sarebbe piaciuto anche a Candido Cannavò perché mite e cattolico credeva che tutti possono diventare campioni, lo sport come generosità e lealtà, la democrazia come gara. Gli Springbocks partono perdenti e vincono tutte le partite. Nel film non c'è un intreccio, non c'è sesso, non c'è pulp fiction, la trama è la costruzione di queste vittorie, il film stesso è una lunga partita e Mandela è l'allenatore, un pasticciere che mette assieme i sapori e i colori, gli investimenti dell'America e dell'Arabia saudita con le mete e i calci piazzati di François Pienaar, un bellissimo Matt Damon attozzato e angoloso come i campionissimi del rugby, elegante e timido come Jonny Wilkinson. Mandela è un leader che insegna al capitano della squadra a rischiare la propria leadership, a praticare lo sport insegnando la vitae viceversa. Lo sport continua e anticipa la vita, è la vita combattuta con altre armi. E ogni Paese si scopre alla stadio. L' Italia che spara a Rosarno è la stessa che nelle curve insulta Balotelli, l' italiano nero che aspetta il suo Mandela e il suo Eastwood.

di Francesco Merlo; la Repubblica

lunedì 11 gennaio 2010

Mala(ta)italia

Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d' asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d' amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,
"Ha sbagliato!",
Certo che ha sbagliato,
L' Uomo Nero Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l'elemosina di un' attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera (Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta Dei suoi fratelli a un euro all'ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra: "A quel paese!"
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas, né Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi.

di Adriano Sofri; la Repubblica

venerdì 8 gennaio 2010

Bilanci e previsioni

È "crisi" la parola dell'anno 2009. Per il 2010 si prevede "idem".

da Spinoza.it