venerdì 15 gennaio 2010

Tutto torna

Mai in una sala cinematografica avevo visto tutti gli spettatori, ma proprio tutti -215- alzarsi in piedi e applaudire un film in modo così caldo e convinto. È successo ieri a Parigi in un cinema del boulevard Saint Germain alla fine di "Invictus" che racconta e celebra la vittoria del Sudafrica nella coppa del mondo di rugby del 1995. Era l'anno successivo all' elezione di Nelson Mandela alla presidenza della Repubblica. Ed è stato uno spettacolo più emozionante dello spettacolo perché i parigini sono freddi e cortesi e anche al cinema non si fanno troppo incantare dalle ribalte fatate. Invece ieri sera, dopo un' ora e mezza di epica dello sport coniugata con la democrazia e con l' antirazzismo, non sembrava più di essere al cinema ma a teatro o meglio ancora allo stadio Ellis Park di Johannesburg dove appunto i ragazzi verde oro, gli Springbocks, battevano gli avversari, i leggendari All Blacks della Nuova Zelanda, ma soprattutto battevano i pronostici e se stessi, l' apartheid, l'odio razziale, i pregiudizi che sino ad allora, sotto la commedia del tifo civile ed elegante, avevano incarnato e simboleggiato. Il film racconta la geniale intuizione di Mandela: appropriandosi di quei colori e di quel simbolo sportivo che il popolo nero, ferocemente umiliato, voleva comprensibilmente abolire, riuscì a trasformare la squadra nell'officina democratica di un intero Paese, la squadra dei pingui poliziotti bianchi e dei malnutriti ladruncoli neri, del ricco spaventato e del povero rancoroso. Mandela capì che lo sport poteva accendere la passione unitaria, diventare uno strumento formidabile di integrazione, il laboratorio di un' idea di Paese, lo scrigno magico di nuovi valori condivisi, la banca delle risorse del sudafricano del futuro. Il film è uno schiaffo per un italiano che è abituato alle Curve Nord e alle Curve Sud dove l'odio è permesso e tollerato, luoghi a statuto speciale dove si picchia e si lincia, si insulta e ci si divide e senza neppure la lealtà dello scontro, nascosti e protetti dalla folla, che è la dimensione del fuorilegge, l' anomia e l' impunità. Anche in Sudafrica, prima di Mandela, lo stadio era diventato la nicchia del nativismo e del razzismo con i neri che tifavano sempre e comunque contro gli Springbocks, sgolandosi e dimenandosi e sputando sui colori del proprio paese. Mandela rovescia il mito che era stato costruito per opprimere, scova il valore che cova in ogni sport ed espugna la cittadella inespugnabile. Ma c'è di più in quel lungo applauso del pubblico parigino. C'è l'ovazione alla pulizia di un cinema che racconta i sapori forti, la morte crudele e il più violento dei conflitti etnici e razziali, con le allusioni e con gli accenni discreti. Niente brutte parole, niente sangue, niente bestemmie. C'è un Mandela poeta, il magnifico Morgan Freeman, che lascia una prigione dove penetrava una luce divina, e cerca di imporre al proprio disgraziato e bellissimo paese la cultura del pudore. Mandela amplifica sino all' epopea i colori tenui delle buone maniere e la dolcezza delle mezze tinte, è il massimo della gentilezza contro il massimo della ferocia. Il film è prodotto e diretto da Clint Eastwood, che nella vecchiaia è diventato un artista leggero come una piuma, senza più la voglia di ingombrare del "biondo" di Sergio Leone o del Dirty Harry che dice «come on punk, make my day» «fallo brutto schifoso e rendi allegra la mia giornata», un Eastwood che quasi domanda perdono per gli eccessi compiuti nella presunzione degli anni del vigore. Ha fatto dei suoi 79 anni l' età della perfezione artistica, senza sotterfugi, senza furbizie di mestierante. E sui marciapiedi degli Champes Elysees Parigi gli dedica un' affollatissima mostra di fotografie. C'è Clint con la barba e con il sigaro, con la pistola, con il fucile, con la macchina da presa, il titolo è «Cinema in libertà», e c' è anche una foto con De Sica ("Le streghe", 1967). Ma il film è soprattutto un film sullo sport che sarebbe piaciuto a Gianni Brera che lo usava come pretesto per raccontare i popoli e la politica, lo sport che rivelava la fantasia o la forza o la presunzione, insomma il carattere dei paesi. Ma sarebbe piaciuto anche a Candido Cannavò perché mite e cattolico credeva che tutti possono diventare campioni, lo sport come generosità e lealtà, la democrazia come gara. Gli Springbocks partono perdenti e vincono tutte le partite. Nel film non c'è un intreccio, non c'è sesso, non c'è pulp fiction, la trama è la costruzione di queste vittorie, il film stesso è una lunga partita e Mandela è l'allenatore, un pasticciere che mette assieme i sapori e i colori, gli investimenti dell'America e dell'Arabia saudita con le mete e i calci piazzati di François Pienaar, un bellissimo Matt Damon attozzato e angoloso come i campionissimi del rugby, elegante e timido come Jonny Wilkinson. Mandela è un leader che insegna al capitano della squadra a rischiare la propria leadership, a praticare lo sport insegnando la vitae viceversa. Lo sport continua e anticipa la vita, è la vita combattuta con altre armi. E ogni Paese si scopre alla stadio. L' Italia che spara a Rosarno è la stessa che nelle curve insulta Balotelli, l' italiano nero che aspetta il suo Mandela e il suo Eastwood.

di Francesco Merlo; la Repubblica

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