domenica 28 febbraio 2010

L'ambientalista della domenica

La domenica dell’Antismog Padano non darà gran refrigerio al polmone di indigeni e trasferiti, ma essere e dichiararsi contrario è «scuoprirsi con le arme» dalla parte di chi gli è nemico.
Per dirsi d’accordo bisogna nascondersene mentalmente i limiti. Cautele, scappatoie, concessioni, penuria di orario, rifiuti di parteciparvi, sono smog di parole che offuscano l’ipotesi Salute. Un certo effetto certamente lo produrrà, benefico anche per chi dimostra di non meritarlo; ma in special modo costituirà, al di fuori della banalizzazione statistica, una prova squisita dell’essere cittadini di una democrazia moderna, in cui l’Ambiente in pericolo condiziona per tre quarti, oggi, la cittadinità di ciascun essere cosciente di come si vive e si vivrà - fatalmente. Perché il Rimedio non c’è e la volontà di applicare i parziali è profondità di assenza.
La patria ce l’hanno tolta: il suo surrogato è l’Internazionale del pallone. La globalizzazione inghiotte sistemi economici millenari e ha minato, stravolgendolo, il credito bancario; tutti investono da Paese dei Ciechi.
E l’aria dell’uomo respirante ha una nuova versione simbolica nel celebre Incubo di Füssli: un enorme Equino che schiaccia con il suo groppone una figura sdraiata: vedici tangenziali, Via Larga, Sforzesco, Tritone, Argentina, Via Po, Corso Vittorio, Francia, Cinisello Balsamo, Monza, Brescia - a scelta. E qualsiasi marciapiedi o portico urbano, o primo piano di condominii, o giardino dove giocuzzano infanzie pallide insaccate di zuccheri. Il Grande Smog è dovunque ed è inseparabile ormai dall’esistenza umana.
Cittadini, dicevo. La venerabilità di questa parola è finita in qualche splendore di stanza piastrellata dove abbiamo imparato a disimparare che il luogo più comodo della casa aveva nome cesso. Ci potremmo esaltare, cittadinamente, ancora come per un assedio cartaginese o di baliste romane quando lo scopo legittimo, l’ultima frontiera, ha nome Ambiente, e il bisogno sociale immediato e più importante è allontanare un poco il tremendo sedere dell’Incubo di Füssli da polmoni e stomaco di milioni di tassati a vuoto che ignorano l’appello alla ribellione civile che nel crudele incalzante S.O.S. ambientalista risuona?
Può coagulare energie di cittadini l’umile dovere di deporre rifiuti secondo ordini prescritti, di prendere una bici invece della makkina, di non comprarla subito al neomaggiorenne, di non clacsonare demenzialmente nei centri intasati, di rinunciare a camere riscaldate fino al trentesimo grado? O (quale scelta eroica!) rinunciare a tenere aperta ad ogni costo una fabbrica che regala tumori?
C’è da riflettere su questo emergere di un pensiero: la Città, la polis, è disposta (credo oggi ancora) a battersi se c’è un vero Annibale munito di elefanti fenici alle porte, ma inventa scuse per defilarsi se si tratta dei teneri bronchi che ne popolano i passeggini. Così, per lo smog di Buenos Aires, la plaza de Mayo rimane muta.
Da richiamare anche un pensiero del grande Cornelius Castoriadis: «Se i cittadini sono senza bussola lo si deve al logoramento, alla decomposizione, all’usura senza precedenti dei significati sociali immaginari. Nessuno sa più, oggi, che cosa sia essere cittadino; ma nessuno sa più che cosa sia essere un uomo, o una donna; nel dissolversi dei ruoli sessuali, questi sono significati perduti».
Paradossalmente, il problema ambientale investe la totalità uomo. È da branchi accecati ritenerlo marginale e di fatto destinarlo al cesso - privato e globale.
Deplorazione per i Comuni che non hanno voluto allinearsi con i sindaci di Torino e di Milano. Si tratta di sussulti di una vivibilità sociale in pericolo: disertare è brutto. Più che sul risultato pratico del gesto, il tasto da premere è il pur sempre educativo e necessario accrescimento della consapevolezza.

di Guido Ceronetti; LA STAMPA

sabato 27 febbraio 2010

INVICTUS (III)

"Clint ha solo due espressioni: col cappello e senza cappello". Così descriveva il suo cowboy preferito Sergio Leone. Ma ora "l'attore da due espressioni" non sbaglia un film. Ogni sua pellicola è necessaria. Sembra, il suo, un percorso che cerca nelle storie un modo per ordinare il mondo, per chiarirsi le idee.
Un catalogo di vicende che come in "Gran Torino", "Million Dollar Baby" o "Lettere da Iwo Jima" non stanno a raccontare come dovrebbe andare il mondo, ma come lo fanno andare le persone, gli individui, attraverso ogni loro scelta. Che sia giusta, falsa, marcia o vera. E' l'individuo che Eastwood racconta.
Volevo vedere il prima possibile "Invictus". Per me è difficile andare al cinema. Quasi impossibile. Ma "Warner Bros" mi concede una sala a prima mattina. Tutte sedie vuote. Chiedono alla scorta di consegnare i telefonini perché temono possano riprendere e piratare il film. "Invictus" parte e in più di due ore ritrovi esattamente l'Eastwood che ti aspettavi. Questa volta ancora più smaliziato. Non ha paura di commuovere e di usare l'arte della retorica.
Racconta di Nelson Mandela e di una squadra di rugby. E' il 1995 e Mandela, appena eletto presidente del Sudafrica, ha come prima necessità quella di evitare rivolte, scontri, vendette. E' un impresa quasi impossibile. La maggioranza nera ha subìto troppo e per troppo tempo il potere indiscriminato degli Afrikaaner, dei bianchi. Tutti si aspettano vendette. I bianchi tremano e si preparano al colpo di stato e alla resistenza. I neri si armano per vendicare morti e prigionia. Il capolavoro politico del detenuto 46664 - questo il codice di matricola nei trent'anni di prigionia di Mandela - fu quello di "sorprendere". Sorprende il mondo come lui stesso dice: "Sorprenderli con la generosità. Comprensione. Io so cosa i bianchi ci hanno tolto ma questo è il momento di costruire una nazione".
Morgan Freeman è Mandela e ne ha studiato ogni movenza lenta e ieratica, ma anche i sorrisi e i modi di salutare. Non ne è un'imitazione né una riproduzione. E' esattamente un'interpretazione. Fa vivere sullo schermo il leader che sogna un Sudafrica nero diverso dal Sudafrica dei bianchi. Il rugby nel paese dell'apartheid è odiato dai neri che giocano a pallone. Dicono nei sobborghi di Johannesburg: "Il calcio è uno sport da signorine giocato da duri, il rugby è uno sport da duri giocato da signorine".
Ma Mandela, che non è mai stato particolarmente appassionato di rugby, capisce che lo sport dei bianchi deve piacere ai neri. I mondiali di rugby potranno essere la prova politica più delicata da superare. Mandela parte da questa idea, insieme mediatica e popolare, per unire un Sudafrica spaccato, sull'orlo di una guerra civile. Il rugby parlerà più d'ogni altro linguaggio o parola al suo popolo. Se non riesci con i discorsi politici a unirlo allora lo unirai facendo tifare per la stessa squadra. I sudafricani neri quando in campo c'era la squadra verde-oro degli Afrikaner tifavano Inghilterra, o Australia o persino Francia insomma qualsiasi squadra che potesse battere i bianchi sudafricani.
Mandela sa che le antilopi, ovvero gli "Springboks", la nazionale di rugby, sentono di non rappresentare più il loro paese bianco. Il suo compito sarà di farli sentire rappresentanti di un nuovo paese, responsabili di un nuovo possibile corso politico. Mandela parte dalla sua scorta. Affianca agli uomini provenienti dalle file dell'Anc, bianchi delle squadre speciali. La scorta sudafricana non vuole condividere la squadra con gli afrikaaner che solo un anno prima li avrebbero arrestati. Ma Mandela è categorico. "La nazione arcobaleno nasce da qui. Intorno a me voglio le due anime del Sudafrica".
E poi incontra il capitano François Pienaar, interpretato da Matt Damon - bravissimo nel riuscire a raccontare anche solo col viso l'incontro di un bianco terrorizzato dai neri con il primo presidente nero del Sudafrica. Damon è un giocatore di grande talento ma ormai colpito da una sorta di depressione sociale, come i suoi compagni. Perdono partite su partite, sentono che la loro nazione bianca è finita. Ma è qui che interviene Mandela. "Abbiamo bisogno di ispirazione".
Nasce tra il capitano e il presidente del Sudafrica un rapporto diretto. Mandela gli chiede di far vincere i mondiali di rugby al Sudafrica. Impresa che tutti gli esperti dichiarano impossibile. Ma c'è da costruire una nazione. Mandela segue direttamente i loro allenamenti. Porta la squadra che ha un solo rugbista nero nei ghetti di Soweto nelle baraccopoli dove nessun bianco era mai stato. Li insegnano il rugby, lo sport bianco per eccellenza, ai ragazzini neri. E poi visitano la prigione dove è stato rinchiuso Mandela. I giocatori vengono allenati nell'anima. E nel film è chiaro che la disciplina che stanno vivendo i rugbisti non è nient'altro che il percorso che un'intera nazione sta facendo per capirsi e ritrovarsi.
Il finale te lo aspetti, ma non vedi l'ora che accada. Ed anzi hai paura che qualcosa possa andare storto, che la palla ovale possa far perdere il grande sogno della nuova nazione: il mondiale alla squadra del Sudafrica. La vittoria finale contro i rugbisti maori della Nuova Zelanda non è una vittoria sportiva ma uno dei risultati politici internazionali più importanti del novecento. Un popolo che si unisce in una squadra.
Esco dalla sala contento che il vecchio Clint non sbagli un colpo come speravo. Il Sudafrica oggi è quanto di più lontano esista dal paradiso arcobaleno in cui molti avevano sognato ma questo non toglie nulla alla lezione eastwoodiana di come la politica sappia essere cosa diversissima di quella che abbiamo tutti giorni sotto gli occhi. Di come possa essere, in tutti i sensi, il sogno di un uomo e di un popolo ancora desideroso di conquistare diritti e felicità.
Che Nelson Mandela ha descritto con queste parole del poeta Henley:
"Sotto i colpi d'ascia della sorte, il mio capo sanguina, ma non si china.... Non importa quanto sia stretta la porta... quanto piena di castighi la vita/ Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima".

di Roberto Saviano; la Repubblica

venerdì 26 febbraio 2010

Lutto

"È morto il cavalier Lavazza. I funerali si terranno in forma ristretta."

da Spinoza.it

giovedì 25 febbraio 2010

Economia

di Massimo Bucchi; la Repubblica

MEA sententia

In fondo, hanno ragione e Gramellini e Merlo.
Il punto di vista del primo è idilliaco, mentre quello del secondo è cinico.
Dopo aver fatto tali distinzioni, però, devo dire che la visione di Merlo è troppo radicale, e che se leggessimo ogni aspetto del Mondo in questa maniera, troverei  davvero arduo tirare avanti.
E' vero che gli interessi economici ci dominano, anzi regnano su di noi, ma non si può fornire questa lettura a qualsiasi cosa, perché sognare e illudersi (non sempre) è bello, e, lo ammetto, può fare comodo.
E non c'è nulla di male, anche se bisogna tenere sempre gli occhi aperti.

PAR condicio

Eccone una epifania qui di seguito.

Il business del pentimento

Tiger Woods e la Toyota non lo sanno, ma sono di "razza" italiana, applicano una tecnica che noi da secoli pratichiamo religiosamente: l' atto di contrizione che trasforma la punizione in premiazione. Dunque Tiger ha chiesto perdono come Gianni Morandi: «Ritornerò in ginocchio da te». E la Toyota, non potendo fare harakiri come i giapponesi, siè pentita come la Parmalat, ha chiesto scusa come i furbetti der quartierino. Nessuno meglio di noi italiani sa che il pentimento è un affare, è l' assoluzione dell' impunito che può dunque ripartire con la coscienza alleggerita verso lo stesso peccato. Così il pentimento della Toyota - otto milioni di auto ritirate - diventa un nuovo brand del suo famoso capitalismo "a qualità totale". Quei freni che non frenavano, quell' acceleratore che si incantava, erano come le notti bollenti di Tiger, come i suo figli illegittimi. Le scuse pubbliche, spalmate su tutti i giornali americani dalla Toyota e pacchianamente recitate in tv da Tiger, stanno trasformando quei peccati, industriali e sessuali, in nuovi capitali. Il pentimento è danaro fresco. E infatti adesso c' è la redenzione a garanzia della perfezione della Toyota: nessuno si pentirà di un' auto che gli ha venduto un pentito. E Tiger ha persino abbracciato in tv la mamma, che è l' origine di tutte le cose, è il ritorno all' innocenza della mammella, è garanzia e purificazione sacramentale. La mammaè l' accountability di Tiger, direbbero alla Toyota. Baciare la mamma significa baciare tutto il mondo e infatti, come ci ha raccontato Angelo Aquaro da New York, il perdono è subito piaciuto agli sponsor. C' è insomma una Wall Street del pentimento dove la tv riproduce la vecchia Sacra Penitenzieria Apostolica, il Tribunale della Curia Romana deputato a decidere sulle questioni di coscienza,a stabilire cioè la qualità del peccato e quindi il grado di legittimità del pentimento. Quando dunque Tiger tornerà a giocare, la Nike, la Gillette e la Gatorade incasseranno il plusvalore del pentimento, proprio come accade nella parabola del figliol prodigo: «extra ecclesiam nulla salus», fuori dalla Nike non c' è salvezza. Un Tiger pentito vale molto di più di un Tiger probo. Ed è solo al redento che la Chiesa sacrifica il vitello grasso, mai al devoto. E' vero che la fenomenologia del pentimento è uguale dappertutto, ma le litanie di Tiger in tv sono state recitate "all' americana". L' artificio e la messa in scena sono troppo caricaturali per noi che siamo abituati ai trucchi di Vespa, ai pareri del cardinale di turno e di don Mazzi, ai contriti faccia a faccia da Fazio... Gli occhi bassi, il viso segnato dal malessere dall' angoscia e dall' insonnia, le pene della terapia (o dell' astinenza?) sessuale, la rabbia contro i giornali, le dichiarazioni d' amore alla moglie, l' abito dimesso: è certamente ricca la tecnica di Tiger, ma nessuno al mondo può competere con Maria De Filippi. Rispetto alla sapienza italiana, Tiger si è pentito in maniera eccessiva, troppo spettacolare, scopertamente finta. La sua ostensione in tv è stata tanto ridicola quanto furba. In materia di pentimento insomma non c' è gara con l' Italia che ha avuto, citiamo a caso, fra Cristoforo, Galileo, l' ex mazziniano Crispi che chiese scusa alla monarchia, gli ex fascisti traghettati al comunismo, gli ex brigatisti conferenzieri che raccontano il proprio ravvedimento nei libri, nei film, nelle università. E ancora gli assassini che si dichiarano ex e, per non farsi pesare i cadaveri sulla coscienza, spiegano agli altri che non bisogna ammazzare. Come diceva il grande Calderon de la Barca la vita che non ti piace «es sueño», è sogno. Pensate a Morgan a "Porta a Porta", a Marrazzo in convento, a Buscetta e a Brusca, a tutta la canzone italiana che è una raffica di perdoni chiesti e concessi, di amori traditi: «Perdono perdono.../ io soffro più ancora di te», «Se stasera sono qui è perché so perdonare», «Oggi 29 settembre...». E pensate ad Alessandro Manzoni che ha fatto del pentimento uno dei suoi espedienti narrativi elevandolo a carattere italiano. Noi italiani sappiamo che pentimento e peccato sono il dritto e il rovescio e che ci si pente per prepararsi a peccare di nuovo e meglio. Di Tiger, se qualcosa ci piace, è la sua fragilità di uomo e non le sue smanie di redento che sono, come abbiamo visto, affari. Chi si pente riceve un credito, accende un mutuo. E infatti già salgono le azioni della Toyota e Tiger, con il bonifico-redenzione, sta per tornare, ancora più ricco, alla sue notti e ai suoi fantasmi perché peccati e pentimento "simul stant", sono solidali come due siamesi, sono la luce e l' ombra di un finto bamboccione che solo riconquistando la fiducia della mamma può tradirla di nuovo.

di Francesco Merlo; la Repubblica

domenica 21 febbraio 2010

Mr. Tigre Boschi

«Sono profondamente dispiaciuto per avervi deluso. La fama e la ricchezza mi hanno fatto credere di essere esente dalle regole che tutti rispettano. Ma sono stato uno stupido, non si gioca con i valori. Ora spetta solo a me cercare di ricominciare». Osservata dall’Italia, la penitenza in mondovisione del golfista fedifrago Tiger Woods (Tigre Boschi) appartiene ad altre galassie. Da noi si dice: fra moglie e marito non mettere il dito. Quelli invece ci mettono le telecamere della diretta. Impensabile che Marrazzo o Delbono, per citare gli ultimi uomini pubblici coinvolti in vicende di sesso, si prestino a simili riti di purificazione.

Nei Paesi protestanti come gli USA il reprobo non si limita a pentirsi. Prende l’impegno solenne di diventare un’altra persona. Il prezzo da pagare per il perdono non è tanto l’umiliazione pubblica, ma l’impossibilità di una recidiva. Il giorno che Woods venisse di nuovo pescato dietro qualche gonnella, per gli americani (e per gli sponsor che lo hanno reso ricco) sarà un uomo finito. Nell’Italia cattolica, invece, non esiste il concetto di «unica chance». Qui si pecca e si viene perdonati di continuo per reati veri, altro che un tradimento coniugale. E l’obiettivo del pentimento è farla franca per poterla rifare ancora. Anche se si è ricchi e famosi. Anzi, soprattutto. Provo a immaginarmi un noto leader che si scusa in tv con la moglie e giura ai fan che non la tradirà mai più. Sicuro che prima della fine gli scapperebbe una barzelletta sulle albanesi e dovrebbe ricominciare il suo discorso daccapo. All’infinito.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

60° Festival della Canzone Italiana di Sanremo


Fa...

venerdì 12 febbraio 2010

Te ne andRAI?

Caro Minzolini, grandissimo stronzo, vergognati per quello che (non) fai.
E dovrebbero ribellarsi (o altrimenti vergognarsi) gli stessi giornalisti (?) del tuo telegiornale di regime.
Ancor di più  (se è possibile) mi fanno ribrezzo i vertici della RAI che gli hanno dato la sua bella poltrona, e anche chi ha dato il paese in mano a queste emerite TESTE DI CAZZO.
In sintesi: andiamo TUTTI quanti a cagare (o a puttane)!!!

Scusatemi, ma quando ci vuole ci vuole.

giovedì 4 febbraio 2010

IL paraculo

Ma come farà a essere israeliano con gli israeliani e palestinese coi palestinesi? Ad affermare, davanti a Netanyahu, che bombardare Gaza fu «una reazione giusta» e due ore dopo, davanti ad Abu Mazen, che le vittime di Gaza sono paragonabili a quelle della Shoah? Zelig si limitava a cambiare faccia, a seconda dell’interlocutore da compiacere. Ma questo è un uomo in grado di cancellare il tempo e lo spazio. Riesce a stare con il pilota dell’aereo che sgancia le bombe e nel rifugio sotterraneo con i bombardati. In contemporanea, e dispensando a entrambi parole di comprensione. Nella sua vita precedente insegnava ai venditori di pubblicità a essere concavi coi convessi e convessi coi concavi. Una volta li sfidò a salutare cinquanta clienti, trovando un complimento per tutti. Solo stringendo la mano al cinquantesimo, un uomo brutto e sgradevole, rimase perplesso. Poi gli disse: «Ma che bella stretta di mano ha lei!».

Molti hanno letto quei manuali americani che insegnano a infinocchiare il prossimo in 47 lezioni. Ma solo lui ha il fegato di applicarne il precetto fondamentale: credere sempre a quel che dici, anche quando è il contrario di quel che hai appena detto. Una tecnica che evidentemente funziona persino con le vecchie volpi mediorientali. Come farà? Vorrei tanto chiederglielo, se non fosse che lui nel frattempo si è già spostato nella basilica della Natività, a Betlemme, dove sta raccontando ai frati una barzelletta sulla Madonna che avrebbe preferito una femminuccia. A quel punto mi arrendo.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 3 febbraio 2010

La diatriba

Morgan fa uso di crack, ormai lo sappiamo. Morgan sembra pubblicizzarlo.
Morgan fa uso di crack. Sono affari suoi, è vero. Ma  ha esagerato.
La RAI lo esclude dal Festival di Sanremo. Sbaglia.
Anche più di Morgan.