Come spunta fuori il sole, a Bologna spuntano fuori le macchine fotografiche. È come se ogni studente fuorisede, o uno su cinque toh, avesse sulla scrivania la sua brava reflex digitale e non aspettasse altro che tirarla fuori in una giornata di sole. Il che se ci pensa è pure normale, con quello che costa una reflex. E così, quindi, tu esci in una giornata di sole e c’è questo piccolo esercito di ragazzi e ragazze con al collo la loro macchina fotografica. Molti vanno al mercato. Il Mercato delle Erbe sta al centro della città, in via Ugo Bassi, un tiro di schioppo da piazza Maggiore. I banchi di frutta e verdura sono un soggetto che deve fornire un bel po’ di possibilità: sfilate quasi infinite di peperoni rossi gialli verdi, pomodori tondeggianti, le geometrie frattali e psichedeliche dei cavoli sputnik (o romani o come si dice), la frutta. E poi, volendo, il riassunto dei popoli della terra che gestiscono i vari banchetti.
Gli italiani sono in diminuzione. Spesso sono quelli con i banchi più curati, la frutta più luccicante ed esposta meglio, ma anche quelli più cari. Ci sono un sacco di indiani. Io dico indiani perché non so mai se siano indiani, pachistani o del Bangladesh. E sbaglio, certo. Però lo dico facendo una piccola pausa prima, come a metterci le virgolette. Degli indiani mi fanno impazzire le etichette dei prezzi. Le avete mai viste? Scrivono le cifre arabe (che poi sono indiane) e le lettere latine con degli svolazzi che si portano dietro dalla loro scrittura. È come se avessero l’accento incorporato anche quando scrivono. Conrad, si dice, parlava un inglese grammaticalmente perfetto, ma con un forte accento polacco. Per loro è lo stesso, ma con la scrittura. Potranno imparare alla perfezione l’ortografia, ma quelle lettere ibride se le porteranno dietro per sempre. Spesso gli indiani hanno delle verdure strani, certi strani cetrioli tutti bitorzoluti, altri con creste da dinosauro. Immagino che ai ragazzi con la macchina fotografica piaceranno un sacco. Altrimenti ci sono gli slavi. Anche qui, usiamo un termine cappello, perché non è che puoi metterti a chiedere di dove è uno. C’è chi lo fa, per carità. Io non sono quel genere di persona. Io ti do i soldi, tu mi dai i miei peperoni, le mie zucchine, i miei pomodori, la mia frutta, e finisce lì. Comunque. Gli slavi in realtà sono più spesso donne, con quella parlata liquida e un po’ scivolosa, i lineamenti marcati e gli occhi chiari. Raramente hanno cose strane come gli indiani, in questo sono integrati alla grande. Ma il mercato è anche formaggi, carne, salumi. Ci sono due formaggiai, di una certa età, che hanno un negozio vicino all’entrata, stipato all’inverosimile di formaggi e odoroso dell’odore contemporaneo di tutta quella varietà di sale, latte e caglio. A pensarci è incredibile come partendo da tre ingredienti si possa, con il variare delle tecniche di stagionatura e di lavorazione, dare vita a così tanti formaggi diversi. Loro due sono strani. A volte mi ricordano Fruttero e Lucentini. Non chiedete perché. È così e basta. Per formaggi e salumi però il mio preferito è un tizio sulla sessantina, che espone fiero alle sue spalle una foto di Johnny Cash che fa il dito medio. È messa in alto e non si vede subito. Ma se sai che c’è non puoi non guardarla. Di fianco c’è un autografo di Meryl Streep, che una volta è andata a comprare il parmigiano da lui. Comprare da lui è una cosa lunga, perché è uno dei banchi più convenienti e con le cose migliori, quindi c’è sempre una coda da almeno dieci minuti. Ma ne vale la pena, non fosse altro per farsi una cultura su prosciutti, formaggini e tutto il resto, visto che è sempre in vena di raccontare ai clienti da dove viene quello che sta vendendo. E poi ascolta Johnny Cash. Dai.
Il macellaio, Pietro, sembra Ocatarinabelasciscix (l’ho scritto senza cercare su Google), il corso di Asterix in Corsica. Sei anni che vado a comprare da lui e ogni volta mi deve dire “ah, con questo ci mangia proprio bene”, qualsiasi cosa compri, come se fosse la prima volta e mi dovesse convincere. Non avessi capito che ha roba buona non ci andrei. Dal macellaio c’è sempre almeno uno o una straniera che compra due chili di ali di pollo. Sempre. Costano poco, c’è un po’ di carne. Di che cosa parliamo quando parliamo di crisi.
E poi c’è la pescheria. Nella pescheria ci sono i pesci che muoiono. Grosse carpe che tirano gli ultimi in due dita d’acqua, riverse su un fianco, l’occhio che guarda fuori verso un mondo alieno. Mi fa sempre un po’ impressione, vedere i pesci che muoiono pian pianino. Deve essere per questo che vado sempre tardi al mercato, per arrivare quando sono già morti. Chissà se i ragazzi con la macchina fotografica fotografano i pesci che muoiono.
da buonipresagi.wordpress.com
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