lunedì 31 maggio 2010

Clint

Niente è più lontano da Clint Eastwood delle celebrazioni magniloquenti e delle lodi barocche dei cinefili che da sempre lo idolatrano. Per questo è facile immaginare che oggi, nel giorno dell’ottantesimo compleanno, davanti agli auguri di parenti, amici, fan, l’ottimo attore divenuto grande regista reagirà sfoderando uno dei suoi celebri, brevi sorrisi. Poche parole, economia di gesti e una straordinaria mimica facciale capace di comunicare al pubblico che il peggio sta per arrivare solo accentuando il solco di una ruga oppure raffreddando la luce degli occhi. Anche adesso, anche quando preferisce restare dietro la macchina da presa come nell’ultimo Invictus, Clint Eastwood è rimasto uomo di idee limpide e pensieri veloci. Lo sguardo sul mondo, che ai tempi degli spaghetti western e dell’ispettore Callaghan oscillava tra disgusto e commiserazione, è rimasto intransigente, ma ha acquistato il dono della pietà: «Di questi tempi essere ottimisti è dura, il mondo in cui viviamo è alla deriva. Per restare ottimista devi pensare che questo stato di cose finirà, nonostante tutto ti suggerisca il contrario».

Figlio della Grande Depressione, cresciuto senza fissa dimora perché la ricerca di lavoro spingeva il padre a cambiare continuamente città, Eastwood non ha mai avuto il fuoco sacro e, prima di scoprire il palcoscenico grazie a una professoressa dell’High School che lo fece esordire in una recita scolastica, aveva usato la corporatura imponente per primeggiare sui campi di basket: «Volevo diventare atleta, recitare non m’interessava affatto, nella commedia che mettemmo su per la scuola sbagliammo molte battute. Giurai che era la fine della mia carriera d’attore». Dopo la scuola venne il tempo dei mille mestieri, taglialegna, guardia forestale, operaio in un’acciaieria. Poi il fronte, durante la guerra in Corea, evitato grazie all’abilità di nuotatore. Invece di andare a sparare, il soldato Clint fu impegnato nella gestione di una piscina dell’esercito. La vera vita, quella che continua ancora adesso, inizia nel 1959, con Rawhide, western a episodi, in onda sulla Cbs, sulle avventure di un gruppo di cow-boys. Nel ‘64, durante una pausa della serie, arriva dall’Italia la sceneggiatura di Per un pugno di dollari: «Sergio Leone - sintetizzava Clint - mi ha messo un sigaro in bocca».

Il primo a stupirsi di quel grande successo europeo è lui stesso, e, quattro anni dopo, ormai lanciatissimo nelle parti di duro con l’anima, Eastwood capisce l’importanza dell’autonomia e crea la «Malpaso production», base per il futuro lavoro di regista e di produttore. Soprattutto modo per rimanere libero, facendo crescere, di pari passo con la carriera artistica, la coscienza politica di un conservatore con idee democratiche, di un ex-sostenitore di Richard Nixon e Arnold Schwarzenegger che s’interroga su temi come l’eutanasia e l’integrazione razziale, di un uomo che, a 80 anni, non ha mai perso la voglia di riflettere e stupirsi: «Tutti con l’età miglioriamo perché abbiamo raccolto un gran numero di esperienze professionali e di vita. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, e, finché mi capiterà tra le mani materiale interessante, andrò avanti». È accaduto con Gran Torino dove Clint, agli occhi dei fan che lo pedinano dagli esordi, è apparso come una specie di Dirty Harry in pensione. Laconico, irascibile, introverso, eppure pronto al massimo sacrificio: «Bisogna riconoscere che siamo un Paese di immigrati e che dobbiamo trovare una soluzione logica e sensibile ai problemi posti da questa realtà. Non si può fare finta di niente».

Con Invictus il miracolo si è ripetuto, anche se non c’è stata la pioggia di Oscar che aveva bagnato Million dollar baby e prima ancora, nel 1992, l’anti-western Gli spietati: «C’è una frase di Nelson Mandela in cui mi riconosco fortemente. Il passato è passato. Dobbiamo sempre guardare al futuro, a quelli che ci stanno intorno, al nostro Paese». Nei suoi progetti ora c’è il thriller sovrannaturale Hereafter e Hoover, biopic sul capo dell’Fbi. Continuare, sullo schermo e fuori, è l’augurio migliore per un uomo che sa bene quant’è bello fare quello che piace: «Oggi accetto più sfide che in passato, soprattutto mi considero fortunato, mi occuperò ancora di ciò che amo, finché non arriverà qualcuno che mi dirà di farmi da parte».

di Fulvia Caprara; LA STAMPA

domenica 30 maggio 2010

Ipocrisia

A tutti gli italiani chiamati a stringere la cinghia, Pier Carmelo Russo fa "ciao ciao": come dimostra il sito livesicilia.it, è andato in pensione da dirigente della Regione Sicilia con 6.462 euro netti al mese. A 47 anni. Grazie a una leggina isolana: doveva badare al papà infermo. Cosa che non gli ha impedito giorni dopo d’assumere il gravoso incarico di assessore all’Energia.

Mille chilometri più a Nord, i sindaci trentini, fallito il tentativo di avere la pensione, si apprestano ad avere un aumento in busta paga del 7% e i loro colleghi altoatesini non hanno alle viste alcun taglio: quello di Appiano prende 9.400 euro, cioè più di Letizia Moratti a Milano, quello di Lana 7.000, più di Rosa Russo Iervolino a Napoli. Quanto alla giunta comunale di Gorizia, ha appena tentato di autoridursi le indennità ed è stata bloccata dalla Regione: non potete farlo. Cosa c’entra con la manovra da 24 miliardi? C’entra. Come ha spiegato lo stesso Giulio Tremonti raccontando della necessità di non dare denaro, di questi tempi, a enti come il Comitato per il centenario del fumetto italiano e ad altri 231 dai profili talora improbabili, «i grandi numeri si fanno anche con i piccoli numeri». E non c’è dubbio che parallelamente ai tagli dolorosi presentati ieri, tagli che hanno guadagnato l’apprezzamento al governo delle autorità europee ma anche l’immediata rivolta delle sinistre, di una parte del sindacato, dei magistrati e altri ancora, ci son pezzi di questo Paese riottosi all’ipotesi di condividere i sacrifici.

A partire dal mondo della politica e da quello che ruota intorno. Prova ne sia che la svolta più radicale, il dimezzamento dei rimborsi da un euro a 50 centesimi per ogni elettore, pare essere stato ridimensionato: forse si sforbicerà il 20%, forse il 10. Così come pare essere stato accantonato un altro segnale importante, e cioè il ripristino dei controlli della ragioneria dello Stato sui conti di Palazzo Chigi e della Protezione civile. E le misure sulle stock-options dei banchieri. Il punto è che provvedimenti coraggiosi, ustionanti e in buona parte condivisibili (vedi la lotta dichiarata all’evasione) come quelli varati, che chiedono agli italiani, dopo anni di rassicurazioni ottimistiche, di farsi carico d’una situazione pesante, richiedono la massima trasparenza. La storia ci dice che il nostro è un Paese che nei momenti più difficili sa dare il meglio. Ma deve crederci. E per crederci ha bisogno di essere rassicurato su un punto: che pagheranno davvero tutti. Nel modo più giusto.

E questa limpidezza non deve essere neppure sfiorata dal sospetto che, dietro le migliori intenzioni, si nascondano tentazioni inconfessate. E che tutta la parte «etica», inserita per dimostrare ai cittadini più colpiti che questa volta non ci sono figli e figliastri, venga goccia a goccia svuotata. Perché forse esagera il Consiglio nazionale degli architetti nel diffidare delle smentite sulla sanatoria fino a denunciare «sconcerto per il nuovo condono che incentiva l’abusivismo edilizio». Ma sarebbe insopportabile se all’ultimo secondo, in piena estate, un attimo prima di un voto di fiducia finale in Parlamento, per iniziativa di qualche misteriosa «manina», spuntasse fuori di nuovo il solito condono.

di Gian Antonio Stella; CORRIERE DELLA SERA

venerdì 28 maggio 2010

Anti-Robin Hood

Dux (II)

Berlusconi che prende le distanze dalla manovra del suo governo può sembrare un paradosso. Eppure è quel che il premier sta facendo da due giorni pubblicamente, in conferenza stampa o sotto gli occhi di platee qualificate che s’interrogano sulle sue, a volte inspiegabili, dichiarazioni. Immaginarsi il disorientamento di ieri sera, quando all’arrivo a Parigi per il vertice Ocse, il premier, per spiegare la sua impotenza di fronte alla svolta eccessivamente rigorista per i suoi gusti, ha citato addirittura i diari di Mussolini, quando diceva di non sapere cosa fosse il potere.

In realtà la strategia comunicativa di Berlusconi è chiarissima, e costruita sulle prime reazioni dell’opinione pubblica alla manovra misurate dai sondaggi. Il Cavaliere dai primi dati che gli sono stati sottoposti ha capito che la gente, la sua gente, avrebbe voluto da lui anche stavolta un colpo a sorpresa, che il vincolo europeo usato per giustificare una crisi che fino a due settimane prima era stata ridimensionata, quando non negata, non è bastato a giustificare l’improvviso cambio di rotta del governo.

Il primo messaggio in risposta a questi dubbi è venuto dalla conferenza stampa di mercoledì, quando Berlusconi non ha negato le divergenze con Tremonti. Era la classica scena del poliziotto buono e poliziotto cattivo, un classico di certi film, con il Cavaliere naturalmente nella parte del buono e il ministro dell’Economia che si sforzava di nascondere il suo imbarazzo. Ai telespettatori che da giorni aspettavano di sentirlo parlare, e che erano rimasti all’annuncio di Gianni Letta dei sacrifici necessari per evitare il rischio Grecia, Berlusconi è come se avesse risposto: se non ci fossi stato io a tener duro, sarebbe finita anche peggio.

Ma non rischia, così facendo, il presidente del consiglio di delegittimare la manovra agli occhi dell’Europa? E’ possibile, anche se per gli osservatori contano i fatti e le cifre, e la frontiera dell’Unione è presidiata da Tremonti. Berlusconi inoltre, nel medio termine, intende ridisegnare agli occhi dei suoi elettori la sua immagine di padrone assoluto del governo, che può permettersi sempre di cercare di accontentare tutti, anche quando sembra impossibile. Poiché l’emergenza, al momento, è solo tamponata, e nessuno può dire veramente a cosa andranno incontro l’Italia, l’euro e l’Europa nei prossimi mesi, il Cavaliere con qualche espediente (e anche con qualche inevitabile sproposito come quello su Mussolini) vuol far capire che lui continua a mettercela tutta, ma se il vento continua a soffiare contro, occorrerà prepararsi anche a tempi più duri.

di Marcello Sorgi; LA STAMPA

Pro e contro

La barzelletta va avanti

Se ho capito bene, il governo ha deciso di sopprimere le province con meno di 220 mila abitanti, escluse quelle che confinano con Stati esteri o che, nello sfortunato caso in cui non confinino, si trovano in una regione a Statuto Speciale (come la sarda e tentacolare Ogliastra, 58.389 abitanti), oppure hanno un ministro amico del presidente della provincia, oppure si estendono per un numero di chilometri inferiore alla metà della circonferenza della pancia del segretario provinciale moltiplicato pi greco. Se ho capito bene, la provincia di Rieti si è già cautelata, chiedendo a quella di Roma di cederle una parte della Sabina (acquisita ai tempi del famoso ratto) così da rientrare nei requisiti di sopravvivenza. Se ho capito bene, con la soppressione della provincia di Isernia, la provincia di Campobasso coinciderà con l’intero Molise, che potrebbe quindi essere soppresso in una reazione a catena che costringerà il molisano Di Pietro a chiedere asilo politico al parco dell’Abruzzo. Se ho capito bene, la provincia di Massa Carrara, abolita nonostante l’opposizione dell’unica opposizione rimasta in Italia, il portiere carrarese Buffon, si gemellerà con quella di Lucca, ripristinando i confini sanciti da Napoleone. Se ho capito bene, la norma sulla soppressione delle province è stata annunciata e poi smentita e poi infarcita di deroghe e infine rimandata a un decreto attuativo che le salverà tutte.

Ma forse non ho capito bene. Perdonatemi, sono un provinciale.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Chiapas

Per qualcuno sarà la conferma di una sua ben nota attenzione ai temi sociali. Per altri, motivo per fare battute e dietrologie. Massimo Moratti, che quattro giorni fa era a Madrid con la Coppa dei Campioni tra le mani, questo pomeriggio era a Roma, alla presentazione del libro "I Mondiali della Vergogna" (edito da Edizioni Alegre, una casa editrice vicina a Sinistra Critica). Al tavolo dei relatori un altro ospite di eccezione, in quanto autore della prefazione del libro: il pm di Calciopoli Giuseppe Narducci.
Il libro, scritto dal giornalista argentino Pablo Llonto, parla della dittatura dei generali in Argentina e del mondiale vinto in casa nel '78 dalla Selección, in quella che fu una autentica prova di forza e di legittimazione per il regime.

Ma l'arrivo del presidente dell'Inter ha colto tutti di sorpresa, compreso l'ex deputato di Rifondazione Salvatore Cannavò, direttore editoriale di Alegre: "Non ci aspettavamo di vederlo, non conoscendolo personalmente non l'ho certo invitato. Anche se conosco la sua simpatia per movimenti come l'Ezln del subcomandante Marcos...". A fine presentazione saluti calorosi tra Moratti e Narducci, poi via insieme in ascensore e nulla di più. Ai giornalisti increduli di vederlo lì ha solo detto: "Oggi sono in ferie, per favore lasciatemi in pace".

Moratti non è stato il solo interista a interessarsi di Argentina e dittatura militare: il capitano Javier Zanetti ne aveva discusso intervistato proprio dal pm napoletano. Zanetti aveva cinque anni, quando l'Argentina dei generali vinse: "Non è facile dimenticare quello che è successo. Crescendo i miei genitori mi hanno raccontato di quello che stava succedendo allora, io ricordavo solo i festeggiamenti. Quel mondiale riuscì a nascondere quello che stava accadendo davvero nel paese". Per concludere: "La vicenda dei desaparecidos pesa ancora sulla nostra società, se c'è qualcuno che non conosce la verità su quanto è successo adesso ha gli strumenti per capire".

"I Mondiali della Vergogna" è un libro a metà tra sport e politica, che racconta la contraddizione di un paese tra i festeggiamenti per le vittorie e il dramma della repressione e delle migliaia di desaparecidos. Ma il calcio era anche consenso, il binomio tra vittoria e propaganda era occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare, con tutti i sospetti che sin ancora non sono stati fugati: dalla vittoria sospetta per 6 a 0 sul Perù, giusto lo scarto che serviva per la qualificazione alle voci sul doping dei padroni di casa. Fino all'incredibile omaggio al regime del presidente Fifa Joao Havelange che invece di consegnare la Coppa del Mondo ai vincitori lascia la vetrina ai tre generali Videla, Massera ed Agosti.

Infine, una curiosità. Zanetti ha confermato la sua simpatia, e quella del presidente interista Massimo Moratti, per il subcomandante Marcos e l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), i guerriglieri del Chiapas. "Ne abbiamo parlato, su come possiamo aiutare gli zapatisti e quella zona del Messico. Abbiamo capito che bisogna aiutarli, e lo faremo, magari anche attraverso una partita che sia una festa: l'Inter contro gli esclusi del mondo".

di Matteo Pucciarelli; la Repubblica

Dux

La dico? Massì, la dico. Anche se è di una scorrettezza politica assoluta? E chi se ne importa... Ragionamenti frullati nella mente di Berlusconi in un picosecondo. Quella pausa quasi impercettibile che sempre precede certe sue esternazioni, le più spericolate. Questa riguarda Mussolini, citato in un consesso internazionale (la riunione ministeriale Ocse) che il nostro premier è venuto a presiedere nella capitale francese, portandosi dietro il cuoco Michele per preparare la cena con «pennette tricolori» offerta agli altri capi di Stato e di governo. Il Cavalier Silvio sul Cavalier Benito, dunque: tutti e due sopravvalutati dalla gente, entrambi reputati onnipotenti, come se in tasca avessero la bacchetta magica. Invece non è così, protesta amaro Berlusconi. Magari fosse.

Gli domanda un giornalista dell’Estonia se questa crisi finanziaria non rischia di intaccare il potere dei governanti. E lui si dichiara anzitutto «fortunato» poiché, spiega, nonostante la manovra dei sacrifici «il mio consenso resta superiore al 60 per cento». Ciò premesso, ecco la confidenza: «Non ho mai avuto la sensazione di trovarmi al potere. Anzi, per l’esattezza, quando facevo l’imprenditore talvolta l’ho provata». Emozione antica, sospira Berlusconi, poiché adesso «sono al servizio di tutti, chiunque mi può criticare e insultare». Per esempio, giusto ieri non l’ha fatto impazzire la relazione della Marcegaglia in Confindustria, così avara di riconoscimenti. Altri attribuiscono questo senso di frustrazione berlusconiano al carattere ineluttabile della manovra, «per esempio lui non voleva colpire gli statali, però l’Europa ce l’ha costretto e lui si dispiace assai».

Qui c’è l’attimo di suspense, seguito dal tuffo nella Storia: «Oso citarvi colui che era ritenuto», tesi opinabile si capisce, «un grande dittatore, Benito Mussolini. Nei suoi diari ho letto recentemente questa frase», che il premier cita a memoria (Bonaiuti nega essere la prima volta, in pubblico il portavoce ne rammenta almeno un’altra). Dice il Duce berlusconiano: «Sostengono che ho potere, non è vero. Forse ce l’hanno i gerarchi, ma non lo so. Io so solo che posso ordinare al cavallo vai a destra o vai a sinistra, e di questo posso essere contento». Morale del premier: «Il potere, se esiste, non esiste addosso a quelli che reggono le sorti dei Paesi. Chi è in questa posizione, di potere vero non ne ha nulla...».

Nella sala della conferenza stampa regna l’aria, attonita, che segue le gaffe mondiali con Silvio protagonista (quella del «kapò», l’altra sull’Islam, e le corna, e l’Obama «abbronzato», e il rimbrotto della Regina). Ma non di gaffe stavolta si tratta. Anzi. Berlusconi, spiega uno dei suoi più fidi scudieri, voleva proprio dire: «Se perfino quello, cioè Benito, non aveva sufficiente potere, figuriamoci se posso averlo io, che siamo in democrazia. Dunque non pigliatevela con me se c’è da salvare l’Euro, se la Grecia ci impone sacrifici, se l’economia non gira come dovrebbe...». Citare Mussolini fa comodo al premier per rafforzare il concetto, cosicché se ne discuta nei bar, sui luoghi di lavoro, e passi l’idea che davvero non ci si può fare nulla, i sacrifici ce li dobbiamo tenere e basta.

Netanyhau, premier israeliano, capisce al volo dove va a parare l’amico Silvio. Ne sposa la tesi senza formalizzarsi sul Duce, «come governi non siamo abbastanza forti da opporci ai mercati», riconosce. Tuttavia, aggiunge, con le formule di unità nazionale si fronteggia meglio la situazione. Fate così anche voi, è il consiglio indiretto. Ma non sia mai, replica Berlusconi ai cronisti, «abbiamo una vasta maggioranza, una cosa del genere non ci serve». Per caso, gli viene chiesto, sarebbe Tremonti un gerarca di quelli davvero potenti?, fugge il Cavaliere, «il potere vero non ce l’hanno nemmeno i ministri dell’Economia».

di Ugo Magri; LA STAMPA

giovedì 27 maggio 2010

Bisogna tagliare

La Chiesa

La virtù cristiana dell’umiltà è entrata improvvisamente in sciopero a Salerno, dove l’arcivescovo ha inaugurato una statua che lo raffigura. Monsignor Pierro ha voluto pensare ai fedeli più miopi, adoperandosi affinché la scultura fosse alta almeno quattro metri. L’opera che tramanda ai posteri le fattezze di questo servo del Signore è stata eretta nel Seminario metropolitano, là dove i sacerdoti sono soliti svolgere gli esercizi spirituali. Ne trarranno ispirazione per riflettere sulle miserie della natura umana, fra le quali l’ego espanso è in fondo una delle più innocue. Anche delle più diffuse, però: un altro monsignore, a Vallo della Lucania, si è fatto ritrarre in un affresco alla destra di Gesù.

Siamo convinti che il vescovo di Salerno raccolga schiere di devoti che lo vorrebbero santo subito e immortalato nella Cappella Sistina accanto ad Adamo. Eppure nemmeno a loro dispiacerebbe sapere con quali denari Sua Eminenza ha commissionato il capolavoro che fissa i suoi nobili lineamenti nel marmo di Carrara. Non ricordo che la scultura venisse citata nella pubblicità dell’otto per mille. Mentre mi pare di ricordare che il monsignore andrà presto a giudizio, con l’accusa d’aver attinto ai fondi pubblici per ristrutturare una colonia per bambini bisognosi che un miracolo ha successivamente trasformato in albergo a cinque stelle. Di sicuro sono storie come questa che inducono a credere nell’origine divina della Chiesa: non si capirebbe, altrimenti, come possa sopravvivere da duemila anni a certi preti.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 26 maggio 2010

Il collega

Florian Witulski è uno studente tedesco di 23 anni. Che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. E l'ha descritto. Per farlo ha usato il solo linguaggio globalmente comprensibile. Foto scattate da un'iPhone, video girati con una telecamerina e brevi descrizioni da postare sul suo blog 1. La leggenda dell'inviato per caso che nessuno aveva inviato è nata così. Poi si è spostata nell'occhio del ciclone per crescere velocemente, passando di contatto in contatto su Twitter 2 - dove i suoi seguaci sono passati da 100 a oltre 5 mila in meno di un mese - su Facebook 3 e Vimeo 4.

I suoi reportage da Bangkok sono stati presi e apparsi su France 24, Der Spiegel e sulla Cnn, per citarne alcuni. Ma vivono di vita propria e mettendo a rischio la vita di Florian. La sua guerra da vicino sta facendo il giro del mondo, ma la Rete non lo protegge. Non vuole farlo. Witulski s'infila nelle situazioni più pericolose, entra nel mezzo dell'azione e della guerriglia appena ne ha l'occasione. E' stato messo in carcere in Iran, gli hanno sparato in Thailandia, è stato ricercato dai servizi segreti come spia. Lui è semplicemente un blogger d'assalto.

A Teheran c'era andato per studiare il movimento artistico underground. Un giorno qualsiasi un tassista qualsiasi sbagliò strada e finì per cambiare anche quella di Witulski. La macchina si trovò circondata e in mezzo a una violenta protesta. "Ripensando a quei giorni", scrive Witulski, "forse avrei dovuto capire che qualcosa stava succedendo nel Paese". L'inesperienza. "Una volta che la nostra macchina era stata bloccata, io ho solo pensato di scattare qualche foto". Certo. A chi non verrebbe in mente di fare la stessa cosa mentre si trova a bordo di un taxi, circondato in Iran durante una protesta.

Un attimo dopo i servizi segreti iraniani ruppero il finestrino, gli coprirono la testa con un passamontagna, distrussero la macchina fotografica e lo portarono in prigione dove per due giorni di seguito sottoposero lo studente a interrogatori. Uno ogni ora senza dormire e senza mangiare. Forrest Gump del giornalismo d'assalto, a Witulski fu concesso di tenere il suo iPhone. Per i servizi segreti era solo un lettore Mp3 e lui, imperterrito, continuò a fare foto dalla cella. "Pensavano fossi una spia, e che il centro dove lavoravo a Laos si occupasse di armi nucleari", ha descritto sul suo blog una volta fuori la prigione. "Un'assurdità", ha continuato a scrivere quasi divertito. Ma un'assurdità abbastanza snervante da farlo optare per una vacanza. In Afghanistan.

Inutile pensare a un'incontrollata passione per la notizia, quella di Witulski è anche più semplicemente una dipendenza da adrenalina ben controllata. I suoi interessi sono i viaggi, la cucina italiana e quella thai, la musica electro e tutto ciò che ha a che fare con art/design e cinema. Seguendo le sue orme sul blog, Florian, per tutti più conosciuto come @Vaitor, è arrivato a Khok Wua il 10 aprile, dove è stato colpito da un proiettile al braccio e poi operato (ovviamente tutto è filmato e documentato 5), il 17 maggio era a Daeng e il 19 maggio a Rajaprasong. Il suo viso da studente tedesco con la pelle bianca latte, le guance rosse e i bermuda da turista lo fanno passare attraverso varchi dove chiunque altro, anche se munito di tesserino e testata giornalistica, non passerebbe. O non avrebbe voglia di passare.

Nato in un paesino nelle vicinanze di Hannover, Florian non scrive solo di guerra. Propone idee e notizie diverse, cose che lo colpiscono. E' un blogger normale. Che ha ben presente i rischi che corre. I suoi articoli sono precisi e rispettano le regole di un giornalismo online che ormai ha connotati ben delineati. Testo in prima persona, punti di vista senza commenti, descrizioni di particolari annodati in un quadro più generale da dedurre facendo scorrere i post uno dopo l'altro. Giorni di guerra al di là del diario. Titoli brevi, date, foto, video al posto delle parole. E commenti aperti. Ai quali spesso @Vaitor non risponde. E' la linea di demarcazione della leggenda. E la guerra diventa un evento a puntate dove l'eroe è un semplice studente che dice: "puoi essere perfettamente al sicuro perfino in mezzo a una sparatoria se sai cosa sta succedendo intorno a te". A volte. Altre volte no. E così un video girato dentro la protesta in una piazza, finisce con il rumore di uno sparo e poi il nero improvviso. E chi guarda ha l'impressione di essere sul posto. Il post subito dopo mostra la ferita. Poi l'operazione. Il gesso. E alla fine tutto comincia da capo senza sigla e senza effetti speciali.

Florian Witulski ha intenzione di smettere con i suoi reportage, dopo Bangkok. Dice di voler tornare al suo progetto originale nel campo di Laos fondato insieme all'amica Nok Saliyavong. Green-gathering.com 6 si occupa infatti di creare nuove opportunità, creative e artistiche, per i giovani del luogo. Ha anche intenzione di tornare a studiare e finire il master. Mentre un Università canadese si è già offerta di mantenerlo in viaggio per due anni e permettergli di terminare il suo progetto. Chi lo segue seduto dalla cameretta lo incita a non smettere. Gli chiedono di continuare a filmare la guerra. Di raccontarla. In giro ce n'è tanta. C'è il Darfur, c'è l'Iraq. E i giornali, le righe di testo da inviati non bastano più. Ora bisogna essere in grado di stare in mezzo alle bombe. Sperando che ci sia campo. E una connessione in grado di superare il rumore degli spari.

di Katia Riccardi; la Repubblica

Vaffanculo

Ai lettori che vivono con preoccupazione la crisi economica vorremmo segnalare un dramma nel dramma. Quello di Elisabetta Gregoraci, moglie di Flavio Briatore e mamma del di lui erede, Falco Nathan. «Al mio piccolo manca lo yacht», è il grido di dolore che la donna ha affidato a un settimanale. «Da quando siamo stati costretti ad abbandonare la barca, il bambino piange spesso, non è più sereno come prima». Segue un racconto dettagliato e crudele: dopo la nascita del pargolo, la famiglia Briatore è costretta ad accamparsi su uno yacht con 12 persone di equipaggio e 63 metri di parquet. Una sistemazione di fortuna, in attesa che finiscano i lavori della nuova abitazione, che sorgerà in località defilata: Montecarlo. Ma ecco sopraggiungere i finanzieri a sirene spiegate, con l’accusa di contrabbando e frode fiscale. I profughi dello yacht devono scendere a terra e riparare in un attico di Londra, dove il clima è meno mite e il pavimento neanche ondeggia.

Siamo sicuri che milioni di donne si immedesimeranno nell’incubo della signora Briatore. È tale il terrore che i loro figli possano soffrire il trauma della perdita dello yacht che hanno preferito abituarli fin da subito a condizioni di vita meno precarie: una culla ricavata nella stanzetta della nonna. Da parte nostra - oltre a offrire al piccolo Falco Nathan la più incondizionata solidarietà per i decenni a venire - ci domandiamo se la sua mamma abbia una minima percezione della realtà che la circonda. Ma forse sullo yacht si captava soltanto il Tg1.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

lunedì 24 maggio 2010

NO!

Molti lettori nell’ultimo anno hanno espresso il loro disagio di fronte alle centinaia di pagine di colloqui privati, telefonate e messaggi intercettati dalla magistratura e finiti in tempo quasi reale sui giornali. Penso alle liste piene di nomi, pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, o ai dialoghi privati riprodotti senza chiarire i necessari contesti di riferimento. Penso, per esempio, alle intercettazioni riguardanti le inclinazioni sessuali dell’inquisito Angelo Balducci, che nulla hanno a che fare con l’inchiesta che ha smascherato gli affari della «cricca» dei lavori pubblici, ma che sono state passate ai quotidiani e sono finite direttamente nelle case degli italiani. Un’anomalia, di cui parla in modo esaustivo Luca Ricolfi nell’articolo che trovate qui sotto. Un’anomalia che avremmo dovuto affrontare da tempo.

L’idea che l’Italia si sia trasformata in una società di guardoni, incollati allo spioncino delle procure in attesa di una nuova rivelazione, mi inquieta. Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori.

Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.

Si potrebbe allora dire che la legge in discussione al Senato arriva al momento opportuno. Purtroppo non è così, anzi accade il contrario: il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione. Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità.

Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.

Se il problema invece è quello di evitare di pubblicare le trascrizioni di telefonate di persone che non sono coinvolte nelle indagini o se è importante tutelare il segreto istruttorio, perché allora vietare anche di dare notizia degli atti di indagine (anche sotto forma di riassunto) fino al rinvio a giudizio degli indagati? È surreale pensare che si debba dare notizia di un arresto ma non si possa spiegare ai lettori perché quella persona è stata arrestata. La legge in discussione prevede poi, in caso di violazione, di non condannare tanto i giornalisti quanto gli editori con multe che arrivano a sfiorare il mezzo milione di euro. Una mossa odiosa e subdola che punta a spaccare le aziende editoriali e a terrorizzarle in tempi di crisi economica, oltre che a demandare non ai direttori ma agli amministratori il controllo su ciò che si pubblica.

È tempo che i giornali e i giornalisti tornino a fare inchieste senza aspettare di essere imboccati dagli inquirenti e senza diventare ogni settimana il megafono di una diversa procura. Che si rifletta su ciò che è corretto pubblicare smettendo di giocare a chi rivela un particolare più degli altri anche se questo non aggiunge nulla ma anzi può distruggere qualcuno.

È ora che il Parlamento abbia un sussulto e ripensi ad una legge che avrebbe effetti devastanti sulle inchieste.

È chiaro che questa legge ha poco a che fare con le preoccupazioni dei lettori e le sensibilità ferite di cui parlavo prima, mentre ha molto a che fare con una difesa corporativa e di casta. Ma non della casta dei giornalisti, quanto di quella dei politici.

di Mario Calabresi; LA STAMPA

venerdì 21 maggio 2010

Il famigerato bavaglio

La commissione Giustizia del Senato ha approvato a maggioranza gli emendamenti del governo al disegno di legge sulle intercettazioni. Sono previste limitazioni inaccettabili ai poteri dell’autorità giudiziaria, una cappa plumbea di silenzio nei confronti delle indagini penali in corso.

Inoltre, sanzioni severe per i giornalisti che contravvengono al nuovo regime e, soprattutto, per gli editori che consentono le pubblicazioni illegittime. Una disciplina che lascia stupefatti e che, se dovesse diventare davvero legge dello Stato, cambierebbe il volto delle indagini penali e di parte dell’informazione nel Paese.

Nonostante le critiche, le osservazioni e le proteste di una porzione consistente dell’opinione pubblica, l'azione non si è fermata. Non sono serviti i problemi economici urgenti, gli scandali della «cricca», il crollo di credibilità della classe politica, la necessità di affrontare finalmente il nodo della corruzione. In altre parole, le vere urgenze. La priorità, per il governo, era, ed è rimasta, tagliare le unghie alla magistratura che indaga e togliere voce e penna ai giornalisti che informano. Ne prendiamo atto con sconcerto, cercando di fare un bilancio di ciò che il Parlamento sta predisponendo.

In materia di indagini è risaputo che le intercettazioni costituiscono mezzo insostituibile di accertamento di molti gravi reati. Circoscrivere i casi nei quali esse possono essere disposte e stabilire che esse non possono durare più di un periodo prestabilito fisso di settantacinque giorni, e poi automaticamente cessare anche se stanno emergendo elementi utili ad individuare i responsabili, significa rinunciare ad uno strumento fondamentale nella lotta al crimine. Uno strano regalo alla criminalità, da parte di chi di tale lotta, dell’ordine pubblico e della difesa dei cittadini fa, almeno a parole, la sua bandiera. Un regalo, addirittura, alla criminalità organizzata, se è vero, che, come hanno spiegato gli esperti della materia, le restrizioni peseranno anche nelle indagini contro mafia, ’ndrangheta e camorra.

In materia d’informazione dovremo abituarci a non conoscere più nulla sulle indagini disposte dall’autorità giudiziaria. Se un ministro si fa pagare una casa a sua insaputa, non lo sapremo, perché i giornalisti non potranno più pubblicarlo. Come non sapremo più se un parlamentare, un presidente o un sindaco hanno peculato, rubato, si sono fatti corrompere o comprare e sono per questo indagati. A ciò conduce, inesorabilmente, l’avere previsto che non sarà più consentito pubblicare nulla, neppure «il contenuto» non più coperto da segreto, delle investigazioni giudiziarie in corso.

Le sanzioni previste per i contravventori sono, d’altronde, molto elevate. Chi dall’interno degli uffici rivela il contenuto di atti coperti da segreto investigativo sarà punito con la reclusione fino a sei anni, e in tale pena incapperà pure il giornalista che pubblicherà la notizia. Chi pubblica atti di un’indagine penale non più coperti da segreto, ma di cui è comunque vietata la pubblicazione, rischierà l'arresto fino a 30 giorni o il pagamento di un’ammenda da 1000 a 5000 euro, che sarà raddoppiata nel caso si tratti di un’intercettazione. Per l’editore del giornale che pubblicherà la notizia vietata è prevista una sanzione pecuniaria che potrà arrivare a 464.000 euro.

A quanto si è appreso, il varo definitivo in commissione del disegno di legge è stato sospeso fino a lunedì prossimo. In materia di sanzioni la novità più devastante è la pesantissima sanzione pecuniaria prevista per gli editori, che rischierà di alterare la relazione d’indipendenza che ha caratterizzato, fino ad oggi, il rapporto fra proprietà e direzione dei giornali. Pensate a che cosa accadrà quando, se si verificherà un’infrazione prevista dalla nuova legge, l’editore saprà di rischiare ben 464.000 euro. Credete davvero che, di fronte al pericolo di fallire e di chiudere l’azienda, si farà scrupolo d’imbavagliare, lui stesso, i direttori e i giornalisti? A quest’ulteriore scempio, a quanto pare, nessuno, nel palazzo, pensa di rimediare. La libertà di stampa è l’ultima delle preoccupazioni.

L’importante è creare un clima d’intimidazione complessiva in grado di bloccare ad ogni costo le notizie.

Si obietterà, a mali estremi, estremi rimedi. Gli abusi della stampa, con la pubblicazione di notizie coperte dalla privacy, con quella, indiscriminata, d’intercettazioni che non c’entrano con le indagini, con la demolizione mediatica di colpevoli ed innocenti, esigeva una reazione adeguata. L’obiezione è del tutto inconferente: a parare gli abusi sarebbe più che sufficiente la rigorosa applicazione della legge vigente sulla privacy, l’originaria previsione del divieto di rendere pubblici gli atti irrilevanti per le indagini e la predisposizione di un archivio riservato nel quale depositare provvisoriamente tali atti in attesa di una loro distruzione.

La realtà è che, con un colpo solo, governo e maggioranza (con l’avallo, magari, anche di qualche oppositore) vogliono indebolire la magistratura, rendere meno incisive le indagini, evitare che politici e potenti finiscano in prima pagina in ragione delle loro malefatte. Un’indebita limitazione del controllo di legalità e del diritto d’informare che, se dovesse passare, cambierebbe inevitabilmente la costituzione materiale. Speriamo che, nel frattempo, qualcuno che ha potere si accorga che è, anche, violazione della Costituzione formale.

di Carlo Federico Grosso; LA STAMPA

La barzelletta

"Ho fatto dell'onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia professione."
Augusto Minzolini

Ad personas

Do ut (Merce)des

Dopo aver strillato al complotto, alla truffa, al pericolo per la democrazia, Mercedes Bresso ha ritirato il ricorso contro la vittoria del suo rivale Roberto Cota nelle recenti elezioni del Piemonte. In cambio la Lega si è limitata a togliere il veto alla conferma della signora nel prestigioso incarico di presidente del Comitato delle Regioni europee. «Ho accettato la mediazione raggiunta per consentire a uno svelenimento dei rapporti nell’ottica di un reciproco riconoscimento», ha spiegato Bresso in una neo-lingua dai significati oscuri, eppure fin troppo chiari.

Abbiamo smesso da tempo di credere che chi fa politica sia dotato di una spina dorsale più solida di quella di noi comuni mortali. Ci accontenteremmo che appagasse le sue ambizioni personali senza sovrapporle ai destini della democrazia. Una precauzione che dovrebbe valere soprattutto per coloro che chiedono il voto agli elettori di sinistra, ergendosi a paladini degli ultimi. Mai visto Robin Hood mettersi d’accordo con lo sceriffo di Nottingham. Sarà anche vero che tutti hanno un prezzo, ma la presidenza di un comitato sembra un saldo di fine stagione. Una mancia, se paragonata per esempio alla liquidazione di Sant’Oro. La prossima volta che le toccherà di «consentire a uno svelenimento dei rapporti nell’ottica» suggeriremmo a Bresso di farsi assistere anche lei dal manager di Santoro e Paola Perego, Lucio Presta. Si tratterà di un «reciproco riconoscimento».

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 19 maggio 2010

Diamo a Cesare quel che è di Cesare

In uno scenario politico dominato da rancori personali e basso livello polemico, fanno decisamente spicco le parole che una donna, il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna, ha dedicato a un' altra donna, la deputata del Pd Paola Concia. L' argomento è l' omofobia, il teatro, che non poteva essere più istituzionale, il Quirinale. Al Quirinale il capo dello Stato riceveva, ieri, le associazioni dei cittadini omosessuali. Le parole di Carfagna meritano di essere riportate per intero, e tra virgolette. «Consentitemi un pensiero particolare all' onorevole Anna Paola Concia, alla quale sono grata per l' impegno e la delicatezza che ha speso per farmi conoscere la ricchezza del mondo associativo qui presente, con tutte le sue sfumature, e per avermi aiutata a sfondare il muro della diffidenza della quale penso di essere stata allo stesso tempo vittima e inconsapevole responsabile, in un passato remoto, ormai ampiamente superato». Si tratta di un' autocritica, genere retorico non inedito, ma praticato in genere con faticoso scialo di concetti e soprattutto in chiave tutta interna e autoriferita, come se tanto l' errore quanto il suo scioglimento fossero comunque a carico del portatore. Qui, a parte la limpidezza e la semplicità delle parole di Mara Carfagna, colpisce l' omaggio pubblico a un' avversaria politica, alla quale si attribuisce non solo il merito di avere delle buone ragioni, ma addirittura quello di avere contribuito a superare un pregiudizio, di avere emendato e migliorato un assetto culturale. Ovvio domandarsi di quanti precedenti «maschili» si sia a conoscenza: e cioè se si abbia memoria di un uomo di potere che dichiari un suo avversario artefice di un insegnamento (perché di questo si tratta), riconoscendone, in quella materia, una superiore qualità di giudizio. Fa velo, a questa eventualità, la ben nota competitività di noi maschi, foriera di una pervicace mancanza di umiltà. Riconoscerci debitori non è il nostro forte, se non per sottometterci a un Capo, e cioè attivando una sottospecie molto sospetta della gratitudine. Non così nel caso CarfagnaConcia. Che certo non ci solleva di molto dalla coscienza che, nel campo dei diritti degli omosessuali e della lotta all' omofobia, siamo un paese arretrato, carico di paure e di pregiudizi «popolari» sui quali specula sconciamente molta politica. Ma ci fa sperare che la discussione in corso sia davvero una discussione, che le parole spese arrivino e non si depositino come ulteriori incrostazioni su vecchi muri, come quello dal quale Carfagna si è affacciata per ascoltare e capire, e non più per giudicare e respingere. Senza nessuna malizia, e anzi con serena soddisfazione, resta da dire che le parole dedicate dal ministro Mara Carfagna alla collega Paola Concia erano perfettamente in tema con la giornata antiomofoba. Scaturiscono, infatti, da un rapporto politico tecnicamente omo-sessuale (l' eros ovviamente non c' entra, c' entra l' affinità di genere). L' omo-sessualità intesa come capacità di capirsi tra congeneri non è, evidentemente, molto praticata tra i politici maschi, che sono omofobi anche in questo senso: detestano la sola idea che una persona dello stesso sesso possa sedurre e rallegrare i loro cervelli. Grazie, infine, a Carfagna e Concia per averci concesso il lusso di scrivere, per una volta, un articolo benevolo e, ancor più rara eccezione, ottimista.

di Michele Serra; la Repubblica

martedì 18 maggio 2010

Autoconsolazione?

“Piangevo perché non avevo le scarpe, poi vidi un uomo senza i piedi”.
Jim Morrison

lunedì 17 maggio 2010

Non siamo soli

Se noi guardiamo i libri, è anche vero che al Salone loro guardano noi. Chissà che cosa pensano e che cosa si dicono, della fiumana di gente che scorre fra i corridoi, si ferma agli stand, butta l’occhio, sfoglia, lascia o compra. Perché anche gli umani sono protagonisti su questa scena, mica solo i libri. Gli umani e le loro puntuali migrazioni. Al Salone questa specie animale fa un po’ come i monsoni, regolari e costanti nella loro stagionalità.

Ad esempio: il giovedì e oggi, lunedì, son giorni da gruppi scolastici (età variabile dai 3 anni all’università della Terza Età). Zaini in spalla, gelati che colano, schiamazzi da vertigine di mattinata bigiata. Stamane, a partire dalle 11 in Sala Gialla, le scolaresche adottano scrittori o parlano con gli scrittori già adottati (si sa, questa specie è tanto bisognosa d’affetto).

Il venerdì è il giorno degli «addetti ai lavori», per i quali il Salone è un salotto: ci si incrocia, si chiacchiera, si spettegola (molto), si progetta (un po’ meno), se non ci si incrocia ci si aggira in cerca di qualcuno da incrociare. Sabato e domenica: forestieri e famiglie (o famiglie forestiere). Passeggini dai quali ben presto vengono fatti sloggiare i pupi per lasciar spazio agli acquisti. Chissà che cosa ne pensano i libri, di questa varia umanità.

di Elena Loewenthal; LA STAMPA

Filastrocca

 Eeny, meeny, miny, moe,
Catch a baby by the toe.
If it squeals let it go,

Cuius regio eius religio

Il Papa: "La terza profezia di Fatima non si è compiuta". Così come predetto nella quarta.

da Spinoza.it

sabato 15 maggio 2010

Cribbio

Disarmo

La settimana scorsa, la maestra napoletana Maria Marcello si era tuffata in una zuffa di bambini per separarli ed era stata colpita da un calcio che le aveva fracassato la milza. Al risveglio dall’operazione, le sue prime parole erano state irrituali: voleva rivedere il piccolo che l’aveva mandata all’ospedale e perdonarlo. Ieri il bambino le ha spedito una lettera di scuse, un mazzo di fiori e il vangelo della sua prima comunione. "Libro Cuore"? Può darsi.

Per me quella maestra è una rivoluzionaria e ha raccolto il frutto di un gesto non buonista, ma anticonformista. Esiste oggi qualcosa di più banale che vendicarsi delle offese subìte? Pare sia rimasta l’unica regola morale accettata da tutti: ogni torto va riequilibrato con un’offesa di segno uguale e contrario. Centinaia di film gialli e di curve ultrà non fanno che ripetercelo di continuo: l’onore, la giustizia e il rispetto si ottengono soltanto con la ritorsione. Un bambino ti spacca la milza? Che sia cacciato dal consesso urbano, umiliato lui e la sua famiglia. Così il bimbo crescerà avvelenato contro il mondo, in preda a un astio vittimista che i familiari non mancheranno di alimentare. Poi arriva una maestra da 1100 euro al mese che dice: «Ti perdono». E lo scenario di colpo si ribalta. Perché come fai a sentirti ancora vittima della società, quando la «tua» vittima ti chiede di stringerle la mano?
Il perdono è l’arma disarmante. Non puoi farci nulla: ti vince, ti conquista, ti redime. Ed è una medicina che alleggerisce il cuore di chi lo riceve, ma ancor più quello di chi lo offre.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

venerdì 14 maggio 2010

L'impresa politica

Dopo tutto il bailamme di questi giorni sulla lista di Anemone, che suole far regali all'insaputa altrui (che vigliacco!), Berlusconi mette le mani avanti: "Licenzierò chi ha sbagliato".
Sì, ha detto "licenzierò". Vi pare normale?

I privilegiati

Anche ieri, giovedì 13 maggio, festa della Beata Vergine Maria di Fatima, la Camera era vuota come una spiaggia a gennaio sotto un diluvio. Direte: non era un giorno lavorativo? Dipende dai lavori. Non avevano promesso che avrebbero lavorato anche il venerdì? Sì, però, dipende, insomma... Ma tiratevi su: i deputati non perderanno altre ore preziose per mettersi in coda all’unico sportello milanese che venderà gli ultimi biglietti per la finale di Champions.

Gli amici dell'Inter, infatti, non hanno avuto cuore di infliggere loro l'umiliazione di sentirsi come i comuni mortali. I parlamentari possono comprare i loro biglietti con comodo. All'Inter club di Montecitorio e di Palazzo Madama. Quale sia al momento la situazione l'abbiamo raccontato ieri. Dei ticket che aveva a disposizione, la società di Massimo Moratti ne ha distribuiti un migliaio alla curva dei fedelissimi, 9000 a una serie di agenzie che organizzano pacchetti completi, 5000 agli Inter Club che organizzano i voli. Se n'è infine tenuti 2000 da gestire direttamente. Tra i quali, a quanto pare, sarebbero quelli destinati agli amici degli Inter Club della Camera (presidente Francesco Colucci, deputato del Pdl e questore di Montecitorio) e del Senato, presidente Benedetto Adragna, Pd, lui pure questore a Palazzo Madama. In aggiunta a quelli riservati, si capisce, ai consiglieri comunali milanesi, ai consiglieri regionali, agli assessori, ai famigliari, ai portaborse... Per carità: tutto regolare, ci mancherebbe. Si dirà che è anche nell’ordine delle cose che una società di calcio cerchi di mantenere buoni rapporti con il mondo della politica. Che l'hanno già fatto altri.

Ma i tifosi dell'Inter che sono tagliati fuori da ogni possibilità di avere un biglietto per la finale con il Bayern a meno che non si rassegnino a comprarlo on line dai bagarini a prezzi astronomici che vanno da 800 a 6.950 euro (posto «categoria vip», in un box privato e con champagne, spiegava ieri Gianni Santucci) hanno o no il diritto di sentirsi non solo cittadini di serie B ma anche (e in questo caso è paradossalmente perfino peggio) interisti di serie B? Piccolo promemoria: qualche anno fa la «nazionale» dei parlamentari programmò una partita con i deputati e i senatori di un paese del Sudamerica. E solo all’ultimo istante, grazie allo sconcerto di uno dei nostri onorevoli-calciatori («ma siete pazzi? Se la cosa finisce sui giornali ci fanno, giustamente, un mazzo così! ») saltò l’ipotesi che l'allegra comitiva varcasse l'oceano con un volo di stato. Ecco: visto che dopo i tagli del governo Prodi (una delle poche cose fatte davvero contro i privilegi castali) e il successivo assopirsi dell'indignazione popolare l'andazzo è ripreso come prima e peggio di prima, possiamo chiedere che non ci pensino neppure, a una trasferta del genere a spese delle pubbliche casse? Diranno che per carità, quando mai, queste sono solo malignità insensate e prevenute. Meglio così. Però, come diceva zio Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina...

di Gian Antonio Stella; CORRIERE DELLA SERA

martedì 11 maggio 2010

Routine

Alla ricerca dell’ultima foto di un cormorano imbrattato di petrolio, la nostra redazione ha ripescato dall’archivio un vecchio giornale. Sotto l’immagine straziante della povera bestia, il titolo d’apertura annunciava il disastro ecologico: settantamila tonnellate di greggio perse da una petroliera. Pensavamo che le affinità coi giorni nostri fossero finite lì, quando lo sguardo ci è caduto sul secondo titolo della prima pagina: «I veti incrociati gelano il dialogo sulla giustizia». Gli occhi di tutti sono corsi alla data: mercoledì 20 novembre 2002, quasi otto anni fa. Eppure il ministro Tremonti annunciava una manovra lacrime e sangue anche allora. E a pagina 5, non ci crederete, «Mezza Quercia prende le distanze da Fassino». Esattamente come oggi mezzo Pd, mentre l’altro mezzo le prende da Bersani. Dopo aver solcato con le pupille sbarrate «La Lega preme per il federalismo fiscale», una pagina monografica su Ciancimino e una sulla mancanza di pluralismo dell’informazione, siamo finalmente approdati agli Esteri: «Europa, la grande malata». Inseguiti dalle notizie zombi, abbiamo cercato rifugio negli Spettacoli, dove era in corso una polemica sull’eccesso di cattivo gusto in tv. Lo sport, invece, era dominato dalla protesta dei tifosi giallorossi. «Verso la Roma c’è malanimo».

La faccio breve. Per trovare qualche differenza fra il giornale del 2002 e quello di stamattina abbiamo dovuto cercare una foto di Berlusconi: gigioneggiava con Schroeder a pagina 10 ed era molto più vecchio.

lunedì 10 maggio 2010

STRAfalcioni

La Letizia Moratti invoca maggiore EFFICACITA' per il reato di clandestinità.

...Ma va' ciapà i rat!!!

sabato 8 maggio 2010

Destra-sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra

GIORGIO GABER

Padania libera

Il sashimi a Verona lo venderanno sotto il nome di pesse cruo, il kebab a Napoli sarà o piecoro fatto a felle e la bottega di sushi, in italiano "involtino di riso e pesce", a Palermo diventerà sfinciuni. L'italiano che la Lega sta inventando, a colpi di emendamenti come quello proposto ieri sulla lingua del commercio, è uno sproposito. La parodia della famosa e già ridicola purificazione fascista, quando al posto di bar fu imposto mescita, i magazzini Standard divennero Standa, il film era la pellicola e un artista di nome Rachel dovette cambiarsi in Rascel (resistendo a Starace che voleva imporgli addirittura Rascele disse: "forse che Manin diventerà Manino?").

Davvero non ci danno pace i creativi leghisti. Vogliono dunque abolire le insegne in lingue extracomunitarie, tradurle in italiano coltivando l'illusione violenta e impossibile di oscurare i cartelli per strozzare le culture di riferimento, non vedere più le tracce dei cinesi, dei tailandesi e dei musulmani come primo passo verso la loro abolizione, vessarli intanto con il manganello della lingua italiana o peggio ancora del dialetto locale perché la differenza con il fascismo è che alla nazione è stato sostituito il paese, all'Impero il Condominio, alla Lupa di Roma il Pitu (tacchino) di Scurzolengo, al salto nel cerchio di fuoco la gara dei birilli delle donne cuneesi e all'olio di ricino il nativismo e il folklore bergamasco.

Di sicuro l'emendamento proposto ieri è la fotocopia di quel decreto del 1938 che puniva "con una multa da cinquecento a cinquemila lire quei negozianti che vendono prodotti con marchi e diciture straniere". Erano i tempi in cui era obbligatorio darsi del voi e persino la rivista 'Leì dovette cambiare la testata in Annabella ("forse Galilei deve diventare Galivoi?" scrisse il giornalista - fascista - Paolo Monelli). Allo stesso modo i leghisti vogliono purificare la lingua non dagli anglismi della perfida Albione e dai francesismi incipriati ma dalle influenze arabe e dunque, se studiassero un po', cancellerebbero un terzo del nostro vocabolario: niente più algebra e moka per esempio, e niente più arancia e ammiraglio, via pistacchio aguzzino zucchero e azzurro e basta persino con lo zafferano del risòtt; aboliremo Caltanissetta e bisognerà riscrivere la toponomastica e l'onomastica, dovremo rivedere la geografia e la storia oltre che la gastronomia.

Già il votatissimo Luca Zaia, quando era ministro dell'Agricoltura, spiegò a un allibito giornalista del Guardian che l'Italia, non solo per alimentare il consumo e la produzione interna, voleva e doveva tornare alla tavola italiana e che nelle cucine leghiste era già stato preparato il kebab "tutto italiano" negli ingredienti e anche nel nome: muntun afetà. Ma c'è poco da ridere se si pensa alla trasversalità di questa sottocultura fascio-leghista che lambisce e intride la nostalgia alimentare della sinistra, la quale scopre sia la presunta raffinatezza della cucina dozzinale e sia la necessità del dialetto meneghino, il formaggio con le pere e il mugugno del villaggio brianzolo contro la dialettica dei dialetti e dei cibi imperiali: americano, arabo, cinese, russo, indiano, turco-ottomano.

Anche l'idea di sottoporre a un esame di lingua italiana i commercianti extracomunitari, che a prima vista sembra un pochino più sensata ed è certamente meno ridicola, in realtà finisce con l'essere un'altra tracimazione rancorosa, un'altra delle volgarità gratuite che stanno sapientemente avvelenando il paese. A Tonco di Asti e a Rho è più importante che sappiano usare il congiuntivo i commercianti extracomunitari di magliette o i compratori locali di magliette, quelli che le vendono o quelli che le indossano?

Non ci piace fare il solito spirito sui Bossi, padre e figlio, e sui leghisti che umiliano la lingua italiana pur facendo mestieri più significativi e ben più prestigiosi come il ministro e il consigliere regionale. Ma colpisce che impongano la conoscenza dell'italiano agli stessi extracomunitari che pretendono di tenere lontani dalle nostre scuole sempre più orientate verso un modello regionale e xenofobo. La scuola della Gelmini vuole contingentare gli stranieri, cacciare i professori terroni dal Nord, sottoporre tutti gli insegnanti all'esame di meneghino, di vicentino e di torinese, con l'obiettivo - l'abbiamo già detto altre volte - di avere una scuola "parteno-siculo - borbonica", un'altra "brianzola-austriacante" e un'altra ancora "papalina-tiberina".

I soli a dovere imparare l'italiano sono dunque i "vvu cumpra'" che chiedono la licenza di vendere braccialetti, cinturini d'orologio e cibi etnici. Li mettessero davvero in condizioni di imparare la lingua invece di imporre un esame vessatorio come fosse un anello al naso! L'arroganza linguistica ha sempre alimentato l'odio. C'è, per esempio, un rapporto tra le foibe e l'imposizione fascista dell'italiano in Istria. La lingua e dialetti, che sono ricchezza, possono anche diventare randelli e arcaiche violenze, fetori che appestano le comunità internazionali, ammorbano il mondo che va avanti a contaminazioni e meticciati. Inventando, a colpi di emendamenti come quello proposto ieri sulla lingua del commercio, è uno sproposito.

di Francesco Merlo; la Repubblica

Ne ho le palle piene

Babbo Natale

Il bollettino della repubblica di Cialtronia, della quale siamo sudditi attoniti, assegna un riconoscimento alle persone che nel corso della settimana hanno cercato di risollevare il morale del popolo con esibizioni strepitose di facce di tolla. Terzo premio (Faccina di Tolla) all’ex ministro Scajola. L’uomo dalla lingua irrefrenabile che diede del «rompicoglioni» al professor Biagi e persino a Galileo.

Quello che alla vigilia del G8 di Genova, per scongiurare le incursioni dei No Global da Francia e Svizzera, si impegnò a intensificare il «controllo delle fioriere». Stavolta si è limitato a comprare un appartamento di quasi 200 metri quadri con vista sul Colosseo al prezzo di un trilocale di periferia, mentre il grosso della cifra veniva aggiunto a sua insaputa da un benefattore anonimo, anzi Anemone.

Secondo premio (Faccetta di Tolla) all’architetto Zampolini, il sodale di Anemone che, per giustificare il transito di un milione e mezzo di euro sul suo conto, dichiara ai giudici di aver venduto a un misterioso compratore iraniano alcuni lingotti d’oro, ereditati dal padre contadino (il quale li avrà trovati zappando il Campo dei Miracoli). Primo premio (Faccissima di Tollissima) al consigliere milanese Milko Pennisi, arrestato mentre incassava una tangente da diecimila euro davanti al Comune. L’ho fatto, dice ora ai giudici, perché si avvicinava Natale e avevo bisogno di fare regali sempre più costosi ai miei familiari. Povera stella. Il dramma è che la sua, forse, non è neanche una bugia.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 6 maggio 2010

Dialoghiamo

È da ieri mattina che discuto, naturalmente a mia insaputa, con un lettore berlusconiano e uno dalemiano (giuro che sono due persone diverse). Nonostante a un certo punto entrambi mi abbiano mandato «a farmi fottere» (chissà dove avranno imparato a parlare così), tenterò di riaprire il dialogo.

Caro lettore berlusconiano, per il quale acquistare un appartamento senza denunciare l’intera cifra non rappresenta questo gran delitto, perché così fan tutti. L’accusa su cui è saltato Scajola non è di aver comprato in nero un ammezzato con vista sul Colosseo e sui cucinini di Raoul Bova e Lori Del Santo, ma di esserselo fatto comprare in nero da qualcun altro, per inciso da un tizio che traffica con gli appalti pubblici. Riesce a cogliere la differenza? E, nel caso, potrebbe spiegarla al condirettore de «Il Giornale» che l’altra sera a Ballarò metteva sullo stesso piano il regalino miliardario a un ministro della Repubblica con l’affitto a equo canone di D’Alema?

Ed eccomi a lei, lettore dalemiano che giustifica il linguaggio e le argomentazioni da trivio del suo notabile preferito con il disagio che qualunque animale a sangue caldo proverebbe davanti all’imperturbabile Sallusti, il vice di Feltri con ghiaccio. Ma il contatto con un iceberg può far perdere il controllo della barca a dei timonieri comuni come noi, non al Grande Skipper in persona. I politici sono pagati per essere migliori dei cittadini che li votano e dei giornalisti che li intervistano. Almeno in pubblico (in privato, sentite certe intercettazioni, ci abbiamo rinunciato).

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 4 maggio 2010

Big Sexy Noise

Perché gli strumenti vanno e vengono nel rock? Il sassofono, ad esempio, dove era finito? Parte Gospel Singer (scritta con Kim Gordon) e ritrovi quel suono stridulo, urbano, marchio New York City seconda metà anni '70 e più indietro, sempre NYC ma anni '40, zona luminosa Charlie Parker. Non lo sentivi più da tanto e ti vengono in mente le favolose giacchette vintage di James Chance live a Milano, molto tempo fa. E, naturalmente, ti viene in mente lei, sala della Provincia, sempre molti anni fa, coscia importante e calze brutalmente smagliate, che fanno pensare a cose violentissime che lei ha saputo gestire alla grande, ribaltando la situazione, prendendosi il suo piacere.
Questo disco è magnifico anche perché c'è tanta storia sonica dentro (e recentemente era successo solo con la smagliante Grace Jones…). E suona brutale, feroce e sexy, sexy proprio da epoca pre-Aids, tanto per dire: dark room, cessi e boschetti per tutti, magari veloci veloci, ma bene, con soddisfazione. Sei pezzi già apparsi su un mini lp a inizio anno e sei nuovi. Lei e i Gallon Drunk, elencati in copertina uno dopo l'altro, quattro musicisti a pari merito sotto la sigla Big Sexy Noise. Bello. Sono elettrici e spietati, con chitarre grasse, organo sixties, rullanti (ben) maltrattati e sassofono appunto. Alcune cover importanti, tanto per ricordarci da dove veniamo: Kill Your Sons di Lou Reed, superba, That Smell dei Lynyrd Skynyrd, felicità pura. E ci sono gli inediti: God Is a Bullet prende ispirazione da Charles Manson (ossessione della signora da parecchio tempo) ed è un potentissimo duetto con James Johnston, si apre con una dichiarazione fiera (“Dying is easy / it's living that scares me”) e suona come il meglio dei Birthday Party. Bad for Bobby è un blues con accensioni improvvise di piacere alternate a piacevolissimi titillamenti.
Doppi sensi? Lei con le dita umidicce ci ha sempre giocato, della pornografia ha fatto questione centrale della sua poetica. Titola i suoi pezzi Diggin the Hole (sfuriata free), Another Man Comin (While the Bed Is Still Warm) dopata di "wah wah". E chiude con una furia metal strepitosa, Doughboy. La bellezza, sta negli occhi di guarda. Nelle strade.

di Franco Capacchione; RollingStone

★★★★★

lunedì 3 maggio 2010

Che schifo

Permettetemi di comunicare tutto il mio disgusto nei confronti di questo provvedimento di merda, che, fra le altre cose, ci rende ancora più partecipi dell'idea di Stato: lo Stato del cazzo. Meglio di niente.

E' tutta una casta

Rocco Mastrogiulio è l’autista del presidente della provincia di Matera. Guida un’auto blu e due anni fa è rimasto senza patente: «Faccio 100 mila chilometri l’anno, prendere una multa non è difficile. Una volta la cintura, una volta la corsia preferenziale... Avevo finito i punti». Ha dovuto rifare l’esame, il signor Rocco. Ma se non ci saranno inversioni ad u in Parlamento, si risparmierà pure questa seccatura. A lui ed ai suoi colleghi la riforma del codice della strada all’esame del Senato regala la doppia patente. Oltre a quella privata, da usare nel tempo libero, avrà quella professionale, da tenere nel cruscotto quando guida per lavoro. Un privilegio per chi ogni giorno si mette al volante del simbolo del Privilegio. La patente professionale non è una novità assoluta. In Italia c’è già per gli autisti di camion ed autobus. Visto il tempo che passano al volante loro hanno una dote aggiuntiva di punti: oltre ai 20 che abbiamo tutti noi, altri 20 per le multe prese sul lavoro. Lo stesso meccanismo potrebbe essere utilizzato per gli autisti della auto blu. Ma non è detto. Finora la commissione del Senato ha solo introdotto il principio generale, a scendere nei dettagli sarà un decreto del ministero delle Infrastrutture. Gli autisti dei politici sono in attesa. E riuniti nell’apposita associazione, il Sindacato italiano degli autisti di rappresentanza di cui il nostro signor Rocco è vice presidente, sono convinti di incassare molto di più. Guidano senza cintura, superano i limiti di velocità? Pagano la multa (salvo ricorso) ma se viaggiano per lavoro di punti non ne perdono neanche uno. Nemmeno la scocciatura di trovare una zia pronta al sacrificio, come molti continuano a fare. Per loro, solo per loro, lo spauracchio dei punti sarebbe cancellato di colpo. Quante persone avrebbero questo privilegio?

Nella prima versione si parlava genericamente degli «autisti addetti ad organi istituzionali». Praticamente tutti, compresi quelli delle comunità montane (sì, ci sono) o del piccolo comune di provincia. Davvero troppo, pure in Senato l’hanno capito. Limatura, allora: solo gli autisti dei ministri. Ma dopo le proteste del sindacato di categoria, si è arrivati alla mediazione. Dentro ci sono gli autisti delle «alte cariche costituzionali» e poi dei presidenti di Regione, Provincia e dei Comuni capoluogo di provincia. In tutto 1.500. Tra loro c’è pure il nostro signor Rocco che tocca ferro. Non siamo al primo tentativo, infatti. Sono almeno cinque anni che il sindacato degli autisti prova a portare in Parlamento le sue richieste. Durante l’ultimo governo Prodi, lo staff dell’allora ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi aveva assicurato più volte il suo sostegno. Le lettere sono tutte lì, orgogliosamente sul sito internet del sindacato. Poi non se ne fece nulla. «Ma solo perché cadde il governo -assicura il signor Rocco- stavolta invece... ».

di Lorenzo Salvia; CORRIERE DELLA SERA

Cooperazione