Niente è più lontano da Clint Eastwood delle celebrazioni magniloquenti e delle lodi barocche dei cinefili che da sempre lo idolatrano. Per questo è facile immaginare che oggi, nel giorno dell’ottantesimo compleanno, davanti agli auguri di parenti, amici, fan, l’ottimo attore divenuto grande regista reagirà sfoderando uno dei suoi celebri, brevi sorrisi. Poche parole, economia di gesti e una straordinaria mimica facciale capace di comunicare al pubblico che il peggio sta per arrivare solo accentuando il solco di una ruga oppure raffreddando la luce degli occhi. Anche adesso, anche quando preferisce restare dietro la macchina da presa come nell’ultimo Invictus, Clint Eastwood è rimasto uomo di idee limpide e pensieri veloci. Lo sguardo sul mondo, che ai tempi degli spaghetti western e dell’ispettore Callaghan oscillava tra disgusto e commiserazione, è rimasto intransigente, ma ha acquistato il dono della pietà: «Di questi tempi essere ottimisti è dura, il mondo in cui viviamo è alla deriva. Per restare ottimista devi pensare che questo stato di cose finirà, nonostante tutto ti suggerisca il contrario».
Figlio della Grande Depressione, cresciuto senza fissa dimora perché la ricerca di lavoro spingeva il padre a cambiare continuamente città, Eastwood non ha mai avuto il fuoco sacro e, prima di scoprire il palcoscenico grazie a una professoressa dell’High School che lo fece esordire in una recita scolastica, aveva usato la corporatura imponente per primeggiare sui campi di basket: «Volevo diventare atleta, recitare non m’interessava affatto, nella commedia che mettemmo su per la scuola sbagliammo molte battute. Giurai che era la fine della mia carriera d’attore». Dopo la scuola venne il tempo dei mille mestieri, taglialegna, guardia forestale, operaio in un’acciaieria. Poi il fronte, durante la guerra in Corea, evitato grazie all’abilità di nuotatore. Invece di andare a sparare, il soldato Clint fu impegnato nella gestione di una piscina dell’esercito. La vera vita, quella che continua ancora adesso, inizia nel 1959, con Rawhide, western a episodi, in onda sulla Cbs, sulle avventure di un gruppo di cow-boys. Nel ‘64, durante una pausa della serie, arriva dall’Italia la sceneggiatura di Per un pugno di dollari: «Sergio Leone - sintetizzava Clint - mi ha messo un sigaro in bocca».
Il primo a stupirsi di quel grande successo europeo è lui stesso, e, quattro anni dopo, ormai lanciatissimo nelle parti di duro con l’anima, Eastwood capisce l’importanza dell’autonomia e crea la «Malpaso production», base per il futuro lavoro di regista e di produttore. Soprattutto modo per rimanere libero, facendo crescere, di pari passo con la carriera artistica, la coscienza politica di un conservatore con idee democratiche, di un ex-sostenitore di Richard Nixon e Arnold Schwarzenegger che s’interroga su temi come l’eutanasia e l’integrazione razziale, di un uomo che, a 80 anni, non ha mai perso la voglia di riflettere e stupirsi: «Tutti con l’età miglioriamo perché abbiamo raccolto un gran numero di esperienze professionali e di vita. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, e, finché mi capiterà tra le mani materiale interessante, andrò avanti». È accaduto con Gran Torino dove Clint, agli occhi dei fan che lo pedinano dagli esordi, è apparso come una specie di Dirty Harry in pensione. Laconico, irascibile, introverso, eppure pronto al massimo sacrificio: «Bisogna riconoscere che siamo un Paese di immigrati e che dobbiamo trovare una soluzione logica e sensibile ai problemi posti da questa realtà. Non si può fare finta di niente».
Con Invictus il miracolo si è ripetuto, anche se non c’è stata la pioggia di Oscar che aveva bagnato Million dollar baby e prima ancora, nel 1992, l’anti-western Gli spietati: «C’è una frase di Nelson Mandela in cui mi riconosco fortemente. Il passato è passato. Dobbiamo sempre guardare al futuro, a quelli che ci stanno intorno, al nostro Paese». Nei suoi progetti ora c’è il thriller sovrannaturale Hereafter e Hoover, biopic sul capo dell’Fbi. Continuare, sullo schermo e fuori, è l’augurio migliore per un uomo che sa bene quant’è bello fare quello che piace: «Oggi accetto più sfide che in passato, soprattutto mi considero fortunato, mi occuperò ancora di ciò che amo, finché non arriverà qualcuno che mi dirà di farmi da parte».
di Fulvia Caprara; LA STAMPA
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