lunedì 28 giugno 2010

L'evoluzione continua

L'ultima mutazione genetica del berlusconismo: il Bertoldo di Stato, lo stralunato compare, il finto tonto perfetto, il furbissimo sciocco che si nasconde dietro una disperante inadeguatezza e una imbranataggine comica, insomma il falso scemo che ci prende per scemi veri.

Ieri, per esempio, proprio quando era stato smascherato come simulatore dal capo dello Stato, si è meravigliato perché i cronisti insistevano a ficcare il naso nelle sue vicende, e ha detto al Tg3 che non è educato disturbare un brav'uomo la domenica, che forse è il giorno riservato alla contabilità delle mazzette e non certo alle domande dei giornalisti.

E ha aggiunto di non capire, il povero Brancher, perché non sfruculiano Lippi, che se le merita davvero, invece di importunare il povero neoministro di non si sa che cosa. Con un'aria da furfante gentiluomo che non sente rimorsi né prova vergogna ha sostenuto che gli italiani sfogano su di lui la rabbia per l'eliminazione dai Mondiali, che è una genialità da imbonitore, la "mossa" dello scugnizzo di Belluno.

Insomma, ascoltato in tv, Aldo Brancher non è più solo il presunto collettore della banda Bassotti, il sensale di Berlusconi e della Lega, ricompensato e soccorso con un ministero, ma è la perfezione del nuovo commis dello Stato italiano, quello che fa finta di non capire e di non sapere: "Che male c'è?". Come Scajola, che non si è accorto che gli compravano la casa; come Lunardi che spaccia per innocente favore l'impudicizia dell'affarismo; come Bertolaso che non si spiega mai e si indigna sempre. Come loro, anche Brancher non si è reso conto che l'hanno fatto ministro proprio quando il processo per appropriazione indebita è arrivato a dibattimento e quindi vicino alla sentenza. Se ne sono accorti tutti tranne lui.

Ma Brancher è il più bravo, sfoggia un'ingenuità da campagnolo, da Mister Bean della politica, da Chance il giardiniere, e ogni volta che parla regala suggestioni nuove, disorienta, spiazza come fosse un Dostoevskij della sceneggiata celtica: "Per idiota mi prendono tutti, non so perché...".

È ormai noto, fin nei dettagli, l'imbarazzante intreccio a proposito delle sue competenze ministeriali, le famose deleghe annunziate e ancora non assegnate, con il federalismo che è stato derubricato a decentramento, il tentativo di raggiro istituzionale e il trucco da magliaro ai danni del Capo dello Stato. Ebbene, ieri in tv Brancher invece che parare i colpi ha cercato di sferrarne, in nome di una onorabilità offesa: "È una vergogna", "sono sorpreso da tanta cattiveria", "le mie deleghe sono quelle scritte, andate a leggerle". Dove? "Sulla Gazzetta Ufficiale", è stata la sua sfrontata bugia.

Brancher sa che nessuno legge la Gazzetta Ufficiale, l'ha evocata per intimidire e per legittimarsi. Ma il punto è che la Gazzetta Ufficiale non ha ancora comunicato la sua nomina e quindi nemmeno le sue deleghe.
Una volta i ministri venivano scelti per competenza o per appartenenza politica, mai per ricompensare un silenzio complice e per sfuggire alla giustizia. Ma Brancher, che non vuole dimettersi, non è un cialtrone, non è pittoresco e si capisce benissimo che la combriccola che lo vuole ministro a tutti i costi ha più ragioni di temerlo che di premiarlo. Con le tasche piene di segreti si è umiliato sino a diventare il Bertoldo di Stato e ha conquistato sul campo i suoi gradi di ministro. All'Impresentabilità.

di Francesco Merlo; la Repubblica

domenica 27 giugno 2010

Io non ci sto

Nei giorni scorsi, abbiamo sentito e letto che "la Nazionale è lo specchio del Paese". E, in fondo, della Nazione. Lo spettacolo della sciagurata esperienza degli azzurri ai mondiali in Sudafrica: una metafora della società e, soprattutto, della classe dirigente italiana. Vecchia, senza capacità di innovare, di inventare qualcosa. Ripiegata su se stessa. Povera di identità.

E per questo incapace di affrontare una competizione aperta e dura con altre nazioni. Più giovani e affamate di successi. Vero, per la Nazionale. Ma il discorso si ferma lì. L'identità nazionale non ha a che fare con quella della Nazionale. La Nazionale di calcio non è lo specchio del Paese o della Nazione. Anche se si è soliti dire che gli italiani esibiscono l'orgoglio nazionale solo quando gioca la Nazionale. Conviene, semmai, invertire il ragionamento. Gli italiani, la società italiana: "usano" il calcio come specchio. Quando e se conviene loro. Alla ricerca di buoni motivi per stare insieme e per sentirsi soddisfatti. Per riconoscersi. A maggior ragione quando altri motivi latitano. Quando l'economia va male e il lavoro manca. Quando si diffida delle istituzioni e degli altri. Allora si è più pronti a sfilare dietro a una bandiera che prometta e permetta di vincere. E, al contempo, di sentirsi comunità, in una società sempre più individualizzata.

I mondiali di calcio, peraltro, costituiscono un'occasione unica. Perché si tratta di competizioni "inter - nazionali", dove le squadre "nazionali" si misurano "contro" le altre. Il che rende visibili gli elementi di eguaglianza e differenza impliciti nell'appartenenza territoriale. Sottolineati dalla bandiera, dall'inno, dalla maglia, dal tifo. Noi e gli altri. Noi contro gli altri. Amici e nemici (non avversari).

La svolta è avvenuta ai mondiali del 1970, nell'epica partita Italia - Germania, finita 4 a 3. Da allora è iniziata la ricerca di "momenti magici". Come ai mondiali del 1982 e del 2006. Occasioni per riunirsi con amici e altre persone, a vedere la partita. A casa, nei bar, di fronte a megaschermi. Per poi sciamare tutti quanti in strada e in piazza, in caso di vittoria. Offrendo (e assistendo a) spettacoli di entusiasmo collettivo. In cui ci si sente, all'improvviso, per una volta, italiani. Perché è bello vincere. Godere "insieme". Tanto più se negli altri momenti ci sentiamo soli. Se il successo arriva inatteso. Anzitutto da noi.

Naturalmente, il calcio è lo spettacolo che, più di altri, alimenta - e si alimenta - di identità e di appartenenza. Locale, urbana, regionale e non solo. In Italia il 50% delle persone tifa per una squadra. E, al tempo stesso, "contro" un'altra squadra (Sondaggio Demo - Limes, luglio 2008). Tra i più giovani la bandiera della squadra di calcio conta più di ogni altra. Politica, ma anche religiosa. È una "fede" più che una passione. Per questo la politica se ne è impadronita. A costo di ripetersi, come dimenticare l'esempio di Silvio Berlusconi, inventore della Nuova Politica e della Nuova Repubblica?

Nel 1994, proprietario e presidente del Milan, oltre che di Fininvest. Fonda un partito che si chiama "Forza Italia", organizzato attraverso i club. Definisce i suoi elettori: "azzurri". Un progetto post - ideologico, che definisce il Paese come una massa di tifosi, coinvolti in un campionato permanente, che si svolge sotto gli occhi di tutti, sui media. In chiaro o in pay - per - view.

Logico che il calcio, in una politica mediatizzata, sia divenuto il terreno dove si elaborano, creano, promuovono, scontrano le identità. Anche se la Nazionale non è la Nazione, viene usata per promuoverne oppure delegittimarne il significato. Secondo la convenienza. Come ha fatto, apertamente, la Lega, in questa occasione. Identificando - lei sì - la Nazionale con la Nazione. Per metterne in dubbio il fondamento. Così, Radio Padania ha "tifato contro". In seguito, Bossi si è detto certo che l'Italia (Nazione e nazionale) avrebbe "comprato" gli slovacchi, per vincere la partita e qualificarsi. (Nel calcio, si sa, queste cose succedono). Smentito dal risultato, ha usato l'eliminazione in senso "nazionalista". Recriminando sull'eccessiva presenza di stranieri. Nel campionato, ma, ovviamente, anche nella società italiana. (Varrebbe la pena di prendere sul serio questa critica, per allargare la rosa della nostra Nazionale, "etnicamente pura". Come avviene quasi ovunque.)

Negli ultimi anni, peraltro, anche Berlusconi sembra aver preso le distanze dal calcio. Ha smesso di investire nel Milan. Perché il Premier non può spendere cifre immense per i giocatori del suo club e chiedere, al tempo stesso, sacrifici ai cittadini. Poi, ha sciolto "Forza Italia" e gli "azzurri" (nel Popolo della Libertà). Forse, (anche) per ridurre i motivi di tensione con il fedele alleato "padano". Forse perché il calcio è diventato, nel frattempo, un'arena di guerra per bande. Localiste ed estremiste. Una piazza mediatica ingovernabile. Dove è impossibile coltivare un sogno "comune". Celebrare una storia "italiana".

La Nazionale, dunque, non è lo specchio della Nazione e neppure del Paese. Lo può diventare solo quando ai cittadini e alla classe dirigente "conviene" specchiarsi in essa. Cioè: se vince e (possibilmente) convince. Altrimenti, viene negata e rinnegata. Oppure ignorata. Come ieri, al ritorno degli azzurri, in aeroporto. Pochi tifosi, qualche insulto e molta indifferenza.

Noi, post-italiani (copyright di Berselli), per dirci e sentirci di nuovo italiani - e orgogliosi di essere tali - attenderemo un'occasione migliore.

di Ilvo Diamanti; la Repubblica

sabato 26 giugno 2010

Bontà sua

Incredibile forse, imprevedibile di sicuro. Eminem fa parlare di sé anche quando non dovrebbe, o meglio quando fa il buono, chiede scusa, si riabilita da droghe e veleni esistenziali. A molti è venuto il dubbio, ascoltando il nuovo album Recovery, già nel titolo intenzionalmente edificante: non sarà che una volta ripuliti, si diventa almeno per qualche tempo, noiosi? Di sicuro in passato è successo ad altri grandi del rock, vedi Lou Reed o David Crosby, nel senso che la riabilitazione necessita forse di tempo e agli inizi i risultati artistici sono scialbi, per non dire appassiti. Il caso di Eminem è diverso. Non gli manca la grinta e il video del nuovo singolo Not afraid lo mostra sfrontato e guascone come sempre, sul ciglio di un grattacielo, pronto a sfidare l'abisso. Ma i temi forse sì, sono noiosi e autoindulgenti.

Dunque Eminem è tornato, malgrado avesse annunciato un ritiro più o meno definitivo (ma come credergli a soli 37 anni?) e puntualmente scatena polemiche. Controverso lo è per vocazione, ma questa volta scatena dubbi per la profusione di scuse, per l'esagerata voglia di essere politicamente corretto, buono, ripulito. Se ne sentiva davvero il bisogno? Le reazioni sono state tra l'ironico e il perplesso: "È pulito ma un poco prosciugato", ha titolato l'International Herald Tribune e il New York Times ha fatto eco con un più pacato: "Eminem ribadisce i suoi valori essenziali", come dire, il rapper sarà anche diventato un bravo ragazzo, ma forse è molto meno interessante di prima. E in effetti questo nuovo, lunghissimo album (16 pezzi più una ghost track) è troppo lungo, poco innovativo, ampiamente auto-indulgente e infarcito di notazioni personali, come e più di prima, ma questa volta mirate a rimettere a posto, a dichiararlo innocente, limpido. In Talkin to myself chiede addirittura scusa ai fan, ammettendo in pratica che i due precedenti album non valgono granché: "Gli ultimi due album non contano. In Encore ero coinvolto dalle droghe, in Relapse le stavo sciacquando via. Ho qualcosa da dimostrare ai fan perché sento di averli abbandonati, per cui accettate le mie scuse, finalmente mi sento tornato alla normalità".

Il pezzo del resto si apre con le scuse globali: "Voglio solo ringraziare tutti di essere stati così pazienti". Possibile? Che compostezza, che squisita educazione. Eminem post-riabilitazione (dice di essere ripulito dalle pillole e altre droghe che qualche anno fa lo avevano quasi ucciso) sembra avere solo voglia di presentarsi come un uomo diverso, rinato, a posto. A sentire lui, erano le droghe a scatenare rancori e violenze e nel disco chiede scusa anche a Lil Wayne ("Ero geloso delle attenzioni che riceveva") e Kanye West per averli pesantemente insultati in passato. Non pago, ha anche invitato Lil Wayne a duettare con lui in un altro pezzo che si intitola No love. A completare una lista di ospiti che comprende anche Kobe, Pink e perfino Rihanna, che solo pochi mesi fa (prima della conversione) avrebbe certamente trattato in malo modo. Nell'inatteso buonismo del nuovo corso Eminem rivela che in fondo alla base di tutto c'era la paura di essere superato da altri protagonisti (cosa del resto avvenuta) dopo essere stato agli inizi del millennio la più clamorosa rivelazione - e oltretutto bianca - del rap, capace di arrivare molto oltre i confini del genere e diventare una star galattica.

Tutte queste cose le dice nei pezzi del nuovo album, coerente in questo con la cultura rap e con la sua personale attitudine a mescolare arte e vita senza barriere. Ma ovviamente esagera, come ha osservato la stampa di tutto il mondo: "Molte battaglie rap coinvolgono altri rapper" ha scritto il Telegraph, "Eminem suona come se stesse combattendo una battaglia con se stesso". "Un ragazzo perso nei labirinti della sua stessa psiche" scrive Rolling Stone pur continuando ad ammirare la sua stupefacente affabulazione, che non ha convinto del tutto The Guardian che invece puntualizza: "Fare la rima nel pezzo Not afraid tra "through a storm" e "whatever weather/cold or warm" è imperdonabile per una maestro di rima". Il disco trabocca di bontà, e solo di tanto in tanto s'avventura in sfrenati versi ritmici che ricordano l'Eminem degli esordi e lambiscono temi più spumeggianti. A prevalere è la voglia di riabilitazione, anche fuori del disco.

Un anno fa era stato di nuovo al centro di polemiche per aver bollato alcuni artisti omosessuali come "fuckin gots", e peggio di così non avrebbe potuto esprimersi. Ma anche su questo ha pensato di fare marcia indietro. A modo suo, cioè non del tutto. Al New York Times ha precisato in questi giorni: "Penso che se due persone si amano, beh, qual è il problema? Ognuno dovrebbe avere il diritto di essere ugualmente miserabile, se lo desidera. È il mio nuovo io tollerante, il mio sguardo sulle cose è molto più maturo di prima". Solo che a furia di chiedere scusa, ci si domanda, cosa resterà delle multiple personalità di Marshall Bruce Mathers III, alias Slim Shady, alias Eminem?

di Gino Castaldo; la Repubblica

Illegittimo impedimento

E’ irrituale il comunicato di Napolitano sul caso Brancher? Può darsi; ma certamente è fuori da ogni rito democratico che un ministro senza ministero, prima ancora di capire quale sia il suo daffare nel governo, mandi a dire ai propri giudici che ha troppo da fare, verrà in tribunale un’altra volta. Trasformando il sospetto in una prova, quanto alle ragioni della sua fulminea nomina. E soprattutto trasformando il legittimo impedimento in un’onda collettiva di legittima indignazione, come ha scritto Cesare Martinetti su questo giornale. Di tale sentimento il Presidente non può che farsi interprete, nel suo ruolo di custode di valori etici, oltre che giuridici. Anche il diritto, però, vuole la sua parte. E almeno in questo caso il diritto sta dalla parte del nostro Presidente. La legge n. 51 dello scorso 7 aprile - che ha introdotto questa via di fuga dalle aule giudiziarie per il premier e per i suoi ministri - stabilisce che il legittimo impedimento può essere invocato quando altrimenti verrebbe ostacolata una funzione di governo. Nel suo tenore letterale, l’art. 1 della legge non distingue fra ministri con dicastero ovvero senza portafoglio. Aggiunge tuttavia che l’attività ministeriale dev’essere di volta in volta disciplinata da una norma, non dai desideri dell’interessato.

Quale specifica attività ministeriale impedisce al neoministro di presentarsi in tribunale? E qual è la specifica norma che la regola? C’è poi un’ultima questione, sempre in punta di diritto. La legge parla di «legittimo» impedimento, non d’impedimento «assoluto». Il primo è sindacabile dal giudice, il secondo no. Significa che un’interpretazione costituzionalmente orientata può temperare le due esigenze in gioco - quelle del governo e quelle della giustizia - senza sacrificare troppo l’ultima alla prima. Significa perciò che ogni magistratura giudicante potrà ben valutare se l’impedimento è davvero «legittimo», ossia conforme alle leggi sull’attività ministeriale. Ecco, è questo il senso del comunicato che abbiamo letto ieri. Un avallo interpretativo - il più autorevole, anche perché dettato da chi presiede il Consiglio superiore della magistratura - verso letture compatibili con la Costituzione, quando si tratta di applicare questa legge travagliata. Poi spetterà ai giudici l’ultima parola.

di Michele Ainis; LA STAMPA

Legittimo impedimento (II)

«Mi alzo alle sette e mezzo, caffè, un paio di telefonate, doccia, un salto in ufficio, leggo i giornali, pranzo d'affari, riposino, altre due telefonate, breve riunione, cena fuori, finalmente a letto. Ditemi voi dove lo trovo il tempo per farmi processare?».

di Jena; LA STAMPA

giovedì 24 giugno 2010

Corsi e ricorsi

E' uno scontro da libri del Novecento. Le guerre, Londra e Berlino rase al suolo dalle bombe. Poi pace o qualcosa di simile. La Germania sconfitta è più lesta dei vincitori a risistemare la propria economia. In Inghilterra sono anni duri. Gli inglesi scoprono l'incomunicabilità fra i ceti. Scatta l'immigrazione massiccia perché c'è bisogno di manodopera. Nel cinema e nel teatro gli "angry young men" descrivono un mondo paralizzato interiormente. La Germania riprenderà il tema una ventina d'anni dopo con Wenders. Il primo segnale di un'Europa più (stra)paese, dove viaggiare e sentirsi a casa lontano da casa non erano più delle chimere, lo lanciano i Beatles che si fanno le ossa ad Amburgo. Poi arrivano Bobby Moore e Uwe Seeler. Inghilterra-Germania è come Italia-Brasile. E' una partita di cui il mondo del calcio, non soltanto le nazioni coinvolte, sente il bisogno. Ogni tanto Inghilterra-Germania si deve giocare.

IL PASSATO
Evitare di parlare di Inghilterra-Germania con Southgate. E' una foto leggendaria, quella del suo visto attonito, con gli occhi che guardano fisso un punto che non esiste, sospeso fra la gente di Wembley e il fallimento: "Bewteen nowhere and the goodbye". Fra il nulla e l'addio. Southgate sbagliò il rigore che tolse all'Inghilterra la finale degli Europei '96. L'avrebbe giocata in casa contro la Repubblica Ceca di Nedved. E forse l'avrebbe vinta come la vinsero i tedeschi spinti da Bierhoff. Una delle tante sfide andate di traverso a una delle due parti. Una delle tante rivincite della finale mondiale di Wembley del '66, il primo mondiale ad avere una mascotte (il leone Willie) e l'ultimo ad essere trasmesso in bianco e nero: la partita degli uomini del West Ham (Moore, Peters, Hurst) e del primo gol fantasma della storia del calcio. Ricordate? Nel primo tempo segna Haller, pareggia Hurst, nel secondo raddoppia Peters e quando lo stadio ha già cominciato a intonare "Rule Britannia", a pochi secondi dalla fine, Weber sfrutta una papera di Banks e manda un'intera nazione ai supplementari. Poco prima quella specie di Woody Allen che era Nobby Stiles, il cattivo del centrocampo inglese, per poco non prendeva a pugni l'arbitro, lo svizzero Dienst. Dei due gol di Hurst che chiudono il match il primo è il "fantasma di Wembley", palla che sbatte sotto la traversa e rimbalza a terra (fuori). L'arbitro non sa che pesci pigliare. Ha tutto contro. Per condizionarlo gli inglesi si abbracciano e i tedeschi lo accerchiano. A toglierlo dall'imbarazzo provvede pensa un baffuto segnalinee l'azero, Tofik Bakhramov che più paura che per convinzione si mette a correre verso il centro del campo.

Il 4-2 arriva al 120'. Si racconta sempre volentieri, è un romanzo di mezzora, come Italia-Germania, e le sue pagine fatte di fotogrammi sfuocati vi aspettano su youtube. Non era gol. I meno giovani fra i maligni ancora ricordano: "Battuti dall'ingiustizia e da una riserva che ha segnato tre gol in una finale mondiale!". I tedeschi ogni volta ci ripensano. Anche quando ritrovano l'Inghilterra nei quarti al mondiale messicano del '70, nel piccolo stadio di Léon. L'Inghilterra sembra un rullo: avanti 2-0 con Mullery e Peters (ancora lui). Ma la Germania ha una caratteristica fondamentale: che non muore mai. E' il suo bello, con chiunque giochi. La Germania c'è sempre. Nel secondo tempo pareggia con Beckenbauer e Seeler. Altri supplementali. La vita è un supplementare. Al 3' del secondo tempo supplementare spunta Müller. Vendetta compiuta. Poi sarebbe arrivata l'Italia. A Italia '90 Inghilterra-Germania è la semifinale. Stavolta i supplementari neppure bastano. Si gioca a Torino, 1-1 nei tempi regolamentari (Brehme e Lineker), Pearce e Waddle sbagliano i rigori. La Germania vincerà il titolo. Un'altra partita da ricordare, inattesa, un 1-5 rifilato dagli inglesi ai tedeschi a Monaco di Baviera nel 2001, qualificazioni mondiali, con tripletta di Owen. I ct: da una parte Rudi Voeller, dall'altra Sven Goran Eriksson.

IL PRESENTE
"Pensi a far battere i rigori", suggeriscono i tabloid a Capello". Pensi a giocarsela bene piuttosto. "Arriva troppo presto", chiosa Beckenbauer. "Un ritrovarsi fra vecchi amici", dice la stampa tedesca. Di sicuro questo mondiale aveva bisogno di un ottavo del genere. Una scossa forte che però comporterà l'alto costo che una della grandi già domenica andrà a casa. Il presente di Inghilterra e Germania, col loro personalissimo vissuto di 40 anni di polemiche, supplementari e grandi giocate, è fatto da squadre concepite in modo quasi diametralmente opposto. Capello ha da gestire un "undici" composto da almeno cinque campioni assoluti seguiti da una discutibile serie di possibili ricambi dei titolari. E Ferdinand ha dovuto tornare a casa. Loew ha un gruppo compatto, senza fenomeni (ma Mesut Ozil è un grande giocatore non soltanto in prospettiva), ma saldo, consapevole, capace di sfruttare quell'organica tendenza nazionale a non mollare mai che è il vanto della Germania del calcio (e non solo). Capello sa che se Rooney si sblocca sono dolori. Ma sono dolori per l'Inghilterra se non lo dovesse fare. Capello sa anche che Lampard non è al massimo della condizione il che però non esclude che possa migliorare, che Barry è un grande saggio soltanto davanti alla difesa ma essendo nato terzino ha scarsa propensione per la costruzione e la finalizzazione del gioco. Gli manca il supporto delle ali piccole perché Wright-Phillips e Lennon si sono rivelati inadatti soprattutto sotto il profilo psicologico. Milner ha giocato un ottimo match contro la Slovenia e Gerrard è l'unico che funziona a pieno ritmo, lavorando pure troppo. Dietro Terry e Carragher (o Upson). Ashley Cole però è un mezzo spettro. Loew invece sprona i suoi come guidasse una classe di ragazzi che rimediano sempre 6,5/7 ai compiti in classe. Hanno perso contro la Serbia, i tedeschi, ma possono recriminare per l'assurda espulsione di Klose. Con Australia e Ghana hanno confermato di essere soggetti nati per esprimere robustezza e rapidità. L'estro di Ozil al servizio di Mueller, Podolski, Klose (o Cacau). Il valore aggiunto è la cerniera di Khedira e Schweinsteiger. La partita la faranno gli inglesi, la Germania aspetterà per innescare Ozil. Ma se il ritmo è basso e se né Rooney né Lampard troveranno la forza interiore per esprimere forza esteriore, Capello rischia di impastarsi là in mezzo, nella palude del centrocampo. E a quel punto dal bosco usciranno i Nibelunghi.

di Enrico Sisti; la Repubblica

Ne abbiamo abbastanza

Non amo fare di tutta l'erba un fascio, ma i politici parlino il meno possibile di calcio, e i leghisti vadano a cagare. E tacciano per sempre.

Il giocattolo K.O.

Gli eroi del '98 sono diventati dodici anni dopo i reietti: impostori, egoisti, maleducati, mascalzoni, scervellati. Prima ancora che venissero sconfitti dai sudafricani a Bloemfontein, e quindi esclusi dai mondiali, Le Figaro riassumeva così l'indignazione generale nei confronti dei giocatori francesi: sono la nostra vergogna e non dovremmo più accettare che portino i nostri colori. Insomma sono dei traditori, degli ingrati, dei felloni. Tanta collera per una sconfitta sportiva, sia pur mondiale, in una società depositaria del razionalismo, può stupire. È vero che il calcio, più di qualsiasi altro sport, suscita in chi lo segue con spirito partigiano forti emozioni oscillanti tra gioia e tristezza, noia e ammirazione, quindi esaltazione e indignazione. Ma la super giacobina collera francese di queste ore non è soltanto dovuta alle sconfitte agonistiche subite in Sudafrica, nel giro di pochi giorni, e dopo tante speranze. Il 2010 ha mandato in frantumi quello che nel 1998 sembrò un incantesimo. E cioè la felice illusione di un'integrazione riuscita degli immigrati nella società che pareva inquinata dalla xenofobia (sconfinante nel razzismo con il Front National) e quindi dalla discriminazione. Nel mondo del football la Francia non aveva sempre brillato. Spesso aveva deluso. Era una media potenza. Non aveva la stessa storia del Brasile, della Germania, dell'Italia. Ma nel '98 superò i tre grandi e vinse la coppa del mondo. Fu un delirio. Fu il trionfo dei giocatori magrebini, cittadini di seconda classe nella società, ma campioni ineguagliati negli stadi. Erano loro gli artefici della vittoria. Il giovane Zidane era il fuoriclasse che aveva dato prestigio alla Francia. E la Francia era riconoscente. Quel giorno di luglio le bandiere algerine si confondevano con quelle tricolori sui Campi Elisi. Portato dalla folla, in gran parte algerina, mi ritrovai nei corridoi del palazzo dell'Eliseo, del quale Jacques Chirac, allora presidente, aveva fatto spalancare le porte. E sulla soglia del suo ufficio accolse sorridendo una ragazza kabila. Kabila come Zidane. Una ragazza avvolta nei colori del Fronte di Liberazione Nazionale, che prima di diventare quelli dell'Algeria indipendente, erano stati il simbolo della lotta contro la Francia coloniale. Chirac cavalcò l'avvenimento con slancio e abilità. Fu generoso. La generosità è assente nel 2010. Gli immigrati o i figli di immigrati, anche se non più di origine magrebina, ma di colore, erano altrettanto numerosi nella squadra nazionale. Questa volta tuttavia il loro comportamento, non soltanto in campo, durante le partite, ha sollevato collera, indignazione, improperi, e originato una delusione, che, nell'iperbole trionfante, è stata paragonata a quella provocata da infausti avvenimenti della storia nazionale. Battaglie vere perdute o addirittura guerre altrettanto vere e perdute. Roselyne Bachelot, ministro dello Sport mandata a Johannesburg da Nicolas Sarkozy in persona, ha parlato di "catastrofe". Un filosofo appassionato di calcio e fedele alle tradizioni, Alain Finkielkraut, ha messo in discussione la composizione sociale ed etnica dell'équipe de France. Ha scritto al colmo dell'indignazione che se la «squadra non rappresenta la Francia, purtroppo la riflette: con i suoi clans, le sue divisioni etniche, la sua persecuzione dei cittadini esemplari». È un terribile specchio in cui il Paese può guardarsi. E ha concluso suggerendo che nel futuro sia formata una «squadra di gentlemen». La disfatta sportiva ha assunto connotati sociologici. Dodici anni dopo i giocatori scesi in campo in Sudafrica non sono più degli eroi, ma i degradati prodotti della storia delle banlieues, e quindi della segregazione sociale e urbana. Uno dei giocatori, Nicolas Anelka, quello che avrebbe detto a Raymond Domenech, negli spogliatoi, durante la pausa della partita col Messico, « Va te faire enculer sale fils de pute », viene da Trappes, nella periferia parigina. E sempre dalle porte della capitale, Les Ulis, vengono Evra e Henry, due altri giocatori. Mentre Abidal è cresciuto a La Duchère, vicino a Lione. La loro conversione all'Islam è avvenuta spontaneamente, tramite le frequentazioni di quartiere, o i legami coniugali. È il caso di Franck Ribéry, francese di Bologne-surMer, diventato musulmano con il nome di Bilaf Yusuf Mohammed, per avere la stessa religione della moglie. Nonostante la straordinaria ascesa sociale (e i cospicui guadagni dieci e più milioni di euro all'anno), quei giocatori non hanno reciso del tutto i rapporti con il mondo delle banlieues, e la loro adesione all'Islam li ha resi sensibili alla storia coloniale, che non è proprio quella imparata nelle scuole francesi. Eric Abidal, ad esempio, un martinichese, non canta mai la Marsigliese, quando la squadra nazionale è schierata sul campo, prima della partita. E ha spiegato il perché: «Ho studiato le parole dell'inno e non mi vannoa genio. Rappresento la Francia, sono felice di essere francese ma quell'inno non mi va. Non mi riguarda». Quando, dopo gli insulti negli spogliatoi all'allenatore Domench (insulti rivelati dal quotidiano l'Equipe ), sono esplose le polemiche, e i giocatori hanno rifiutato di partecipare all'allenamento, la Francia si è indignata. È allora che sono esplosi gli insulti e che si sono moltiplicate le accuse di fellonia, di tradimento. Chi rappresentava la nazione a un appuntamento mondiale non poteva scioperare. E se scioperava significava che non aveva coscienza di rappresentare la Francia. Non era insomma un patriota. Era un traditore. E per di più si rivelava incapace negli stadi e rivestito dei colori francesi veniva umiliato sotto gli occhi del mondo. È stato come se l'integrazione annunciato nel '98 si fosse rivelata un'illusione. E la società multietnica rivelasse la crisi che la tormenta.

di Bernardo Valli; la Repubblica

Ghe pensi mi

mercoledì 23 giugno 2010

Ma esiste o no?

Maturità(?)

Mussolini? Un leader, con gli altri, tra gli altri. Così appare in mezzo a un'insalata mista di statisti italiani e di papi nella traccia più politica fra tutte quelle proposte agli esami di maturità. La traccia ha il tema conduttore del "ruolo dei giovani nella storia e nella politica". E introduce brani di discorsi sotto il titolo "Parlano i leader". Che cosa è un leader, il vocabolario Zingarelli che ho sott'occhio lo spiega così: "Capo di un partito o di un movimento politico di indiscusso prestigio". Indiscusso il prestigio di Mussolini? La traccia è completata da una frase fra tutte celebre, più di tutte esecrabile nella storia di un regime nato da un delitto: è quella tratta dal discorso pronunciato da Mussolini il 3 gennaio 1925 alla Camera. Questo è il discorso del leader proposto alla riflessione e all'ammirazione dei giovani. E' proprio quello della pagina più cupa e più truce della storia italiana: la rivendicazione della responsabilità personale di Mussolini nell'assassinio di Matteotti. Fu il discorso di un capobanda, di colui che si dichiarò capo di un'organizzazione a delinquere.

Questo e non altro dicono le frasi selezionate dagli esperti del ministero. Ora, se questo è un leader di indiscusso prestigio, è inevitabile che dalla memoria del paese e dalle menti dei suoi giovani scompaia l'ombra nobilissima di Matteotti. Il suo nome evocava finora una delle presenze più sacre della storia e della politica italiana del '900. Quel nome riassumeva da solo le virtù politiche del leader degno di essere ammirato e ricordato in un paese dove le regole democratiche sono state reintrodotte solo al termine di un conflitto mondiale, al prezzo di infiniti sacrifici e dolori, riemergendo a fatica dall'abisso della vergogna e della corruzione di ogni ordine civile. Se ha senso l'esistenza di una scuola pubblica come palestra di trasmissione di valori e formazione di una maturità civile e politica, il nome di Matteotti è quello che emerge dal bilancio storico del '900 italiano come il più degno in assoluto di essere ricordato: ci sono frasi del suo discorso parlamentare che sono scolpite nei luoghi di memoria del paese e che gli garantiscono l'indiscusso ruolo di vero leader nella nostra storia politica. Su testi come quelli i giovani possono imparare a esercitare i loro diritti e doveri di cittadini nella repubblica democratica e costituzionale dove credevamo di vivere. In tempi in cui la corruzione degli ordinamenti pubblici e dei comportamenti privati deprime ogni voglia di partecipazione onesta alla cosa pubblica, si dovrebbe riproporre alla conoscenza delle giovani generazioni non l'assassino ma l'assassinato.

La pagina scritta da questa proposta rappresenta un salto di qualità nella storia della scuola pubblica italiana di cui sarebbe sbagliato non registrare l'importanza. Abbiamo lamentato finora che a questa scuola sia stato imposto un regime di tagli tali da avvilire in tutte le forme la figura dell'insegnante e da far sbiadire l'offerta della scuola pubblica come luogo germinale della coscienza civile. Ma oggi per la prima volta è stata data una sterzata netta immettendo tra i modelli di testi su cui da oggi in poi si eserciteranno preventivamente i candidati all'esame di maturità il più ignobile tra tutti i documenti della nostra storia.
Nelle tracce di storia si accosta un brano di Primo Levi a una domanda di riflessione storica sulla vicenda delle foibe. Si tratta di una proposta che si presenta sotto il segno di una complicata bilancia politica: su di un piatto la violenza dei lager nazisti, sull'altro la violenza dei partigiani comunisti. Che poi si possa fare un ottimo lavoro seguendo sul serio la traccia delle foibe è un altro discorso: sappiamo infatti quanto lavoro sia stato fatto dagli esperti su questo tema, seguendo sui tempi lunghi il filo conduttore della tragica storia dei nazionalismi scatenati al confine orientale d'Italia con la fine dell'Austria imperiale.

La letteratura sull'argomento è ricchissima: ma i nomi di studiosi come Enzo Collotti, Gianni Oliva, Joze Pirjevec (a sua cura il recentissimo Foibe, Einaudi 2009) sono rimasti al di fuori del mondo della scuola per la povertà delle biblioteche scolastiche e per la cancellazione di ogni forma di aggiornamento dei docenti: e forse sono ignorati dagli esperti anche perché sospetti di essere di sinistra. Di fatto la ricerca di un velo bi-partigiano e ambidestro qual è quello che copre le due tracce non è certo un "rappresentare tutta l'Italia". Misera Italia quella a cui si dà in pasto alla sinistra una pagina purchessia col nome del grandissimo, asciutto e severo testimone della Shoah; e si dà alla destra un colpo di grancassa sul tema che da tempo è il cavallo della propaganda contro gli eterni "comunisti" della maniacale ossessione berlusconiana.

di Adriano Prosperi; la Repubblica

Siamo d'accordo, Pomigliano?

1) Orario di lavoro
La produzione della futura Panda si realizzerà con l'utilizzo degli impianti di produzione per 24 ore giornaliere e per 6 giorni la settimana, comprensivi del sabato, con uno schema di turnazione articolato a 18 turni settimanali.

L'attività lavorativa degli addetti alla produzione e collegati (quadri, impiegati e operai), a regime ordinario e ferma la durata dell'orario individuale contrattuale, sarà articolata su tre turni giornalieri di 8 ore ciascuno a rotazione, secondo i seguenti orari:
•primo turno dalle ore 6.00 alle ore 14.00, con la mezz'ora retribuita per la refezione dalle ore 13.30 alle ore 14.00;
•secondo turno dalle ore 14.00 alle ore 22.00, con la mezz'ora retribuita per la refezione dalle ore 21.30 alle ore 22.00;
•terzo turno dalle ore 22.00 alle ore 6.00 del giorno successivo, con la mezz'ora retribuita per la refezione dalle ore 5.30 alle ore 6.00.
La settimana lavorativa avrà pertanto inizio alle ore 6.00 del lunedì e cesserà alle ore 6.00 della domenica successiva.

Lo schema di orario prevede il riposo individuale a scorrimento nella settimana.
L'articolazione dei turni avverrà secondo lo schema di turnazione settimanale di seguito indicata: 1° - 3° - 2°

Il 18° turno, cadente tra le ore 22.00 del sabato e le ore 6.00 del giorno successivo, sarà coperto con la retribuzione afferente la festività del 4 Novembre e/o con una/due festività cadenti di domenica (sulla base del calendario annuo), con i permessi per i lavoratori operanti sul terzo turno maturati secondo le modalità previste dall'accordo 27 Marzo 1993 (mezz'ora accantonata sul terzo turno per 16 turni notturni effettivamente lavorati pari a 8 ore) e con la fruizione di permessi annui retribuiti (P. A. R. contrattuali) sino a concorrenza.

Le attività di manutenzione saranno invece svolte per 24 ore giornaliere nell'arco di 7 giorni la settimana per 21 turni settimanali. L'attività lavorativa degli addetti (quadri, impiegati e operai), a regime ordinario, sarà articolata su 3 turni strutturali di 8 ore ciascuno, con la mezz'ora retribuita per la refezione nell'arco del turno di lavoro a rotazione e con riposi individuali settimanali a scorrimento.

L'orario di lavoro giornaliero dei lavoratori addetti al turno centrale (quadri, impiegati e operai) va dalle ore 8.00 alle ore 17.00, con un'ora di intervallo non retribuito.

Per i quadri e gli impiegati addetti al turno centrale si conferma l'attuale sistema di flessibilità dell'orario di lavoro giornaliero (orario in entrata dalle ore 8 alle ore 9 calcolato a decorrere dal primo dodicesimo di ora utile). In alternativa, su richiesta delle Organizzazioni Sindacali nel caso in cui intendessero avvalersi della facoltà di deroga a quanto previsto dal D. Lgs. 66/2003 e successive modifiche e integrazioni in materia di riposi giornalieri e settimanali.

Lo schema di orario per lo stabilimento prevede, a livello individuale, una settimana a 6 giorni lavorativi e una a 4 giorni. L'articolazione dei turni avverrà secondo lo schema di turnazione settimanale di seguito indicata: 3° - 2° - 1°
Nella settimana a 4 giorni saranno fruiti 2 giorni consecutivi di riposo secondo il seguente schema:
- lunedì e martedì
ovvero
-mercoledì e giovedì
ovvero
-venerdì e sabato.

Preso atto delle richieste da parte delle Organizzazioni Sindacali dei lavoratori, al fine di non effettuare il 18° turno al sabato notte, lo stesso viene anticipato strutturalmente alla domenica notte precedente. Pertanto il riposo settimanale domenicale avviene dalle ore 22 del sabato alle ore 22 della domenica.

2) Lavoro straordinario
Per far fronte alle esigenze produttive di avviamenti, recuperi o punte di mercato, l'azienda potrà far ricorso a lavoro straordinario per 80 ore annue pro capite, senza preventivo accordo sindacale, da effettuare a turni interi.

Nel caso dell'organizzazione dell'orario di lavoro sulla rotazione a 18 turni, il lavoro straordinario potrà essere effettuato a turni interi nel 18° turno, già coperto da retribuzione secondo le modalità indicate al capitolo orario di lavoro, o nelle giornate di riposo.

L'Azienda comunicherà ai lavoratori, di norma con 4 giorni di anticipo, la necessità di ricorso al suddetto lavoro straordinario e terrà conto di esigenze personali entro il limite del 20% con sostituzione tramite personale volontario.

Con accordo individuale tra azienda e lavoratore, l'attività lavorativa sul 18° turno potrà essere svolta a regime ordinario, con le maggiorazioni del lavoro notturno: in tal caso non si darà corso alla copertura retributiva collettiva del 18° turno.

Il lavoro straordinario, nell'ambito delle 200 ore annue pro capite, potrà essere effettuato per esigenze produttive, tenuto conto del sistema articolato di pause collettive nell'arco del turno, durante la mezz'ora di intervallo tra la fine dell'attività lavorativa di un turno e l'inizio dell'attività lavorativa del turno successivo. In questo caso la comunicazione ai lavoratori del lavoro straordinario per esigenze produttive saranno effettuate con un preavviso minimo di 48 ore.

3) Rapporto diretti-indiretti
Con l'avvio della produzione della futura Panda e in relazione al programma formativo saranno riassegnate ai lavoratori le mansioni necessarie per assicurare un corretto equilibrio tra operai diretti e indiretti, garantendo ai lavoratori la retribuzione e l'inquadramento precedentemente acquisiti, anche sulla base di quanto previsto dall'art. 4, comma 11, Legge 223/91. Inoltre, a fronte di particolari fabbisogni organizzativi potrà essere richiesto ai lavoratori, compatibilmente con le loro competenze professionali, la successiva assegnazione ad altre postazioni di lavoro.

4) Bilanciamenti produttivi
La quantità di produzione prevista da effettuare per ogni turno, su ciascuna linea, e il corretto rapporto produzione/organico saranno assicurati mediante la gestione della mobilità interna da area ad area nella prima ora del turno in relazione agli eventuali operai mancanti o, nell'arco del turno, per fronteggiare le perdite derivanti da eventuali fermate tecniche e produttive.

5) Organizzazione del lavoro
Per riportare il sistema produttivo dello stabilimento Giambattista Vico alle migliori condizioni degli standard internazionali di competitività, si opererà, da un lato, sulle tecnologie e sul prodotto e, dall'altro lato, sul miglioramento dei livelli di prestazione lavorativa con le modalità previste dal sistema WCM e dal sistema Ergo-UAS.

Le soluzioni ergonomiche migliorative, derivanti dall'applicazione del sistema Ergo-UAS, permettono, sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo, nell'arco del turno di lavoro, che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti ciascuna. Sui tratti di linea meccanizzata denominati "passo - passo", in cui l'avanzamento è determinato dai lavoratori mediante il cosiddetto "pulsante di consenso", le soluzioni ergonomiche migliorative permettono un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo o individuale a scorrimento sulla base delle condizioni tecnico-organizzative, che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti ciascuna. Per tutti i restanti lavoratori diretti e collegati al ciclo produttivo le soluzioni ergonomiche migliorative permettono la conferma della pausa di 20 minuti, da fruire anche in due pause di 10 minuti ciascuna in modo collettivo o individuale a scorrimento.

Con l'avvio del nuovo regime di pause, i 10 minuti di incremento della prestazione lavorativa nell'arco del turno, per gli addetti alle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo e per gli addetti alle linee "passo-passo" a trazione meccanizzata con "pulsante di consenso", saranno monetizzati in una voce retributiva specifica denominata "indennità di prestazione collegata alla presenza".

L'importo forfetario, da corrispondere solo per le ore di effettiva prestazione lavorativa, con esclusione tra l'altro delle ore di inattività, della mezz'ora di mensa e delle assenze la cui copertura retributiva è per legge e/o contratto parificata alla prestazione lavorativa, per tutti gli aventi diritto, in misura di 0,1813 euro lordi ora. Tale importo è onnicomprensivo ed è escluso dal TFR, dal momento che, in sede di quantificazione, si è tenuto conto di ogni incidenza sugli istituti legali e/o contrattuali e pertanto il suddetto importo forfetario orario è comprensivo di tutti gli istituti legali e/o contrattuali.

6) Formazione
E' previsto un importante investimento in formazione per preparare i lavoratori e metterli in condizioni di operare nella nuova realtà produttiva. Le attività formative si svolgeranno contemporaneamente alla ristrutturazione degli impianti e saranno fortemente collegate alle logiche WCM. I corsi di formazione saranno tenuti con i lavoratori in cigs e le Parti convengono fin d'ora che la frequenza ai corsi sarà obbligatoria per i lavoratori interessati. Il rifiuto immotivato alla partecipazione nonché l'ingiustificata mancata frequenza ai corsi, oltre a dar luogo alle conseguenze di legge, costituirà a ogni effetto comportamento disciplinarmente perseguibile.

Non sarà richiesto a carico Azienda alcuna integrazione o sostegno al reddito, sotto qualsiasi forma diretta o indiretta, per i lavoratori in cigs che partecipino ai corsi di formazione.

7) Recuperi produttivi
Le perdite della produzione non effettuata per causa di forza maggiore o a seguito di interruzione delle forniture potranno essere recuperate collettivamente, a regime ordinario, entro i sei mesi successivi, oltre che nella mezz'ora di intervallo fra i turni, nel 18° turno (salvaguardando la copertura retributiva collettiva) o nei giorni di riposo individuale.

8) Assenteismo
Per contrastare forme anomale di assenteismo che si verifichino in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche, quali in via esemplificativa ma non esaustiva, astensioni collettive dal lavoro, manifestazioni esterne, messa in libertà per cause di forza maggiore o per mancanza di forniture, nel caso in cui la percentuale di assenteismo sia significativamente superiore alla media, viene individuata quale modalità efficace la non copertura retributiva a carico dell'azienda dei periodi di malattia correlati al periodo dell'evento. A tale proposito l'Azienda è disponibile a costituire una commissione paritetica, formata da un componente della RSU per ciascuna delle organizzazioni sindacali interessate e da responsabili aziendali, per esaminare i casi di particolare criticità a cui non applicare quanto sopra previsto.

Considerato l'elevato livello di assenteismo che si è in passato verificato nello stabilimento in concomitanza con le tornate elettorali politiche, amministrative e referendum, tale da compromettere la normale effettuazione dell'attività produttiva, lo stabilimento potrà essere chiuso per il tempo necessario e la copertura retributiva sarà effettuata con il ricorso a istituti retributivi collettivi (PAR residui e/o ferie) e l'eventuale recupero della produzione sarà effettuato senza oneri aggiuntivi a carico dell'azienda e secondo le modalità definite.

Il riconoscimento dei riposi/pagamenti, di cui alla normativa vigente in materia elettorale, sarà effettuato, in tale fattispecie, esclusivamente nei confronti dei presidenti, dei segretari e degli scrutatori di seggio regolarmente nominati e dietro presentazione di regolare certificazione. Saranno altresì individuate, a livello di stabilimento, le modalità per un'equilibrata gestione dei permessi retribuiti di legge e/o contratto nell'arco della settimana lavorativa.

9) Cigs
Il radicale intervento di ristrutturazione dello stabilimento Giambattista Vico per predisporre gli impianti alla produzione della futura Panda presuppone il riconoscimento, per tutto il periodo del piano di ristrutturazione, della cassa integrazione guadagni straordinaria per ristrutturazione per due anni dall'avvio degli investimenti, previo esperimento delle procedure di legge.
In considerazione degli articolati interventi impiantistici e formativi previsti nonché della necessità di mantenimento dei normali livelli di efficienza nelle attività previste, non potranno essere adottati meccanismi di rotazione tra i lavoratori, non sussistendone le condizioni.

10) Abolizione voci retributive
A partire dal 1° gennaio 2011 sono abolite le seguenti voci retributive, di cui all'accordo del 4 maggio 1987 Parte III (Armonizzazione normativa e retributiva):
-paghe di posto
-indennità disagio linea
-premio mansione e premi speciali.

Le suddette voci, per i lavoratori per i quali siano considerate parte della retribuzione di riferimento nel mese di dicembre 2010, saranno accorpate nella voce "superminimo individuale non assorbibile" a far data dal 1° gennaio 2011 secondo importi forfettari.

11) Maggiorazioni lavoro straordinario, notturno e festivo
Sono confermate le attuali maggiorazioni comprensive dell'incidenza sugli istituti legali e contrattuali.

12) Polo logistico di Nola
E' confermata la missione del polo logistico della sede di Nola.
Eventuali future esigenze di organico potranno essere soddisfatte con il trasferimento di personale dalla sede di Pomigliano d'Arco.

13) Clausola di responsabilità
Tutti i punti di questo documento costituiscono un insieme integrato, sicché tutte le sue clausole sono correlate ed inscindibili tra loro, con la conseguenza che il mancato rispetto degli impegni eventualmente assunti dalle Organizzazioni Sindacali e/o dalla RSU ovvero comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate per la realizzazione del Piano e i conseguenti diritti o l'esercizio dei poteri riconosciuti all'Azienda dal presente accordo, posti in essere dalle Organizzazioni Sindacali e/o dalla RSU, anche a livello di singoli componenti, libera l'Azienda dagli obblighi derivanti dalla eventuale intesa nonché da quelli derivanti dal CCNL Metalmeccanici in materia di:
-contributi sindacali
-permessi sindacali retribuiti di 24 ore al trimestre per i componenti degli organi direttivi nazionali e provinciali delle Organizzazioni Sindacali
ed esonera l'Azienda dal riconoscimento e conseguente applicazione delle condizioni di miglior favore rispetto al CCNL Metalmeccanici contenute negli accordi aziendali in materia di:
-permessi sindacali aggiuntivi oltre le ore previste dalla legge 300/70 per i componenti della RSU
-riconoscimento della figura di esperto sindacale e relativi permessi sindacali.
Inoltre comportamenti, individuali e/o collettivi, dei lavoratori idonei a violare, in tutto o in parte e in misura significativa, le presenti clausole ovvero a rendere inesigibili i diritti o l'esercizio dei poteri riconosciuti da esso all'Azienda, facendo venir meno l'interesse aziendale alla permanenza dello scambio contrattuale ed inficiando lo spirito che lo anima, producono per l'Azienda gli stessi effetti liberatori di quanto indicato alla precedente parte del presente punto.

14) Clausole integrative del contratto individuale di lavoro
Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell'efficacia nei suoi confronti delle altre clausole.

lunedì 21 giugno 2010

d.C.

Tra le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n'è una che è d'una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: "Io vivo nell'epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa".
Il dopo Cristo per l'amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un'epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l'accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d'un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l'hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell'opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l'apripista d'un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l'alta marea costruendo un muro che blocchi l'oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell'opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

* * *

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l'obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell'epoca "prima di Cristo" debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell'epoca del "dopo Cristo". Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall'emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l'inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, "buscando el levante por el ponente", cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

* * *

C'è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall'Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all'esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell'Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l'ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l'Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell'Eurozona le seguenti domande: "Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell'Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l'entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell'occhio del ciclone?" (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all'interno dei paesi. Non c'è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

* * *

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell'articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell'articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell'urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell'abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l'abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l'intento di stravolgere l'architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all'Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l'ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell'occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.

di Eugenio Scalfari; la Repubblica

sabato 19 giugno 2010

Adiós

Intervista del 19 novembre 2009

José Saramago, premio Nobel per la letteratura, mi accoglie nel piccolo appartamento situato nel centro di Madrid, dove risiede ogni volta che viene in Spagna. In questo frangente, per accompagnare l'uscita del nuovo romanzo Caino, che in Portogallo ha già suscitato "le reazioni furibonde delle gerarchie ecclesiastiche. Quando va bene, mi accusano di adottare una interpretazione letterale e non simbolica dell'Antico Testamento. E' una musica che ho già sentito altre volte".

E così quest' uomo segaligno e gentile, dalle convinzioni radicali, anche se espresse sempre con un tono di voce pacato, si trova ancora una volta al centro di accese polemiche. Come era già accaduto con l'uscita de Il Quaderno (prefazione di Umberto Eco, Bollati Boringhieri), raccolta degli interventi pubblicati sul blog nel periodo settembre 2008- marzo 2009; un libro che ha determinato la rottura con Einaudi e che da svariate settimane, con sorpresa dello stesso autore, veleggia nelle prime posizioni delle classifiche dei best-seller nostrani. Consumato il caffè, mentre esce delicatamente di scena l'adorata moglie Pilar, lo scrittore portoghese, golf color salmone su camicia salmone, comincia a proporre le diverse parole del suo "l essico necessario". "Inizierei dalla più urgente e essenziale di tutte: "no"". Curioso, anche George Steiner ha deciso di cominciare con "no"; la parola più selvaggia del vocabolario, secondo Emily Dickinson. E un altro Nobel per la letteratura, Octavio Paz, parlò in suo saggio della necessità di riscoprire il valore profondo di questa parola.

"Non sapevo di Paz e la cosa mi onora. Quanto a Steiner, spero di offrire delle motivazioni che arricchiscano il suo punto di vista. Quando penso alla parola "no", non la intendo nell'accezione più comune e immediata, ovvero come pura negazione. Al contrario, ne rivendico tutto il valore propositivo e costruttivo. Le faccio un esempio: ogni rivoluzione rappresenta un "no" che si impone o cerca di imporsi al "sì": allo status quo, agli interessi costituiti, al conformismo, al dominioo addirittura alla dittatura. Ora, so bene che nel corso degli accadimenti storici arriva poi, inevitabilmente, il momento in cui il "no" iniziale si converte di nuovo in un "sì". Sì all'o stentazione del potere, alla corruzione, alla confusione degli ideali iniziali che avevano determinato quella rivoluzione. Eppure, malgrado queste costanti e ripetute impasse, continuo a rivendicare tutto il valore dinamico e propulsivo della parola "no"".

In effetti, la sua proposta in parte si sovrappone a quella di Steiner, in parte se ne allontana. Presumo che la seconda parola chiarirà ulteriormente gli sviluppi del suo itinerario. "Il secondo termine che propongo è "rispetto", con qualche necessario distinguo. Non vorrei cadere nel moralismo, riferendomia un generico rispetto universale. Io penso a persone e situazioni specifiche, che meritano rispetto. Mentre lo vedono via via infrangersi nello specchio rotto di una società che non sembra più riconoscere l'eminente dignità dell'essere umano. E' molto semplice: senza rispetto non esiste dignità, e senza dignità il rispetto va a farsi benedire". Ma perché non ci si dovrebbe riferire a un rispetto universale? Se io scelgo a chi devo rispetto e a chi no , allora altrettanto potrà fare il mio eventuale interlocutore. E a quel punto vienea cessare l'idea di un rispetto valido per tutti, indistintamente. "Ricorderà San Francesco d' Assisi, il quale portava rispetto per tutto l'universo. Compreso il lupo, definito un fratello. Ma il lupo gli rispose: d' accordo, se vuoi chiamami fratello. Ma non chiedere a me di chiamare sorella la pecora".

E nella sua visione del mondo, il ruolo del lupo sarebbe rivestito, tra gli altri, proprio dalla Chiesa cattolica. O sbaglio? "No no, è proprio così. Per garantire il rispetto reciproco occorre una precondizione fondamentale. Se io le faccio uno sgarbo, le chiedo scusa. Ma non mi sembra che questo sia stato e sia il comportamento abituale della Chiesa. Nel centro di Roma, a Campo dei Fiori, c' è la statua di Giordano Bruno, che la Chiesa mise al rogo e al quale non ha mai chiesto scusa. Ora, non capisco perché dovrei portare rispetto verso una istituzione che nel corso dei secoli ha accumulato orrori su orrori, dei quali s i è scusata in grave ritardoe solo in parte. Mi creda: il male può vivere nel seno stesso della Chiesa. Ha dormito a lungo nel baldacchino della camera dei papi. Non solo la Chiesa dovrebbe chiedere perdono alle tante vittime che ha causato nel corso della sua storia, ma dovrebbe chiedere perdono anche al proprio Dio per quello che ha fatto". Una condanna senza appello, la sua. D' altronde, perfettamente in linea con chi si definisce ateo e comunista. "Se è per questo, come ho ricordato nell'ultimo libro, fu un teologo come Hans Küng a scrivere, molti anni fa, che le religioni non sono mai riuscite ad avvicinare gli esseri umani gli uni agli altri. Ne discende che ciascuno è libero di seguire la religione che più gli piace. Ma anche che dovremmo abbandonare un'eccessiva deferenza nel trattare Dio come problema, come fattore di dissidio".

Beh, a questo punto sono tanto più curioso di sapere qual è la terza parola. ""Bontà". Non però una bontà contemplativa, in fondo abbastanza egoista. E neppure una bontà c aritatevole. Forse ricorderà quei versi di Antonio Machado che suonano: "Di ciò che gli uomini chiamano/ virtù, giustiziae bontà/ una metà è invidia e l'altra, non è carità". Per questo penso a quella che si potrebbe definire "bontà attiva", virtù tanto più difficile perché si manifesta in un periodo storico in cui è palesemente disprezzata, annichilita dal cinismo imperante". Di sicuro, non è una parola a' la page. "In effetti non è facile oggi invitare la gente ad essere buona. Ma per quel che mi riguarda, la bontà viene addirittura prima dell'intelligenza, o meglio è la forma più alta dell'intelligenza. E' una bontà che si manifesta nella pratica quotidiana; che non è animata da nessun pensiero salvifico sull'intera umanità; che si accontenta di far "lavorare" il proprio minuscolo granello di sabbia. Nel tentativo di recuperare una relazione umana che sia effettivamente tale". Ho qui il suo Quaderno, dove lei scrive: "Se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza la carità, la giustizia e la bont à, metterei al primo posto la bontà, al secondo la giustizia e al terzo la carità. Perché la bontà, da sola, già dispensa la giustizia e la carità, perché la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente carità. La carità è ciò che resta quando non c' è bontà né giustizia". "Aggiungerei una piccola postilla. Sono sufficientemente vecchio e sufficientemente scettico per rendermi conto che la "bontà attiva", come io la chiamo, ha ben poche possibilità di trasformarsi in un orizzonte sociale condiviso. Può però diventare la molla individuale del singolo, il miglior contravveleno di cui può dotarsi quell'"animale malato" che è l'uomo".

di Franco Marcoaldi; la Repubblica

Radio Merdania

"I trans sono immondi cessi umani, aborti della natura, stranieri che sono qui a buttare malattie... Ci vorrebbe un'azione più incisiva, più aggressiva, perché i tempi sono maturi e la gente ci seguirebbe: non possiamo fare le espulsioni di massa come in Germania? ".

Benvenuti su Radio Padania Libera, l'emittente con i cui ripetitori, da vent'anni, il Carroccio irradia odio xenofobo, omofobo ed antimeridionalista in tutto il nord Italia, in Emilia, in Sardegna e, via web, nel resto del paese. Diciassette ore di diretta al giorno, sette giorni su sette, col best of della giornata mandato in replica fino all'alba, quando Sammy Varin, ex voce di Radio Italia e dispensatore di consigli per i militanti meno scaltri ("Su Facebook non aderite al gruppo 'bruciamo i rom', non date pretesti alla sinistra per attaccarci"), all'urlo di "Padania sveglia!" dà il via alle danze.

Un paio di uomini in cabina di regia per una dozzina di conduttori che si alternano, senza sosta, alla conduzione di una teoria infinita di rubriche: giardinaggio, cucina, bellezza, amici a quattro zampe, musica jazz, musica classica, cinema, sport. Ma anche uno spazio settimanale per i "Giovani padani " ("Andare coi travoni è da cani, i trans andrebbero chiamati bestie"); uno per l'"Associazionismo padano", curato da Renata Galanti, già collaboratrice di Luca Zaia al ministero delle Politiche agricole ("Ognuno si deve alimentare secondo il dna dei propri genitori: chi viene dal Meridione non deve integrarsi completamente con le abitudini alimentari del nord, altrimenti saranno inevitabili i disturbi di stomaco"); un altro dedicato alla "Cultura padana" ("Non vogliamo vedere film dove gli omosessuali si slinguano tra di loro; la depravazione morale sta raggiungendo il suo limite estremo arrivando a superare la cattiveria con la quale Hitler ha mandato milioni di ebrei a morire: crepate, voi che ci date dei moralisti e dei bacchettoni, crepate con Satana!"); un altro ancora affidato dalla diaspora dei "Padani nel mondo" ("Una delle più importanti figure sciite ha profetizzato la fine del mondo a seguito dell'ascesa al potere, in Occidente, di un nero alto di statura: Barack Obama è l'Anticristo"); e tante, tantissime telefonate di militanti e simpatizzanti ("Accoltellarli è troppo, però ai gay due calci nelle palle li darei anch'io").

Nel palinsesto non mancano ovviamente finestre consacrate agli amministratori locali, il fiore all'occhiello del radicamento territoriale leghista: intraprendenti presidenti di provincia (Ettore Pirovano, deputato e presidente della provincia di Bergamo) che annunciano di star predisponendo, nei pronto soccorso, canali preferenziali per "i nostri anziani, altrimenti i medici si dimenticano di assisterli, presi come sono dalla febbre di curare i clandestini"; frustrati consiglieri comunali che proprio non riescono a darsi pace per via di quelle associazioni e di quei sindacati che aiutano i rom "in modo esagerato, informandoli su leggi che vengono a discapito di noi cittadini, tanto che, quando andiamo a sgomberarli, loro, chissà come, sanno che se il terreno è di proprietà c'è bisogno della richiesta del proprietario"; ancor più frustrati assessori comunali (Massimiliano Orsatti, assessore al Turismo, Marketing territoriale e Identità del comune di Milano) che si spiacciono per la "recrudescenza di zingari", ma "ahimè molti di loro sono cittadini italiani, e se non commettono reati non puoi smuoverli"; e loro omologhi regionali (Massimo Zanello, assessore alla Cultura e all'Identità della Regione Lombardia) che probabilmente credono che anche la storia della cicogna abbia un fondo di verità: "Mica è necessario prendere le impronte a tutti i rom, ma solo ai loro bambini, perché che gli zingari rubino i bambini è una cosa che nelle nostre famiglie si dice da sempre, quindi qualche episodio si deve pur essere verificato. E poi se non hanno niente da nascondere che problema c'è?".

Talvolta, in eccesso di zelo, Radio Padania arriva persino a sbugiardare i suoi più alti vertici. Nei giorni in cui Roberto Maroni assicurava che con l'emendamento sui medici-spia non si aveva intenzione di tenere i migranti irregolari lontani dagli ospedali, un paio di conduttori commentavano così quello stesso emendamento: "La legge non è ancora stata approvata e già è stato abbattuto del 20% il numero delle prestazioni sanitarie: pensate le cose che si potrebbero fare per i nostri anziani e per i nostri disabili con tutti i soldi risparmiati dalle cure dei clandestini".

Anche Radio Padania, però, ha un cuore. Gennaio 2010, terremoto ad Haiti; l'Umanitaria Padana, una delle innumerevoli associazioni che fanno capo al Carroccio, si mobilita con un conto corrente.
Questo l'appello diffuso in radio "Aiutiamo la gente nel loro paese. Per evitare l'immigrazione selvaggia nel nostro".

di Daniele Sensi; L'espresso

Rassegnamoci

venerdì 18 giugno 2010

Embè?

Della motivazione con cui il tribunale di Firenze ha negato la libertà provvisoria a due comandanti delle ferocissime Truppe d’Appalto (Balducci & De Santis) mi ha colpito l’ultima riga: «Gli indagati mostrano una evidente carenza di percezione della antigiuridicità del proprio comportamento». Insomma, dopo mesi di cella, i signori della Cricca continuano a non capire cos’hanno fatto di male. Anche il caso Scajola e le recenti dichiarazioni dell’ex ministro Lunardi rivelano uno stile di vita allucinante percepito come assolutamente normale. La famosa filosofia dell’Embè. Ho ristrutturato casa a un amico, embè? L’amico ha dato un lavoro a mio figlio, embè? Mio figlio ha messo su una società con la moglie dell’amico, embè? Un embè tira l’altro e alla fine tutti confluiscono nel Grande Embè che rischia di sommergerci. Perché Balducci e De Santis non sono schegge impazzite, ma espressioni estreme di un atteggiamento diffuso: il primato delle relazioni sulle capacità, delle conoscenze sulla conoscenza. Chi entra in contatto con un ente pubblico non si chiede neanche più quali siano le procedure. La sua unica preoccupazione è: conosco qualcuno lì dentro? Il morbo ha invaso persino i recinti sacri della giustizia, dove l’avvocato più ricercato non è quello che conosce la legge, ma quello che conosce il giudice.

«L’Italia è tutta un frou frou di do ut des» scriveva lo scrittore Enzo Siciliano, assiduo frequentatore delle terrazze romane, altamente specializzate in materia. Non immaginava di avere coniato l’epigrafe delle mille cricche d’Italia.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Menzogna

Gianni De Gennaro non è un uomo qualunque, è da moltissimi anni un pezzo importante dello Stato italiano, ha alle spalle una carriera di poliziotto modello. Ma proprio per questo la sentenza che lo condanna non dovrebbe spingere nessuno a recitare le solite tragicommedie del garantismo e del giustizialismo alle quali purtroppo stiamo invece assistendo. Un servitore dello Stato, un ex capo della Polizia oggi Signore dei servizi segreti, non può apparire come un manipolatore di testimoni, non può permettersi una condanna anche se non definitiva, non può consentire che la gente pensi a lui come a un bugiardo. Ha ovviamente diritto alla presunzione di innocenza ma ha il dovere di liberare lo Stato dalla fosca ombra che lo sovrasta. Non sappiamo cosa De Gennaro deciderà, ma abbiamo fiducia nella sua coscienza, nel suo spirito di servizio, nel suo alto senso dello Stato che, mai come oggi, coincide con la sua dignità di insospettabile.

E però, più inquietante della sentenza c'è la solidarietà meccanica, ideologica, quasi fosse "di partito", del ministro dell'Interno Maroni e del ministro della Giustizia Alfano. Le loro dichiarazioni a caldo, istintive e assolutorie finiscono con l'apparire come una prova involontaria della giustezza della sentenza: come si può essere solidali con un condannato di questa portata? Che fine ha fatto quell'idea rigorosa di Stato che un tempo dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia assoluta? Neppure De Gennaro è, secondo noi, solidale con se stesso come Maroni e Alfano lo sono con lui. E se fosse stato direttore del Tg1 o del Tg5 di sicuro De Gennaro avrebbe evidenziato nei titoli la notizia che invece Minzolini e Mimun hanno nascosto. Come si fa a non capire che delegittimare o malcelare una sentenza così rilevante finisce con il rafforzarla, con il fornire ulteriori argomenti alla colpevolezza?

Insomma, più grave della sentenza c'è la complicità politica con il reo, l'idea che la politica possa annullare le ragioni della giustizia. Di sicuro non è bello lo scontato crucifige ideologico dei soliti nemici di De Gennaro e della polizia, ma si tratta in fondo di pezzi di un'opposizione d'antan e tribunizia di pochissimo peso istituzionale. Ben più indecente è l'amicizia ammiccante di Maroni e di Alfano. E in tv ci ha colpito il silenzio del procuratore antimafia Piero Grasso che, seduto per caso tra Alfano e Maroni che difendevano il condannato, esibiva una impassibilità che somigliava - ci è parso - allo sconcerto trattenuto, allo scandalo dissimulato. Cosa avrebbe detto Piero Grasso se fosse stato lui il condannato, magari pure ingiustamente? Come reagisce un Servitore della Cosa Pubblica se il suo operato vulnera l'istituzione che rappresenta? Difende se stesso anche a costo di offendere lo Stato? Tratta se stesso come un uomo qualunque quando invece è un pezzo di Stato?

Ma voglio essere ancora più chiaro. A noi piacciono i capi che coprono i loro uomini, capiamo le ragioni psicologiche e anche professionali, specie di un poliziotto che ha vissuto i giorni pesanti di Genova, dove però le violenze cieche, di strada, sono purtroppo risultate alla fine meno cruente delle violenze di Stato, quelle costruite a freddo contro degli inermi. De Gennaro insomma lo capiamo senza giustificarlo. Ha le attenuanti del capo che si compromette in favore dei suoi. C'è una nobiltà nella ignobiltà che ha commesso. Ma la solidarietà dei ministri degli Interni e della Giustizia sconfessa l'operato dei giudici in maniera sconsiderata, solo perché De Gennaro è uno dei loro, uno come loro. Il messaggio che arriva agli italiani è che la corporazione, la cricca, la casta e l'amicizia rendono innocente anche un reo condannato. L'impunità è la peggiore delle sporcizie di Stato.

di Francesco Merlo; la Repubblica

giovedì 17 giugno 2010

Patriottismo pallonaro

Mondiali di calcio: in un mondo preso a calci dalla specie antropica all’apogeo dei suoi successi, una versione di Guerra Mondiale non utilizzabile come vaccino, ma iniettata mediaticamente nell’inconscio collettivo delle nazioni per consolarci dei mali di una troppa lunga pace.

Il gioco del calcio ha questa sola legittimazione alla sua implacabile pervasività: di essere un simulacro di guerre civili nei campionati nazionali, e una finzione-video di guerre mondiali ogni quattro anni - che, ahimè! passano in fretta, troppo in fretta.

Mondiali dovunque: in tutte le case, in tutti i pianerottoli e gli ascensori, gli uffici, i mercati rionali, le scuole; impossibile non commentare le partite del giorno prima, impossibile sottrarsi ai commenti delle partite del giorno prima e alle previsioni di quelle dell’indomani. Valga, per chi voglia starne lucidamente fuori, la massima del saggio imperatore Marco Aurelio, quello della statua equestre in Campidoglio: Abstine et sustine (Astienti e sopporta).

Mi pare fosse Prezzolini, nel giornale di Gobetti, a raccomandare, squadrismo vincente, l’associarsi tra «coloro-che-non-la-bevono» (elegantemente detto alla greca àpoti). Noi non beventi, astémi e digiuni di Calcio (spesso, per età, anche decalcificati d’ossa) oggi abbiamo a disposizione i Blog, i Facebook, le poste elettroniche dove sfogare impudicamente la nostra repressa apatia di àpoti verso il mondialismo pallonista, l’occupazione da parte dei cronisti e degli specialisti commentanti di tutto il visibile, l’udibile e il leggibile - la nostra refrattarietà irriducibile ai Falli Laterali, alle Panchine Impazienti, alle mestizie delle sconfitte e alle delusioni cocenti dei Zero a Zero al dilà dell’ottantanovesimo Minuto.

Le unificazioni separano. Questa mondialità è sospetta. Più realisticamente, le partite sono scontri di nazionalismi, religioni, governi, regimi che si odiano, colluttazioni interetniche, interrazziali, interclassi sociali. Si vuole sempre vincere per qualcosa: altrimenti, perché voler vincere? Gli inni nazionali precedono ogni incontro: giustamente, l’inno pacifico non esiste. Dietro la partita ci sono gli spettatori virtuali: un intero popolo che si ricorda di essere stato foresta primordiale, di aver portato artigli e che è là per incitare a immolare simbolicamente, in undici giocatori di diverso colore di maglificio, un popolo irragionevolmente altro, i subumani dell’altro emisfero o di al di là di una catena montuosa. Ogni urlo d’incitamento è masticazione sterminatrice. Provate ad immaginare una partita Israele-Hamas: iperguerra, non guerra semplice! Ci sarà in Sudafrica Israele-Iran? Ci sarebbe da trattenere il fiato: scoppierà adesso o domani?

Nelle città italiane sono esposte molte bandiere tricolori. Quale vittoria militare celebreranno? Il centocinquantenario dell’Unità nazionale devaticanizzata? Eccone là un’altra... un’altra ancora!...E si diceva che il patriottismo è morto! Forse che i missionari della Pace Assoluta, i reparti italiani sulle ambe afghane, hanno attaccato e sbaragliato i talebanski, invece di rassegnarsi a farsi accoppare secondo regole d’ingaggio inimmaginabili in qualsiasi operazione militare dal tempo delle guerre sannitiche romane? Per niente...Tutto quell’onore di bandiere è riservato a guerre ben più veraci e tremende! A guerre contro Paraguay o Argentina, contro Svizzera, sulla linea de fuego Como-Brogeda la domenica sera, contro Spagna, contro Brasile, Irlanda, il Ghana, l’Impero del Sole... Agli ordini del Generale Lipp! Discusso, si dice, ma, in ogni caso, meglio di Cadorna, lo sconosciuto a tutti i liceali della omonima stazione della metropolitana di Milano.

di Guido Ceronetti; LA STAMPA

mercoledì 16 giugno 2010

Tupamaro

Incredibile! E' Fabio Cannavaro,
immortalato in un gesto amichevole.

Scusate il ritardo, ma...

Le lancette dell'orologio scorrono veloci. Sono le otto e dieci e siete già in ritardo. Chissà che cosa diranno i colleghi e soprattutto come la prenderà il capo quando entrando nel vostro ufficio vedrà ancora la scrivania vuota. Magari siete bloccati in mezzo al traffico oppure state cercando di trascinare i bambini all'asilo. Magari, invece, siete solo dei ritardatari cronici. E allora che cosa fare? Trovare una buona scusa da rifilare ai superiori appena arrivati al lavoro. Secondo una ricerca condotta da CareerBuilder, la crisi ha portato i datori di lavoro a maggiori verifiche sugli orari dei dipendenti. Proprio sulla base di un più stretto controllo di produttività e risorse, la puntualità è diventata una priorità. Il 44% dei dirigenti intervistati, infatti, ha dichiarato di essere più attento all'orario di ingresso e di uscita degli impiegati.

Un ritardo ogni tanto è anche concesso, ma chi ne accumula uno dietro l'altro, oltre alla "strigliata" quotidiana, mette a rischio il posto. Il 10% degli imprenditori, infatti, arriverebbe anche a licenziare i lavoratori che "cadono in errore" due o tre volte, mentre il 6% chiuderebbe il rapporto con chi ritarda in quattro o cinque occasioni. Lo studio online ha coinvolto in Italia 150 datori di lavoro di diversi settori. In totale sono state prese in esame le risposte di 625 manager provenienti anche da Francia, Germania, Svezia e Regno Unito.

Non tutti i capi, però, sono super severi. C'è infatti chi ammette una certa flessibilità. Il 60% non si preoccupa degli orari se poi i compiti richiesti vengono svolti secondo i tempi stabiliti. Ma, chi non ha la fortuna di avere un superiore "aperto", tende spesso ad inventarsi delle scuse incredibili. Tra le giustificazioni più bizzarre la rapina nelle banca di fronte a casa, la preoccupazione per l'imminente caduta di una cometa sulla terra , le peripezie del gatto rimasto incastrato nella gattaiola, il posto di blocco della polizia e la difficoltà ad adattarsi al cambiamento climatico. Alcune, però, sono davvero assurde: chi potrebbe mai credere che un cavallo è saltato sul tettuccio di un'automobile? Tra quelle più realistiche spiccano l'incendio in casa, gli impedimenti causati dalla cenere vulcanica e le difficoltà di trovare la dentiera persa chissà dove. Qualcuno, poi, prova a giustificarsi senza dare un vero motivo. Sono in molti quelli che entrano in ufficio pronunciando la magica frase: «Esco di casa sempre alla stessa ora. A volte sono in ritardo, a volte no. Non capisco!».

Ma per non farsi cacciare via bisognare correre ai ripari. «Il ritardo è una variabile in grado di influire sulla percezione della vostra professionalità e affidabilità, non solo agli occhi del vostro datore di lavoro, ma anche a quelli dei vostri collaboratori, che potrebbero decidere di chiedere dei provvedimenti», dice Corrado Tirassa, Country Manager di CareerBuilder Italia. «Organizzarsi la sera prima può contribuire a migliorare la puntualità e a rendere meno frenetica la vita dei pendolari», conclude Tirassa. Pianificare, quindi, è la parola d'ordine. Per non fare tardi bisogna predisporre tutto il necessario la sera prima e limitare le distrazioni come tv e computer. Chi proprio non ce la fa, può sempre considerare il telelavoro.

di Alice Castagneri; LA STAMPA

Suggestione

martedì 15 giugno 2010

Improduttività

Tutti quei giudici che da sedici anni tentano di sovvertire il voto popolare andrebbero licenziati per manifesta incapacità.

di Jena; LA STAMPA

Fratelli d'Italia

Ogni volta che qualche leghista maltratta l’inno mi torna alla memoria un episodio della primissima infanzia. Ero sugli spalti dello Stadio per un meeting di atletica, quando la banda attaccò una marcetta spiritosa. Gli spettatori si alzarono in piedi: anche mio padre, che subito imitai. Ma un ragazzino più grande di me rimase tranquillamente seduto. «E tu perché non ti alzi?», gli chiese mio padre. «C’ho un cicles attaccato al sedere». Non disse proprio «sedere». Ma di sicuro disse «cicles», la gomma da masticare. Mio padre, ex partigiano, serrò gli occhi a fessura: «E’ un bel problema, ma te lo risolvo io». Prese il bulletto per le ascelle e lo sollevò. «C’è gente che è morta perché tu potessi ascoltare in pace questo inno. Porta un po’ di rispetto, cretino!». Intorno a lui si levò un applauso caldo e solidale, che sferzò l’amor proprio del ragazzo più ancora del fervorino.

Non so se sarei capace di comportarmi come mio padre. Invece degli applausi, avrei paura di beccarmi una coltellata o un’accusa di molestie ai minori. Ma quel giorno compresi che facevo parte di una comunità e che chiunque l’avesse sfregiata con un comportamento irriguardoso avrebbe finito per provocare in me una reazione eguale e contraria. Così, pur essendo uno di quei tipici italiani che non vibrano per la parola Patria e baratterebbe l’elmo di Scipio con un inno solenne come la Marsigliese, grazie agli sforzi iconoclasti della Lega mi ritrovo da qualche tempo a indossare con orgoglio cravatte tricolori. E ieri sera, mentre De Rossi cantava in romanesco «che schiava de Romaaaaa…» poco è mancato che mi venissero i lucciconi.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Obbligo

È possibile che la FIAT non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L'industria mondiale dell'auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente. A farne le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un'auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all'assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all'ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato. Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano - ben 15.000 se si conta l'indotto - è probabilmente orientata ad accettare le proposte FIAT in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l'azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta. Una volta riconosciuto che forse l'azienda non ha alternative, e non ce l'hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che FIAT propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti. Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L'ultima mezz'ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L'azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all'anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l'orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzionea seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell'autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz'oraa fine turno - giusto quella della refezione - o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l'indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte FIAT. Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento FIAT consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla "metrica del lavoro." Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l'analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c'è l'uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l'adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per "produzione di qualità o livello mondiale"). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un'azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall'altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L'ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot. È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell'ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s'intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello. È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso FIAT. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l'anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.

di Luciano Gallino; LA STAMPA