giovedì 24 giugno 2010

Il giocattolo K.O.

Gli eroi del '98 sono diventati dodici anni dopo i reietti: impostori, egoisti, maleducati, mascalzoni, scervellati. Prima ancora che venissero sconfitti dai sudafricani a Bloemfontein, e quindi esclusi dai mondiali, Le Figaro riassumeva così l'indignazione generale nei confronti dei giocatori francesi: sono la nostra vergogna e non dovremmo più accettare che portino i nostri colori. Insomma sono dei traditori, degli ingrati, dei felloni. Tanta collera per una sconfitta sportiva, sia pur mondiale, in una società depositaria del razionalismo, può stupire. È vero che il calcio, più di qualsiasi altro sport, suscita in chi lo segue con spirito partigiano forti emozioni oscillanti tra gioia e tristezza, noia e ammirazione, quindi esaltazione e indignazione. Ma la super giacobina collera francese di queste ore non è soltanto dovuta alle sconfitte agonistiche subite in Sudafrica, nel giro di pochi giorni, e dopo tante speranze. Il 2010 ha mandato in frantumi quello che nel 1998 sembrò un incantesimo. E cioè la felice illusione di un'integrazione riuscita degli immigrati nella società che pareva inquinata dalla xenofobia (sconfinante nel razzismo con il Front National) e quindi dalla discriminazione. Nel mondo del football la Francia non aveva sempre brillato. Spesso aveva deluso. Era una media potenza. Non aveva la stessa storia del Brasile, della Germania, dell'Italia. Ma nel '98 superò i tre grandi e vinse la coppa del mondo. Fu un delirio. Fu il trionfo dei giocatori magrebini, cittadini di seconda classe nella società, ma campioni ineguagliati negli stadi. Erano loro gli artefici della vittoria. Il giovane Zidane era il fuoriclasse che aveva dato prestigio alla Francia. E la Francia era riconoscente. Quel giorno di luglio le bandiere algerine si confondevano con quelle tricolori sui Campi Elisi. Portato dalla folla, in gran parte algerina, mi ritrovai nei corridoi del palazzo dell'Eliseo, del quale Jacques Chirac, allora presidente, aveva fatto spalancare le porte. E sulla soglia del suo ufficio accolse sorridendo una ragazza kabila. Kabila come Zidane. Una ragazza avvolta nei colori del Fronte di Liberazione Nazionale, che prima di diventare quelli dell'Algeria indipendente, erano stati il simbolo della lotta contro la Francia coloniale. Chirac cavalcò l'avvenimento con slancio e abilità. Fu generoso. La generosità è assente nel 2010. Gli immigrati o i figli di immigrati, anche se non più di origine magrebina, ma di colore, erano altrettanto numerosi nella squadra nazionale. Questa volta tuttavia il loro comportamento, non soltanto in campo, durante le partite, ha sollevato collera, indignazione, improperi, e originato una delusione, che, nell'iperbole trionfante, è stata paragonata a quella provocata da infausti avvenimenti della storia nazionale. Battaglie vere perdute o addirittura guerre altrettanto vere e perdute. Roselyne Bachelot, ministro dello Sport mandata a Johannesburg da Nicolas Sarkozy in persona, ha parlato di "catastrofe". Un filosofo appassionato di calcio e fedele alle tradizioni, Alain Finkielkraut, ha messo in discussione la composizione sociale ed etnica dell'équipe de France. Ha scritto al colmo dell'indignazione che se la «squadra non rappresenta la Francia, purtroppo la riflette: con i suoi clans, le sue divisioni etniche, la sua persecuzione dei cittadini esemplari». È un terribile specchio in cui il Paese può guardarsi. E ha concluso suggerendo che nel futuro sia formata una «squadra di gentlemen». La disfatta sportiva ha assunto connotati sociologici. Dodici anni dopo i giocatori scesi in campo in Sudafrica non sono più degli eroi, ma i degradati prodotti della storia delle banlieues, e quindi della segregazione sociale e urbana. Uno dei giocatori, Nicolas Anelka, quello che avrebbe detto a Raymond Domenech, negli spogliatoi, durante la pausa della partita col Messico, « Va te faire enculer sale fils de pute », viene da Trappes, nella periferia parigina. E sempre dalle porte della capitale, Les Ulis, vengono Evra e Henry, due altri giocatori. Mentre Abidal è cresciuto a La Duchère, vicino a Lione. La loro conversione all'Islam è avvenuta spontaneamente, tramite le frequentazioni di quartiere, o i legami coniugali. È il caso di Franck Ribéry, francese di Bologne-surMer, diventato musulmano con il nome di Bilaf Yusuf Mohammed, per avere la stessa religione della moglie. Nonostante la straordinaria ascesa sociale (e i cospicui guadagni dieci e più milioni di euro all'anno), quei giocatori non hanno reciso del tutto i rapporti con il mondo delle banlieues, e la loro adesione all'Islam li ha resi sensibili alla storia coloniale, che non è proprio quella imparata nelle scuole francesi. Eric Abidal, ad esempio, un martinichese, non canta mai la Marsigliese, quando la squadra nazionale è schierata sul campo, prima della partita. E ha spiegato il perché: «Ho studiato le parole dell'inno e non mi vannoa genio. Rappresento la Francia, sono felice di essere francese ma quell'inno non mi va. Non mi riguarda». Quando, dopo gli insulti negli spogliatoi all'allenatore Domench (insulti rivelati dal quotidiano l'Equipe ), sono esplose le polemiche, e i giocatori hanno rifiutato di partecipare all'allenamento, la Francia si è indignata. È allora che sono esplosi gli insulti e che si sono moltiplicate le accuse di fellonia, di tradimento. Chi rappresentava la nazione a un appuntamento mondiale non poteva scioperare. E se scioperava significava che non aveva coscienza di rappresentare la Francia. Non era insomma un patriota. Era un traditore. E per di più si rivelava incapace negli stadi e rivestito dei colori francesi veniva umiliato sotto gli occhi del mondo. È stato come se l'integrazione annunciato nel '98 si fosse rivelata un'illusione. E la società multietnica rivelasse la crisi che la tormenta.

di Bernardo Valli; la Repubblica

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