Mondiali di calcio: in un mondo preso a calci dalla specie antropica all’apogeo dei suoi successi, una versione di Guerra Mondiale non utilizzabile come vaccino, ma iniettata mediaticamente nell’inconscio collettivo delle nazioni per consolarci dei mali di una troppa lunga pace.
Il gioco del calcio ha questa sola legittimazione alla sua implacabile pervasività: di essere un simulacro di guerre civili nei campionati nazionali, e una finzione-video di guerre mondiali ogni quattro anni - che, ahimè! passano in fretta, troppo in fretta.
Mondiali dovunque: in tutte le case, in tutti i pianerottoli e gli ascensori, gli uffici, i mercati rionali, le scuole; impossibile non commentare le partite del giorno prima, impossibile sottrarsi ai commenti delle partite del giorno prima e alle previsioni di quelle dell’indomani. Valga, per chi voglia starne lucidamente fuori, la massima del saggio imperatore Marco Aurelio, quello della statua equestre in Campidoglio: Abstine et sustine (Astienti e sopporta).
Mi pare fosse Prezzolini, nel giornale di Gobetti, a raccomandare, squadrismo vincente, l’associarsi tra «coloro-che-non-la-bevono» (elegantemente detto alla greca àpoti). Noi non beventi, astémi e digiuni di Calcio (spesso, per età, anche decalcificati d’ossa) oggi abbiamo a disposizione i Blog, i Facebook, le poste elettroniche dove sfogare impudicamente la nostra repressa apatia di àpoti verso il mondialismo pallonista, l’occupazione da parte dei cronisti e degli specialisti commentanti di tutto il visibile, l’udibile e il leggibile - la nostra refrattarietà irriducibile ai Falli Laterali, alle Panchine Impazienti, alle mestizie delle sconfitte e alle delusioni cocenti dei Zero a Zero al dilà dell’ottantanovesimo Minuto.
Le unificazioni separano. Questa mondialità è sospetta. Più realisticamente, le partite sono scontri di nazionalismi, religioni, governi, regimi che si odiano, colluttazioni interetniche, interrazziali, interclassi sociali. Si vuole sempre vincere per qualcosa: altrimenti, perché voler vincere? Gli inni nazionali precedono ogni incontro: giustamente, l’inno pacifico non esiste. Dietro la partita ci sono gli spettatori virtuali: un intero popolo che si ricorda di essere stato foresta primordiale, di aver portato artigli e che è là per incitare a immolare simbolicamente, in undici giocatori di diverso colore di maglificio, un popolo irragionevolmente altro, i subumani dell’altro emisfero o di al di là di una catena montuosa. Ogni urlo d’incitamento è masticazione sterminatrice. Provate ad immaginare una partita Israele-Hamas: iperguerra, non guerra semplice! Ci sarà in Sudafrica Israele-Iran? Ci sarebbe da trattenere il fiato: scoppierà adesso o domani?
Nelle città italiane sono esposte molte bandiere tricolori. Quale vittoria militare celebreranno? Il centocinquantenario dell’Unità nazionale devaticanizzata? Eccone là un’altra... un’altra ancora!...E si diceva che il patriottismo è morto! Forse che i missionari della Pace Assoluta, i reparti italiani sulle ambe afghane, hanno attaccato e sbaragliato i talebanski, invece di rassegnarsi a farsi accoppare secondo regole d’ingaggio inimmaginabili in qualsiasi operazione militare dal tempo delle guerre sannitiche romane? Per niente...Tutto quell’onore di bandiere è riservato a guerre ben più veraci e tremende! A guerre contro Paraguay o Argentina, contro Svizzera, sulla linea de fuego Como-Brogeda la domenica sera, contro Spagna, contro Brasile, Irlanda, il Ghana, l’Impero del Sole... Agli ordini del Generale Lipp! Discusso, si dice, ma, in ogni caso, meglio di Cadorna, lo sconosciuto a tutti i liceali della omonima stazione della metropolitana di Milano.
di Guido Ceronetti; LA STAMPA
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