giovedì 29 luglio 2010

Il naufragio

Reagiva come se se fosse stata la collega dell'Unità e non la Banca d'Italia a promuovere quel commissariamento del suo Istituto di credito che è stato firmato dal ministro Tremonti. Rivolgeva a un altro collega le insolenze che avrebbe voluto rivolgere ai magistrati che lo hanno interrogato per nove ore.

Era come se sui suoi presunti illeciti stesse indagando Rainews 24 e non tre Procure della Repubblica. Ebbene, anche se fosse innocente, Denis Verdini non è degno di ricoprire una carica pubblica. Mai infatti si era vista una conferenza stampa più losca di quella messa in scena ieri. Neppure un imam di una repubblica islamica insulta, minaccia irride e offende i giornalisti come ha fatto lui. Nemmeno Berlusconi, che pure è uno specialista di guerre all'informazione, era arrivato a tanto. Il comportamento sguaiato e violento di Verdini ricorda quello dei boss che in aula sputano per terra quando hanno sotto gli occhi gli infami cronisti. Insomma il focoso Denis non si comporta da maledetto toscano ma da guappo napoletano: non indignazione ma coda di paglia.

Ecco il punto: Verdini fa esattamente quello che ti aspetti da un colpevole. Ha preso soldi da Flavio Carboni che rimane un bancarottiere, un faccendiere piduista anche se in passato è stato socio dell'editore Caracciolo che gli offrì una quota della "Nuova Sardegna". Anche questo continuo richiamo al rapporto tra Carboni e Caracciolo è un argomento peloso usato come scudo, il tentativo di legittimare un'associazione a delinquere con la proprietà transitiva, come se i meriti e la pulizia del nome Caracciolo arrivassero addosso a Verdini, lo ripulissero, garantissero per lui e rendessero vincente la sua difesa dinanzi al mondo prima ancora che ai giudici che non lo infilzano all'amicizia ma alle intercettazioni, ai conti bancari, alle tangenti, alla prove fattuali. Verdini partecipava a incontri "coperti" con Dell'Utri e Lombardi, si esprimeva in un codice che sta a metà tra i servizi segreti e i servizi igienici, esercitava pressioni per influenzare le istituzioni inquinandole, partecipava alla congiura delle calunnie contro il candidato del suo stesso partito alle elezioni della Campania.

Eppure ieri in conferenza stampa affibbiava scappellotti a tutti, giocava di rimessa, rilanciava come al poker, si affidava alla possibilità di mettere sotto scacco psicologico l'informazione che per lui è un avversario da gioco d'azzardo: "L'eolico non è la mia materia"; "lei non sa neppure cos'è un conto corrente in banca"; "la sua domanda è morbosa"; "il solo interesse che danneggio è il mio, come mi dice anche mia moglie"; "non esiste una P3 ma esistono le 3P, cioè le 3 Procure". Come si vede è un'inquietudine che va oltre le ragioni dell'autodifesa, è un girovagare, un avventurarsi nel gioco fatuo delle battute incontenibili e al tempo stesso evanescenti, una sorta di lanterna magica, la gaiezza tristanzuola del disperato.

E dispiace e sorprende che Giuliano Ferrara si sia avventato contro la giornalista dell'Unità Claudia Fusani, che non è certo potente come il suo coeditore Verdini, con argomenti oscuri e allusivi che nulla hanno a che fare con la ragnatela della P3 e che sicuramente non gli fanno onore. Non bastava il fiancheggiamento di Stracquadanio, quell'altro onorevole compare che è intervenuto dicendole con garbo di "non dire cazzate"?
Tutti sanno che le conferenze stampa non sono processi penali, ma occasioni di polemiche e di chiarimenti. Nei momenti infuocati esprimono più umori che ragionamenti, più approssimazione che precisione. In genere i leader in difficoltà traggono spunto dalla malizia dei cronisti per parlare al paese, sanno già quello che devono dire, afferrano le domande per sputare il rospo che hanno in gola. Non hanno davanti qualche giornalista più o meno bravo, più o meno acuto, ma la grande platea dell'opinione pubblica, intere pagine di giornali, gli sguardi che captano per strada, il giudizio collettivo che li opprime.

Invece Verdini pareva in gabbia. Troppo scomposto per essere credibile e troppo maleducato per essere rispettato. E dunque anche agli occhi più garantisti appariva come il presunto innocente più sospetto della politica italiana. Non si limitava ad attaccare politicamente Fini e Bocchino e tutti quelli che hanno chiesto le sue dimissioni accusandoli di avere tradito un collega parlamentare, di non difendere uno di loro, di averlo abbandonato alla barbarie giudiziaria, vale a dire alla legge e al rispetto delle regole. Si comportava come al cinema si comportano lo spaccone, lo sbruffone, il faccendiere che appunto sposta soldi, aggiusta un sentimento, ricicla un falso, bluffa al poker e invece di rispondere ti rimprovera di non conoscere la differenza tra la s pura e la s impura, tra il versare e il girare un assegno, roba più da azzeccagarbugli della ragioniera che da banchiere sia pure brechtiano. Al sud esistono intere dinastie di giocatori d'azzardo che diventano imprenditori, banchieri del ficodindia che scrivono anche libri, costruiscono imperi e dinastie sul bluff. È questa l'antropologia del Verdini che abbiamo visto ieri. Le regole esistono per essere sovvertite, trasgredite e beffate.

E in questo codice malandrino anche la maleducazione, la superbia, l'arroganza e gli insulti non sono cadute di stile ma schizzi di umore nero, malattie dell'orgoglio ferito, rivendicazioni di impunità di casta. Sono la bile che si traveste di allegria, proprio quella che Ungaretti chiamava "l'allegria dei naufraghi".

di Francesco Merlo; la Repubblica

Buon esempio

Una sera d’estate, nell’unico ristorante di Agrigento affacciato sulla valle dei Templi irrompe la tipica famigliola italiana. La suocera, che incede elegantissima in testa al gruppo, dispensando a destra e a manca sguardi di sufficienza. La figlia, un po’ meno elegante ma altrettanto supponente. Due bambini griffati e coi capelli intrisi di gel che slalomeggiano fra i tavoli urlando. Chiude la fila il loro papà: esibisce una protuberanza all’orecchio a forma di telefonino. Sono in cinque, ma puntano diritti verso il tavolo con dieci coperti.

I bambini cominciano a litigare per l'assegnazione dei posti. Reclamano patatine e ketchup, poi si alzano. Il più piccolo esce dal ristorante, la cameriera lo acciuffa e lo riporta dalla madre, che nemmeno ringrazia. Il più grande riprende lo slalom fra i tavoli e cerca di afferrare le borsette delle signore, nel totale disinteresse dei suoi familiari. Solo quando il più piccolo si avvicina al carrello dei formaggi e tenta di asportare due formelle, il maître e la cameriera si permettono di interrompere la conversazione dei genitori, facendo presente che un carrello pieno di coltelli appuntiti potrebbe essere pericoloso per il tesoruccio caro. «Ma insomma, sono solo dei bambini», lo zittisce villanamente la madre. La moglie del lettore che ci ha raccontato l’episodio commenta a mezza voce: «Con questa educazione, chissà come cresceranno». Allora il maître le insuffla all’orecchio: «Purtroppo come il padre, signora: faranno anche loro i parlamentari».

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

domenica 25 luglio 2010

Resiste

Come il barone di Münchausen, Denis Verdini cade e si tira i capelli per non cadere. "Denis, devi resistere" è infatti il titolone di prima pagina del quotidiano di Denis, il Giornale della Toscana, ed è appunto un titolo che non riesce a farci sorridere.

Al contrario, quasi ci commuove che Verdini si dica da solo quello che nessuno gli dice. Berlusconi gli dà dello sfigato. Il Foglio, che è un giornale del quale il banchiere Verdini possiede una quota di minoranza, lo pizzica e lo sfotte con un'ironia tutto sommato compassionevole. I colleghi di partito, che con lui erano mendici e queruli, lo commiserano e lo evitano. Il suo famoso, affollatissimo telefono, ormai non squilla più. Che altro fare se non autoincoraggiarsi? Se non dirsi da sé quello che vorrebbe sentirsi dire dagli amici, dai colleghi, dai beneficiati, dai complici? Insomma, se nessuno lo acchiappa mentre precipita nel vuoto, al barone di Münchausen non rimane che acciuffare se stesso e tirarsi ferocemente per i capelli.

Alla fine dunque "Denis devi resistere", stampato sul giornale di cui Denis è il padrone assoluto, non è neppure narcisismo, è una carità fatta a se stesso, un grugno, una disperata solitudine. Certo, noi potremmo evocare il rispetto per lo scrivere e i diritti del lettore, ma qui non siamo davanti al solito giornalismo malandrino. Siamo oltre. Questa è roba triste, tenera e imbarazzante e tuttavia istruttiva nella sua verità crudele. Quel titolo infatti è come un odore, il residuo marginalissimo di una potenza compromessa che i potenti stanno liquidando per non compromettersi anch'essi.

Verdini è stato il vicerè di Berlusconi. Aveva in mano il partito. E si vantava di sapere appunto "resistere" ai mille questuanti che gli chiedevano un posto in commissione, una poltrona di sottogoverno, un prestito, un aiuto, un appalto... Raccontava agli amici di addormentarsi la sera contando gli sms degli "accattoni" del Pdl ai quali non avrebbe mai risposto, era infatti uno di quei sacerdoti berlusconiani disponibili ma sarcasticamente aggressivi, le sue concessioni economiche e politiche vibravano di allegria e di disprezzo, "non si può sorridere senza mostrare i denti" diceva di sé. Ebbene, di quella supremazia, di quella padronanza, della signoria solida certa e indiscussa e generosamente esercitata, rimane solo questo titolo di giornale, questo spasmo ventriloquo, questa impossibile auto salvazione alla Münchausen che Verdini concede al proprio rimpianto e alla costipazione del cuore, vale a dire alla psicanalisi.

L'idea di parlare di sé con sé o, meglio ancora, tra sé e sé è infatti una classica trovata da manuale popolare di autostima, uno di quelli che escono a dispense con la rivista Riza psicosomatica per esempio, e consigliano di mettersi davanti allo specchio e farsi i migliori complimenti, o andare a letto la sera dandosi tanti baci su tutto il corpo, cercando di arrivare anche lì dove, da soli, non si può arrivare. Nei Quaderni di esercizi di autostima editi da Vallardi e compilati da Rosette Poletti e Barbara Dobbs, si tratteggia, senza alcuna ironia, la differenza tra l'individuo com'è e come vorrebbe essere e si consiglia a chi, come Verdini, deve recuperare la fiducia in se stesso di esercitarsi sulla "facciata", vale dire "ciò che so di me e gli altri ignorano", passando per "ciò che gli altri sanno di me e io ignoro" sino all'"ignoto", che sarebbe "ciò che né io né gli altri sappiamo di me". Certo è roba da piazzisti della psiche. Ma forse c'è una fessura di luce tenebrosa nella commediola burlesca e dadaista del caso clinico Verdini che concede a se stesso sul proprio giornale l'amore che tutti ormai gli negano sugli altri giornali. Complicazioni inutili rispetto al barone di Münchausen che si tira per i capelli? Vediamo.

L'articolo di fondo che il giornale di Verdini ha pubblicato su Verdini è addolorato e mesto, ed è firmato dall'ex direttore Riccardo Mazzoni che lo stesso Verdini promosse e fece eleggere in Parlamento. Ed è bello che almeno questa fedeltà inconsolabile non sia venuta meno. Mazzoni, citando il "non ci sto" di Scalfaro ("che non mi piace") invita Verdini "a resistere resistere resistere", proprio come Borrelli ("che non mi piace"). È noto che l'uso della retorica del nemico rafforza la sofistica, ma si sa che i magistrati lavorano sull'ipotesi, ovviamente da provare, che i soldi avuti da Flavio Carboni siano serviti a Verdini proprio per il Giornale della Toscana che esce come supplemento fiorentino del il Giornale di Berlusconi ma, come abbiamo detto, è una testata autonoma di proprietà di Verdini. Mazzoni è un valoroso collega e certamente sa che lo stilema retorico cambiando campo cambia anche di segno. Ovviamente Verdini ha tutto il diritto di scrivere dove vuole, anche sul proprio giornale, che è innocente, ma a sinistra "resistere" significa combattere, mentre altrove sta per "calati iuncu ca passa la china", e dunque rimanda al silenzio, a trattenere piuttosto che fare esplodere la rabbia, insomma a ricacciare giù quel che il rancore porta furiosamente su. Come insegna la buonanima dell'eroe di Arcore.

di Francesco Merlo; la Repubblica

Salvezza

"Essere umili verso i superiori è un dovere, verso gli eguali è cortesia, verso gli inferiori è nobiltà, verso tutti è la salvezza".
Bruce Lee

venerdì 23 luglio 2010

Faccia tosta

Si rimane esterrefatti davanti alla multa che i carabinieri di San Felice Circeo hanno rifilato a Michele Izzo, segretario del sottosegretario (dimissionario) Cosentino. Era il 4 luglio, una domenica, e si sa quanto sia difficile parcheggiare d’estate nelle località di mare, alla faccia delle cassandre bolsceviche che starnazzano intorno alla crisi. Il segretario del sottosegretario aveva fretta di mangiare un gelato, eppure ha cercato un posto libero, finché ha dovuto rassegnarsi a prendere quello dei carabinieri. E che cosa avrebbe dovuto fare, di grazia? Parcheggiare nello spazio riservato ai Casalesi? Di sicuro era già occupato. Così, al ritorno dal gelataio, ha trovato la contravvenzione. Ed è andato a lamentarsi. «Non potete farmi questo. Io sono il segretario del sottosegretario, la mia è un’auto di servizio e mi trovo qui per ragioni istituzionali». (Il gelato, a San Felice, è un’istituzione.) Poiché i carabinieri cuor di ghiaccio continuavano a sventolare la multa, il sotto-sottosegretario ha addirittura minacciato una interrogazione parlamentare. Ma quelli non solo gli hanno ribadito l’ammenda: dal momento che l’auto risultava intestata a lui e non al ministero, lo hanno pure incriminato per false dichiarazioni.

Vorrei unire il mio al vostro stupore per la prova di coraggio. Dei carabinieri? No, del sotto-sottosegretario. Nell’estate in cui i manutengoli della Casta fanno di tutto per passare inosservati, esibire come autoblù un’auto che blu non è, pur di rivendicare la propria appartenenza alla categoria dei privilegiati, è quasi un gesto da kamikaze.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

sabato 17 luglio 2010

AAA

Cercasi Bruto disperatamente.

di Jena; LA STAMPA

Povero... Cesare

Ave direttore, attraverso il Suo giornale intendo denunciare l'uso improprio che in questi giorni si sta facendo del mio nome. Mi ritrovo coinvolto in resoconti bizzarri, tirato in ballo da individui a me del tutto ignoti. «Amm'a vedé Cesare» (ma che lingua è, sannita?). «Credo che il dossier sia arrivato nelle stanze di Cesare, i tribuni ne hanno già dato notizia». (Chiacchieroni perditempo, prima o poi li caccio e metto al loro posto una vestale). «Marcello parla anche a nome di Cesare». Alt. E chi sarebbe questo Marcello che parla a mio nome? Il glorioso console che conquistò Siracusa o il noto bibliotecario che tiene i contatti con Palermo? Ce n'è uno che si spaccia per mio cugino: gli dedicherò il «De bello pallico», una raccolta di barzellette lapidarie (la mia preferita è «Veni vidi Ici», dedicata al federalismo fiscale). Un altro tira in ballo la storia del «vice Cesare» e qui non vorrei sembrarle petulante, ma visto che sull'argomento ho già preso un bel po' di pugnalate, ribadisco che non esiste ancora un vice designato. L'ho spiegato a Bruto, a Marcantonio e anche ad Augusto, il quale mi dicono abbia avuto in dote il Tg1, ma non da me, ripeto, non da me. Ho il sospetto, direttore, che qualcuno a Roma stia usando impropriamente il mio nome per i suoi loschi affari. Appena torno dalla Gallia (lunedì sarò a Mediolanum con Aznavour) andrò in fondo a questa storia. Avrebbe per caso un dado da prestarmi? Firmato: Cesare (Caio Giulio)

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

L'amicizia

Lo conosci alla Statale di Milano che non hai ancora vent’anni. A ventitré cominci a lavorare per lui. A trentatré diventi il suo segretario personale e segui i lavori di ristrutturazione della sua villa: impianti elettrici e antifurto umano, un certo Mangano stalliere. A quarantuno entri nella sua concessionaria di pubblicità e gliela trasformi in una macchina da soldi. A cinquantadue converti la concessionaria in un partito politico ed è grazie a te se vince le elezioni. A cinquantaquattro vieni arrestato a Torino per un’indagine sui fondi neri della sua azienda, ti ritiri dietro le sbarre con un’edizione rilegata dei Promessi Sposi e sopporti tutto in silenzio, persino il chiasso di Sgarbi quando corre a visitarti in carcere. A cinquantotto patteggi una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale e false fatture relative a un’azienda il cui proprietario è lui. A sessantanove sei condannato in appello a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa e intanto rilasci interviste sulla sua bontà e su quella di Mussolini, lo consigli, lo proteggi, ti fai intercettare in conversazioni curiose con un coordinatore del suo partito e un piduista sardo. E lui, invece di dedicarti un monumento a cavallo con stalliere o almeno un vialone di villa Certosa con vista sulle ballerine, che cosa fa? Ti definisce «pensionato sfigato».

Bell’amico si è scelto, dottor Dell’Utri.

di Massimo Gramellini, LA STAMPA

lunedì 12 luglio 2010

Il salotto (II)

Come al solito occorre rivolgere un supplemento d'attenzione ai segni, con la speranza che indichino un passaggio non solo d'epoca, ma anche di consegne pratiche e di simbolico testimone. Così accade che mentre ancora ci si esercita sugli effetti della gran cena di potere consumatasi l'altra sera sul preziosissimo terrazzo di Bruno Vespa, giovedì prossimo, da Christie's, vanno all'asta i quadri, i mobili e gli arredi che allietavano la nomenklatura nel celebre villino, anch'esso in vendita, di Maria Angiolillo a Trinità dei Monti, qualche metro più sotto.

La simultaneità dei due eventi si estende al fatto che la dimora di Vespa appartiene a Propaganda Fide e che la sede di quest'ultima, specie di agenzia Immobil-Dream per titolati frequentatori del privilegio, è anch'essa a un passo dall'ideale segmento che unisce il Villino "Giulia" dalla Tavola del conduttore di Porta a Porta. Ma per non farsi mancare alcun emblematico indizio va pure detto che il cinquantesimo del sacerdozio del cardinal Bertone, celebrato la scorsa settimana, a sua volta corrisponde con il cinquantesimo del Vespone nel giornalismo, ricorrenza degnamente commemorata nell'impegnativa cena con Berlusconi, Letta, Casini, il banchiere Geronzi, il Governatore Draghi e il Segretario di Stato vaticano, fra l'altro vero padrone della magnifica casa di Vespa.
Tutto ciò per dire, con legittimo azzardo interpretativo, che per molteplici vie la missione dell'Angiolillo ha rapidamente trovato in Vespa il suo erede. Parlare di semplice salotto pare in effetti riduttivo. E non perché Vespa possiede già un salotto televisivo dedito alla consacrazione del comando. E' che pure dal punto di vista logistico, lassù in cima alla Rampa Mignanelli si continuano dunque a porre in atto trame, ricami, orlature e mediazioni, compensazioni e combinazioni che ogni convivio o "attovagliamento", per dirla con Dagospia, inesorabilmente trasformano in un autentico e idolatrico santuario del Potere.

Lo scorso Natale, il primo senza Maria, gli abituali suoi ospiti vagheggiarono l'idea di una fondazione per tramandarne la memoria. Gianni Letta promise anche una giornata di studio, con tanto di borsa, alla Luiss; così come Carlo Rossella rivelò il sorgere di una specie di culto para-religioso "perché Maria era tanto buona e faceva del bene. Lo sapete che adesso a Roma - spiegava - c'è pure chi la invoca. Maria prega per me, dicono così. Perché pare che lei abbia già fatto del bene anche da morta: incontri fortunati, posti di lavoro...".
Vespa, che la ricordò in una puntata della sua trasmissione, raccoglie dunque un mandato piuttosto oneroso. Detto questo, fosse rimasta segreta, quella sua cena con ospiti così titolati avrebbe potuto a pieno titolo animare uno dei gialli tipo Il sigillo della porpora (Rusconi, 1988) che alla fine degli anni '80 scriveva con qualche successo di pubblico e di critica Luigi Bisignani, gran conoscitore della Roma dei poteri forti e di norma immutabili nella loro impassibilità.

Se invece si trattava di un pasto destinato alla divulgazione, in tal modo inevitabilmente risolvendosi in una trappola ai danni di presidenti del Consiglio in difficoltà, banchieri smaniosi, politici in deficit di protagonismo, cardinali un po' impiccioni e così via, beh, dispiace solo che all'ingresso e all'uscita stavolta siano mancati i flash di Umberto Pizzi, artista del "Cafonal".

Al rito dell'agguato fotografico l'Angiolillo, per sua natura donna discreta, ma generosa, aveva finito per adeguarsi. Ma quasi mai trapelava la sostanza delle interiori vicissitudini di quelle cene che un certo provincialismo designava molto più maestose di quanto fossero. Solo Vespa, nei suoi libri, era in qualche modo autorizzato a delinearne le premesse simboliche, non di rado dilungandosi golosamente su menù, libagioni, suppellettili, e "i profumi prorompenti del giardino", "le porcellane preziose", "i cristalli d'epoca", i camerieri in livrea descritti come "fantasmi operosi e silenti" mentre versavano "rispettosamente" nei calici l'annata del vino tal dei tali. Là dove il segreto di quelle occasioni "esclusive" (dal latino exclaudo, chiudo fuori, possibilmente a chiave) stava piuttosto nel senso della rivendicata separatezza, nella dimensione pregiudizialmente e orgogliosamente oligarchica di quei consessi gastro-politici che sembrano ripetersi senza posa in questa città che ne ha viste tante, e non delle più edificanti.

Una ventina d'anni prima degli esordi letterari vespiani, nell'incompiuto Petrolio, Pier Paolo Pasolini aveva così descritto un tipico pasto di potere: "La compagnia si sedette attorno alla bianca tovaglia posando i pesanti culi fasciati di stoffe scure sulle seggiole riservate ai grandi della terra, capaci tuttavia di modestissime cene terrene". Non s'intende qui, com'è ovvio, mettere a confronto due stili, quanto sottolineare l'evoluzione del genere conviviale, comunque destinato a perpetuarsi.

Tra l'Angiolillo e Vespa, pur nella continuità degli ospiti e delle dislocazioni nel fastoso scenario di Piazza di Spagna, sembra però di cogliere la distanza che intercorre dal culto delle buone maniere all'ineluttabile prepotenza della comunicazione; dal regno antiquato dell'estetica a quello multi-vision della tv; da un sogno di misura e di riservatezza perfino signorile allo sfolgorio e allo sfoggio del più scoperto protagonismo. E il giornalista diventa lui la storia. Il gioco delle alleanze, l'alchimia del prestigio e il primato delle poltrone restano quelli di sempre. Che poi tutti i convitati si divertano davvero, in queste cene segrete e meno segrete, è arduo a dirsi. Ma Vespa sicuramente sì.

di Filippo Ceccarelli; la Repubblica

domenica 11 luglio 2010

Il salotto

Le domeniche di afa e di solleone incitano al raccoglimento e a pensieri non degradati dall'attualità. Emerge per esempio - ed è inconsueta la fonte dalla quale provengono questi segnali - un sentimento d'infelicità, una noia di vivere tra immagini false e verità mascherate, il senso d'un declino inarrestabile, la necessità di ricominciare da zero abbandonando ogni retaggio lungo una strada erta di sassi e opaca per la polvere che la sommerge.

Le fonti che emettono questi segnali sono inconsuete perché fino a poco tempo fa essi erano del tutto diversi: si esaltavano conquiste di buon governo, prevalenza di spiriti liberali, dominanza d'un privato efficiente e sano e un lodevole ritrarsi d'un pubblico ancora inquinato da ideologie e impoverito da sprechi e ruberie.

Sembrava - e così veniva fatto credere - che fossimo finalmente entrati in una fase costruttiva della quale perfino una rinata fede religiosa contribuiva a rafforzare i lineamenti e gli obiettivi fornendo un plus di valori ad una buona laicità capace di coniugare la fede con la ragione.

Come mai, nel volger di pochi mesi e addirittura di poche settimane questo quadro positivo ha lasciato il posto allo sconforto? Perché le tinte rosee che lo illuminavano hanno di colpo assunto colori foschi dominati da nubi plumbee cariche di pioggia e di fulmini? Viene in mente che la causa possa essere di materia economica, la crisi che ha investito l'intero pianeta e in particolare le economie occidentali dei paesi opulenti.

Ma non è così, non è questa l'origine dei segnali di sconforto: la crisi infatti è cominciata da oltre due anni e secondo gli esperti ha superato la fase più acuta; anche se molte preoccupazioni persistono, esse non spiegano quel sentimento di frustrazione che si va diffondendo e che molti "laudatores" delle nuove libertà registrano con sconsolato scoramento.

Personalmente non mi stupisco di questo capovolgimento di atmosfera, di questa caduta di speranze e opacità di futuro. Ho scritto un libro in cui si racconta la storia di un'epoca che ha alle sue spalle quattro secoli ed ora dà segnali di estenuazione. Può darsi che non sia il solo ad aver colto il gran finale della modernità, che ha rappresentato il culmine della civiltà occidentale ed ora si decompone di fronte ad una sorta d'invasione barbarica che azzera i retaggi e inventa nuovi linguaggi e nuovi modelli.

La modernità ha dato ciò che poteva ma non si è ancora spenta: sta difendendo i suoi valori che i nuovi barbari imbrattano e insultano. Può darsi - me lo auguro - che alcuni intellettuali organici a quel nuovo e barbaro potere si siano resi conto della deriva in corso e siano diventati disorganici, secondo una felice definizione di Umberto Eco. Sarebbe un evento fausto. Spero che non sia un vago miraggio destinato rapidamente a dissipare.

* * *

L'attualità di queste ore ci riporta alle consuete banalità di un potere che si disarticola giorno dopo giorno: all'indomani d'uno sciopero di tutto il sistema dell'informazione che ha risposto massicciamente all'appello dei suoi sindacati e della propria coscienza professionale, il presidente del Consiglio non ha trovato di meglio che accusare i giornali di sinistra di menzogna e disfattismo perché racconterebbero un'immagine del paese che sarebbe secondo lui l'opposto di una realtà positiva, stabilizzata economicamente e socialmente equa.

Nelle stesse ore i sondaggi d'opinione hanno registrato - confrontando i dati della prima settimana di maggio con la prima di luglio - un calo di fiducia nel "premier" dal 50 al 41 per cento e un aumento della sfiducia dal 48 al 57.

I sondaggi sono una fotografia del presente e nulla ci dicono su come evolverà, ma non accadeva da anni uno smottamento così cospicuo del consenso berlusconiano. La caduta più vistosa si è verificata nel Nordest, nel Mezzogiorno continentale e nelle isole (specialmente in Sardegna). Il caso Brancher è stato l'elemento determinante insieme alla manovra economica e alla legge-bavaglio sull'informazione.

Lo scrittore Salman Rushdie, in un articolo di lunedì scorso sul nostro giornale, a proposito delle contraddizioni che costellano il nostro presente cita il romanzo "Gold!" di Joseph Heller e il personaggio dell'Assistente presidenziale che pronuncia frasi la cui fine contraddice sistematicamente l'inizio. Eccone una: "Il nostro Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse". Purtroppo siamo abituati a questa tecnica dell'imbonimento sotto la quale non c'è assolutamente nulla.

* * *

La manovra economica è stata un altro macroscopico esempio della disarticolazione del blocco di consenso berlusconiano. Fino all'ultimo il presidente del Consiglio ha cercato di disinnescare le mine che scuotevano il dissenso nelle sue file. Ha ottenuto poco o niente: briciole di piccoli miglioramenti lobbistici che hanno appagato piccole categorie (rinvio delle multe sul latte, compensazione tra debiti e crediti verso il fisco in favore di alcuni settori industriali) senza alcun piano coerente.

La coerenza è così rimasta quella di Tremonti che ha ormai portato in salvo la sua manovra da 25 miliardi invocando l'Europa come madre di queste restrizioni che tutti i paesi membri hanno adottato e che Berlusconi alla fine ha dovuto sottoscrivere.

Il problema non è se la manovra tremontiana dovesse farsi oppure no.
Abbiamo più volte scritto e qui lo ripetiamo che la manovra che ha come obiettivo la stabilizzazione del
debito pubblico era necessaria. I criteri possono essere controversi ma l'aggiustamento sui Ministeri e sulle Regioni era indispensabile.

Il problema riguarda la seconda parte della manovra, quella che non è mai stata scritta perché Tremonti, sostenuto dalla Commissione di Bruxelles e soprattutto da Bce e dal suo presidente Trichet, si è rifiutato di prenderla in considerazione: cioè gli stimoli alla crescita e il sostegno della domanda, dei redditi medio bassi e degli investimenti che ne conseguono.

Paul Krugman, premio Nobel per l'Economia, ha ricordato in una recente intervista al Sole 24 Ore che nel 1933 l'allora presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, lanciava messaggi in tutto simili a quelli che oggi lanciano la Commissione di Bruxelles, la Banca centrale europea e il governo della Germania federale: rigore rigore rigore, è questa la sola ricetta che scoraggia la speculazione e farà aumentare la domanda quando gli effetti di stabilizzazione saranno consolidati.

Quando Franklin D. Roosevelt arrivò alla Casa Bianca pochi mesi dopo l'economia americana era alla canna del gas. Avesse tardato ancora a mettere in opera la reflazione, il sistema sarebbe crollato ancor più di quanto stava avvenendo, con una crisi che ancora non era stata domata nel 1937, cioè otto anni dopo il suo primo insorgere.

Tremonti si ripara dietro le spalle dell'Europa, Berlusconi non ha alcun piano alternativo da contrapporgli poiché ha le mani legate dal suo "mantra" di non toccare le tasse. Mantra già smentito dai fatti poiché per tacitare almeno i Comuni e le Province Tremonti ha concesso la "tassa di servizio", nuova imposta di cui gli enti locali si serviranno per sopravvivere e che gli procurerà 5 miliardi l'anno. Ecco il primo buco nelle tasche degli italiani, cui altri inevitabilmente seguiranno, purtroppo senza sortire effetto desiderabile di rilanciare la crescita. Ci vorrebbe infatti un programma coerente, non uno stillicidio lobbistico. L'opposizione ha promesso che lo sta studiando. Si sbrighi e poi lo ponga come base di una politica forte e innovativa. Il tempo non aspetta.

* * *

Nel frattempo c'è anche chi trova il tempo per festeggiare in pompa magna il cinquantenario giornalistico di Bruno Vespa. Cena giovedì scorso nell'abitazione del conduttore - padrone di "Porta a Porta" ospiti con le rispettive consorti: Gianni Letta, Mario Draghi, Cesare Geronzi e Pier Ferdinando Casini; Silvio Berlusconi con la figlia Marina e il cardinale segretario di Stato, Bertone, ovviamente celibe.

Sembra si sia parlato di tutto, manovra economica compresa. Forse anche dei Mondiali di calcio e della non brillante performance degli "azzurri". Forse di intercettazioni. Sicuramente dell'invito a "Pier" di tornare a casa, cioè nell'alleanza di centrodestra. Berlusconi gli avrebbe proposto di rifondare la Dc, gli avrebbe offerto il ministero dello Sviluppo, forse quello degli Esteri, sicuramente la vicepresidenza del Csm. Casini avrebbe ringraziato ma declinato, a meno che non si passi attraverso una formale crisi di governo. Letta ha concluso che tutto è rinviato ma qualche cosa è cominciato.

Mentre scrivo mi arriva sul tavolo un'Ansa con un comunicato ufficiale del ministro dell'Interno, Bobo Maroni. Con riferimento appunto alla cena di Vespa, Maroni accusa la classe politica d'esser tornata ai salotti del 1992, aggiunge che qualunque ritorno al governo dell'Udc provocherebbe l'immediata uscita dal medesimo della Lega e comunica che in caso di crisi ministeriale la Lega chiederebbe l'immediato ritorno del popolo sovrano alle urne. Una specie di convitato di pietra che si è fatto vivo con ventiquattr'ore di ritardo per stabilire chi è il padrone del vapore in questo momento.

Non si hanno altre notizie su quella cena, soprattutto sul ruolo di Draghi, Geronzi e Bertone nella conversazione. Si strologa. Che altro si può fare? Geronzi si è complimentato con Draghi per il suo lavoro allo Stability Financial Forum. Draghi con Bertone per l'efficienza del volontariato cattolico. Bertone con Marina per le opere di assistenza da lei finanziate.

Casini ha chiesto notizie a Marina sulla causa in corso con De Benedetti per il risarcimento del danno subito dalla Cir per il lodo Mondadori. Berlusconi ha pestato un piede alla figlia e le ha fatto gli occhiacci affinché lasciasse cadere la domanda. Marina non ha capito e ha fatto cadere in terra il tovagliolo. Bertone s'è inchinato per raccoglierlo ma ha dato una testata al bordo del tavolo.

Letta ha pregato la padrona di casa di portare ghiaccio e bende di lino per la fronte del porporato. Vespa ha versato champagne nei calici, il premier ha gridato Viva Vespa, ricordando il Viva Verdi che infiammava le riunioni dei cospiratori giacobini del Risorgimento. Vespa ha obiettato che i presenti non erano né cospiratori né tanto meno giacobini.

Alla fine sono tutti usciti da un portoncino laterale su piazza Mignanelli.
Notte afosa. Nuvole di zanzare intorno alla fontana della Barcaccia. La macchina nera targata Vaticano ha sgommato verso il Babuino. Un ragazzotto in maglietta ha detto ad un altro che era con lui: "Aò, là drento c'era 'n cardinale. Chissà 'n do va a quest'ora". "Ma che te frega a te" ha risposto l'altro. "Annerà a pregà per i peccati der prossimo e pe li sua".
[I fatti qui riferiti sono di pura fantasia. Ogni riferimento è puramente casuale].

di Eugenio Scalfari; la Repubblica

Alla deriva

Altro che Sanremo. Se c'era un festival, in Italia, che aveva la sua bella bandierina infilata sulla mappa degli appassionati di musica senza frontiere, era il Rototom Sunsplash di Osoppo, Udine. Un comune di tremila anime, che nelle estati dell'ultimo decennio è arrivato a contarne regolarmente 150mila. Un fiume umano, con affluenti da tutta Europa, sospinto dalla voglia di reggae verso un raduno tanto diverso dai consueti festival estivi, carichi di rockstar ma in fondo tanto simili a se stessi.

L'imperfetto è d'obbligo. Perché il Rototom non abita più qui. Dopo sedici edizioni in Friuli, che lo hanno reso il più grande raduno europeo dedicato alla musica e alla cultura reggae, il Rototom da quest'anno è patrimonio dell'offerta estiva spagnola. Si terrà dal 21 al 28 agosto a Benicassim, località costiera della "comunidad valenciana", il luogo prescelto per vivere ancora dieci giorni di inconfondibile ritmo, chitarre sordinate, buone vibrazioni, dove coltivare la memoria di Bob Marley e celebrare i suoi successori. Che quest'anno rispondono ai nomi di Glen Washington, Queen Ifrika, Marcia Griffiths, gli italiani Africa Unite, Khaled e Alpha Blondy tra gli altri.

Da Benicassim, il direttore del festival Filippo Giunta descrive la scelta come dettata "dalla situazione politica in Italia, che chiude la porta agli stranieri e dove non si può esprimere la filosofia della tolleranza''. Un altro portavoce del Rototom, Fernando Roqueta, se la prende direttamente con Berlusconi. "Lui ne ha abbastanza di noi e noi di lui''.

Al di là degli slogan, i problemi al Rototom li ha creati la magistratura. Nel 2009 il pm Giancarlo Buonocore della procura di Tolmezzo apre un fascicolo a carico di Giunta contestandogli la violazione dell'articolo 79 della legge Fini-Giovanardi del 2006 sulle droghe. Che recita: "Chi adibisce o consente che sia adibito un locale pubblico o un circolo privato di qualsiasi specie a luogo di convegno di persone che ivi si danno all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope è punito, per questo solo fatto, con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 3.000 ad euro 10.000".

Di qui, la scelta dell'esilio. Il Rototom emigra verso luoghi meno ostili nei riguardi del reggae e della sua cultura. Che non è solo marijuana e antiproibizionismo, ma anche approfondimento della religione rastafari, antirazzismo, non violenza, armonia con l'ambiente.

Se non è stato il "clima politico" denunciato da Giunta a muoverla (da due anni il centrodestra governa in Friuli), la magistratura ci ha messo un po' a realizzare. Bob Marley se n'era andato da tempo quando, nel 1994, la discoteca "alternativa" Rototom inaugura la rassegna con due giorni di musica, cultura e religione giamaicana in un campeggio improvvisato a Spilimbergo, in provincia di Pordenone. Nel 1996 i giorni diventano tre. Nel 1998 il festival si sposta a Latisana (Udine), dove si impone come l'evento reggae più seguito d'Europa, trasmesso in diretta web.

A Osoppo, nel 2000, il salto di qualità, grazie a un campeggio attrezzato, corsi di musica, danza, arte, stand, ristoranti e sempre più artisti da ogni parte del mondo per un evento che raggiunge i 10 giorni di durata. Fino all'edizione 2009, poi l'annuncio dell'addio a Osoppo, tra il disappunto del pubblico italiano e degli operatori della zona, che con il puntuale ritorno dei rastafariani facevano affari d'oro.

"Ma il Rototom - aveva fatto sapere l'associazione - non arretra di un millimetro nella sua battaglia per una crescita culturale ed economica della nostra terra". Battaglia che si esprime attraverso la campagna di musica e solidarietà "Non processate Bob Marley", a tutela della libertà di espressione, che ha visto nei mesi scorsi tappe a Milano e Bologna e Roma.

Prima dell'evento di Benicassim, l'organizzazione ha voluto mantenere un legame con il Friuli condensando una due giorni gratuita, ribattezzata "Rototom Free", dal titolo di una canzone dedicata alla vicenda del festival dalla reggae star Alborosie (in download gratuito sul sito ufficiale della manifestazione). Così il 2 e 3 luglio, al Parco del Cormor (Udine), si ritrovano in 30mila.

Per la musica, certo, ma anche per ascoltare Marco Travaglio discutere con Beppino Englaro del "Caso Italia". Dove una tavola rotonda sulla letteratura migrante in lingua italiana accomuna Mihai Butcovan, Gabriella Kuruvilla, Tahar Lamri, Tommaso Cerno e Francesca Spinelli. Dove a un dibattito sul problema delle carceri intervengono al telefono anche don Andrea Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto, e Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano.

Tutto questo in attesa - quando e se verranno archiviate le accuse - del ritorno a Osoppo del Rototom. Che persino l'Unesco ha proclamato "evento emblematico del decennio internazionale per una cultura di pace e non violenza".

di Paolo Gallori; la Repubblica

sabato 10 luglio 2010

Sminzoliniamoli

Ma perché sono stati mobilitati i reparti antisommossa per fermare un corteo di terremotati pacifici, senza black bloc e senza giovani rivoluzionari armati di estintori? Le immagini in diretta della benemerita Sky, che non è certo una riedizione di Telekabul ma soltanto si limita a non applicare il "codice Minzolini", hanno fatto vedere in maniera inequivocabile che la marcia degli Aquilani a Roma era al tempo stesso popolare e ragionevole. Di sicuro, tra molte donne e tanti anziani non c'erano i professionisti del passamontagna, niente sbarre e bastoni, niente bandiere rosse e neppure ghigni e grugni di facinorosi. In generale si sa che i terremotati sono spesso arrabbiati ma raramente pericolosi, e in particolare gli abruzzesi dell'Aquila sono di natura ben più quieti dei sovversivi siciliani del Belice, non sono agitati dalle turbolenze plebee degli irpini e non hanno neppure le durezze calviniste dei friulani. Insomma, da che mondo è mondo, tutti i terremotati cercano aiuti e organizzano marce, chiedono procedure speciali e facilitazioni fiscali come quelle che ieri sera sono state inserite e approvate, con un lodevole emendamento, nella finanziaria. I terremotati dell'Aquila esigono, con molte buone ragioni, i mutui agevolati, pungolano la cultura scientifica, premono sulle banche, sperano nei governi e pretendono la solidarietà che, per la verità, gli italiani sono sempre disposti a dare, anche in forma di tasse e pur diffidando da sempre, e giustamente, della buona amministrazione: «Si incolpa solo il Fato/ l'Evento se è ferale / l'uomo è peggior del male / l'aiuto ei si rubò» scriveva il principe di Biscari dopo la distruzione di Messina in un lunghissimo e bellissimo poemetto che prefigura la Protezione civile del pio Bertolaso. Ma il terremotato è soprattutto facile preda dei demagoghi e degli sciacalli: «Smarriti e timorosi / ninfe, pastori e armenti / vittime dei verbosi / manipolator di menti». Insomma alla fine tutto si può fare dinanzi ad una piccola folla di terremotati infelici che ti vengono a cercare fin sotto casa, e si può persino usare ancora la demagogia, ma non è lecito affrontarli con la pesantezza dei manganelli della polizia: «Trema il suolo, il mar ci inonda / sordo è il re ai mesti accenti / fra gli affanni ed i lamenti / chi soccorso a noi darà?». Dunque il presidente del Consiglio, che era impegnato a Palazzo Grazioli in una delle tante assemblee contro i traditori e gli ingrati, non solo non è sceso fra questi disgraziati manifestanti aquilani a spiegare tutte le meraviglie che erano state propalate dal Tg1 solo due mesi fa sotto il titolo «il miracolo della ricostruzione» nell'anniversario del sisma dell'aprile 2009, ma, come un caudillo sudamericano, si è nascosto dietro un diluvio di poliziotti che di nuovo hanno usato la violenza, e di nuovo sui più innocenti, sulle vittime per definizione come sono appunto le vittime delle sciagure naturali, che in Italia si affiancano alle violenze sociali, alle mafie, alla corruzione, al malgoverno. Ma perché ha paura della folla aquilana il premier che all'Aquila ha fatto i suoi più riusciti bagni di folla? Ai tempi delle promesse, quando disse che l'Aquila sarebbe tornata «più bellae più florida di prima» Berlusconi arrivava all'improvviso per sopralluoghi nei paesaggi delle macerie informi, per comizi a gente rabbrividente e tutta stonata, maneggiava con sagacia e, bisogna riconoscere anche con efficacia immediata, il primo danaro del pronto soccorso, ordinava di seppellire i morti e accoglieva, un po' spronandole e un po' intestandosele, le carovane della solidarietà di un'Italia che come sempre si univa nella disgrazia, perché nelle peggiori tragedie ci capita di dare il meglio di noi: sottoscrizioni, copiosissime donazioni di sangue, offerte di ospitalità... Davvero ci sentimmo ed eravamo tutti abruzzesi. Per quelle dignitose lacrime di poco più di un anno fa, ci sono adesso familiari i volti degli abruzzesi in corteo a Roma. Sono i volti dei nostri fratelli perché l'Aquila è più che mai una questione nazionale che Berlusconi ha il dovere di affrontare anche in Parlamento,e magari tornando nei suoi tg a spiegare che cosa si deve fare di quel centro storico che rischia di morire, come i giornalisti di ogni tendenza, italiani e stranieri, hanno ormai documentato. Vuole ricostruirlo o vuole abbandonarlo? È Berlusconi che volle celebrare all'Aquila quel G8 che, dirottato apposta dalla Maddalena, ha poi aperto il capitolo nero della sporcizia di Stato che faceva capo alla Protezione civile. È Berlusconi che ad ogni piè sospinto gridava: «Non vi abbandonerò mai». Tutti sanno che il governo Berlusconi esordì con le promesse della ripulitura di Napoli e della ricostruzione dell'Aquila. E nessun'altra catastrofe sismica ha provocato tanti carmi e tante elegie, odi e inni sulla ricostruzione e sul suo miracolo, neppure la rinascita di Lisbona che nella storia dell'umanità è stata certamente la più cantata. Attenzione: noi non neghiamo che il premier seppe spendersi anche sul piano personale. Ma la storia insegna che qualsiasi città terremotata inizialmenteè popolata da sciacalli e becchini, da ciarlatani e trascinatori di folle e da speculatori contenti, come quegli imprenditori che, legati alla cricca, inneggiarono alla distruzione dell'Aquila prima ancora dell'ultima scossa. È dopo che la città sventrata diventa un cantiere, sveglia i talenti finanziari e imprenditoriali, crea ad un tempo i ricostruttori e i garanti della memoria storica. Insomma solo dopo il tempo dello sciacallo, che in passato veniva impiccato senza processo, comincia il tempo della responsabilità. Chiuso nel suo bunker, circondato da legioni di manganellatori, Berlusconi si nega alla responsabilità di decidere cosa fare di quel centro storico. Smascherato «il miracolo della ricostruzione», ora gli italiani sanno che ci sono stati politici che hanno lucrato sul patetico e sull'estetica delle rovine e palazzinari che hanno organizzato, anche bene, il festival del prefabbricato di periferia. Ma può essere lo sciacallaggio il destino dell'Aquila?

La sfida

Scrivere una lettera è una di quelle cose che si fa raramente e solo con le persone alle quali si tiene veramente. Se ho deciso di farlo è perché la cosa che mi sta più a cuore in questo momento è potervi parlare apertamente.
Per condividere con voi alcuni pensieri e per fare chiarezza sulle tante voci che in questi ultimi mesi hanno visto voi e la Fiat al centro dell’attenzione. Non è la Fiat a scrivere questa lettera, non è quell’entità astratta che chiamiamo «azienda» e non è, come direbbe qualcuno, il «padrone».

Vi sto scrivendo prima di tutto come persona, con quel bagaglio di esperienze che la vita mi ha portato a fare. Sono nato in Italia ma, per ragioni familiari e per motivi di lavoro, ho vissuto all’estero la maggior parte dei miei anni e conosco bene la realtà che sta al di fuori del nostro Paese. Ed è questa conoscenza che sto cercando di mettere a disposizione della Fiat perché non resti isolata da quello che succede intorno.

Vi scrivo da uomo che ha creduto e crede ancora fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo. Prendete questa lettera come il modo più diretto e più umano che conosco per dirvi come stanno realmente le cose. Ci troviamo in una situazione molto delicata, in cui dobbiamo decidere il nostro futuro. Si tratta di un futuro che riguarda noi tutti, come lavoratori e come persone, e che riguarda il nostro Paese, per il ruolo che vuole occupare a livello internazionale. Basta pensare a quanto è basso il livello degli investimenti stranieri in Italia, a quante imprese hanno chiuso negli ultimi anni e a quante altre hanno abbandonato il Paese per capire la gravità della situazione.

Invertire la crisi
Non nascondiamoci dietro il paravento della crisi. La crisi ha reso più evidente e, purtroppo, per molte famiglie, anche più drammatica la debolezza della struttura industriale italiana. La cosa peggiore di un sistema industriale, quando non è in grado di competere, è che alla fine sono i lavoratori a pagarne direttamente - e senza colpa - le conseguenze. Quello che noi abbiamo cercato di fare, e stiamo facendo, con il progetto «Fabbrica Italia» è invertire questa tendenza. I contenuti del piano li conoscete bene e prevedono di concentrare nel Paese grandi investimenti, di aumentare il numero di veicoli prodotti in Italia e di far crescere le esportazioni. Ma il vero obiettivo del progetto è colmare il divario competitivo che ci separa dagli altri Paesi e portare la Fiat ad un livello di efficienza indispensabile per garantire all’Italia una grande industria dell’auto e a tutti i nostri lavoratori un futuro più sicuro. Non ci sono alternative.

La Fiat è una multinazionale che opera sui mercati di tutto il mondo. Se vogliamo che anche in Italia cresca, rafforzi le proprie radici e possa creare nuove opportunità di lavoro dobbiamo accettare la sfida e imparare a confrontarci con il resto del mondo. Le regole della competizione internazionale non le abbiamo scelte noi e nessuno di noi ha la possibilità di cambiarle, anche se non ci piacciono. L’unica cosa che possiamo scegliere è se stare dentro o fuori dal gioco. Non c’è nulla di eccezionale nelle richieste che stanno alla base della realizzazione di «Fabbrica Italia». Abbiamo solo la necessità di garantire normali livelli di competitività ai nostri stabilimenti, creare normali condizioni operative per aumentare il loro utilizzo, avere la certezza di rispondere in tempi normali ai cambiamenti della domanda di mercato. Non c’è niente di straordinario nel voler aggiornare il sistema di gestione, per adeguarlo a quello che succede a livello mondiale.

Credere nell’Italia
Eccezionale semmai - per un’azienda - è la scelta di compiere questo sforzo in Italia, rinunciando ai vantaggi sicuri che altri Paesi potrebbero offrire. Anche la proposta studiata per Pomigliano non ha nulla di rivoluzionario, se non l’idea di trasferire la produzione della futura Panda dalla Polonia in Italia. L’accordo che abbiamo raggiunto ha l’unico obiettivo di assicurare alla fabbrica di funzionare al meglio, eliminando una serie interminabile di anomalie che per anni hanno impedito una regolare attività lavorativa. Proprio oggi abbiamo annunciato che, insieme alle organizzazioni sindacali che hanno condiviso con noi il progetto, metteremo in pratica questo accordo. Insieme ci impegneremo perché si possa applicare pienamente, assicurando le migliori condizioni di governabilità dello stabilimento.

So che la maggior parte di voi ha compreso e ha apprezzato l’impegno che abbiamo deciso di prendere. Credo, inoltre, che questo non sia il momento delle polemiche e non voglio certo alimentarle. Ma di fronte alle accuse che sono state mosse e che hanno messo in dubbio la natura e la serietà del progetto «Fabbrica Italia», sento il dovere di difenderlo. Non abbiamo intenzione di toccare nessuno dei vostri diritti, non stiamo violando alcuna legge o tanto meno, come ho sentito dire, addirittura la Costituzione Italiana.

Non mi sembra neppure vero di essere costretto a chiarire una cosa del genere. E’ una delle più grandi assurdità che si possa sostenere. Quello che stiamo facendo, semmai, è compiere ogni sforzo possibile per tutelare il lavoro, proprio quel lavoro su cui è fondata la Repubblica Italiana. L’altra cosa che mi ha lasciato incredulo è la presunta contrapposizione tra azienda e lavoratori, tra «padroni» e operai, di cui ho sentito parlare spesso in questi mesi. Chiunque si sia mai trovato a gestire un’organizzazione sa bene che la forza di quell’organizzazione non arriva da nessuna altra parte se non dalle persone che ci lavorano.

Voi lo avete dimostrato nel modo più evidente, grazie al lavoro fatto in tutti questi anni, trasformando la Fiat, che nel 2004 era sull’orlo del fallimento, in un’azienda che si è guadagnata il rispetto e la stima sui principali mercati internazionali. Quando, come adesso, si tratta di costruire insieme il futuro che vogliamo, non può esistere nessuna logica di contrapposizione interna. Questa è una sfida tra noi e il resto del mondo. Ed è una sfida che o si vince tutti insieme oppure tutti insieme si perde.

Un impegno collettivo
Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici in vista di un obiettivo che vada al di là della piccola visione personale. Questo è il momento di lasciare da parte gli interessi particolari e di guardare al bene comune, al Paese che vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni.

Questo è il momento di ritrovare una coesione sociale che ci permetta di dare spazio a chi ha il coraggio e la voglia di fare qualcosa di buono. Sono convinto che anche voi, come me, vogliate per i nostri figli e per i nostri nipoti un futuro diverso e migliore. Oggi è una di quelle occasioni che capitano una volta nella vita e che ci offre la possibilità di realizzare questa visione. Cerchiamo di non sprecarla.
Grazie per aver letto questa lunga riflessione e grazie a tutti quelli, tra voi, che vorranno mettere le loro qualità e la loro passione per fare la differenza.
Buon lavoro a tutti.

Sergio Marchionne

giovedì 8 luglio 2010

Schierato

The sound of silence

La Stampa domani mattina non sarà in edicola, come la maggior parte dei quotidiani italiani, nel tentativo estremo di protestare contro la cosiddetta legge sulle intercettazioni, una legge che consideriamo sbagliata perché non sembra scritta per garantire una maggiore privacy agli italiani (diritto sacrosanto) ma per rendere più problematiche e difficili indagini e inchieste e per diminuire le possibilità dei cittadini di sapere cosa accade.

Così abbiamo deciso di aderire a questo sciopero, ma non posso nascondere che lo abbiamo fatto a malincuore, dopo aver proposto e indicato per settimane possibili strade alternative secondo noi più efficaci e valide. Strade che abbiamo sperimentato sulle pagine di questo giornale spiegando con chiarezza ai lettori come la legge in discussione in Parlamento diminuirebbe la loro possibilità di essere informati e di poter giudicare consapevolmente.

Siamo convinti che nel momento in cui si denuncia il tentativo di imbavagliare l’informazione, nel momento in cui il presidente del Consiglio invita i cittadini a scioperare contro i giornali lasciandoli invenduti in edicola, la scelta migliore da fare fosse quella di continuare a far sentire la propria voce (in modo sereno, pacato e credibile, come è nella tradizione di questo giornale), non quella di rinunciare ad arrivare nelle edicole e nelle case degli italiani e di condannarsi al silenzio.

Nonostante la nostra contrarietà allo sciopero, abbiamo aderito per senso di responsabilità: per non aprire fronti polemici e per non creare fratture tra giornali e giornalisti in un momento così delicato, ma ci teniamo a sottolineare che pensare di ricorrere allo sciopero in modo rituale e quasi obbligato è qualcosa che non ci trova d’accordo.

Vale però la pena di ricordare un’altra volta che lo scontro sulla legge non è una questione privata tra il potere politico e i giornalisti, ma una questione che investe per intero la nostra società. Non è in pericolo la libertà dei cittadini onesti di poter parlare liberamente al telefono, ma è in discussione la possibilità di proteggere i cittadini onesti dalla criminalità, dalla delinquenza e dalla corruzione. La domanda corretta da porre agli italiani non è: «Volete voi rischiare di essere intercettati?», ma «Volete voi che i delinquenti possano avere più libertà di agire?». Perché restringere in maniera punitiva i tempi dell’indagine su un’utenza telefonica significa diminuire le possibilità di bloccare un crimine e proteggere la comunità. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, parlando a Montecitorio una settimana fa, ha sottolineato gli aspetti delle nuove norme e ha concluso amaramente: «Sarebbe gravemente minata l’efficacia dell’azione investigativa e processuale».

Quanto alla possibilità di pubblicare le intercettazioni sui giornali, noi concordiamo sulla necessità di salvaguardare la privacy degli imputati e sul rispetto di leggi che vietino di dare in pasto all’opinione pubblica semplici sospetti o, ancor peggio, innocenti coinvolti loro malgrado in un’inchiesta. Il punto sensibile è un altro, è la pretesa di ridurre la conoscenza delle inchieste in corso e dei grandi scandali a delle pillole di informazione fino all’inizio del processo vero e proprio, che in Italia si sa comincia dopo anni. Ci sono poi le maxi multe, particolarmente odiose perché spingeranno gli editori - le prime vittime - a preoccuparsi continuamente per ciò che viene scritto e pubblicato.

In queste ore però qualcosa sembra muoversi ed è importante continuare a chiedere che il testo della legge venga cambiato, che si rivedano i tempi e i meccanismi delle proroghe, le regole sulle intercettazioni ambientali e che si ripristini il diritto dei cittadini a essere considerati degni di essere informati.

Sabato torneremo in edicola, convinti di dover continuare a fare il nostro dovere, che non è quello di portare avanti battaglie ideologiche ma di raccontare ai nostri lettori tutto ciò che merita di essere conosciuto.

di Mario Calabresi; LA STAMPA

Povero Silvio

Mai Berlusconi si sarebbe immaginato che alla lunga fila dei suoi nemici - la sinistra, i magistrati, i giornalisti, i finiani, i «poteri forti» e via di seguito - avrebbe dovuto un giorno aggiungere la categoria dei terremotati. «Ingrati!», avrà probabilmente pensato ieri dei cinquemila aquilani che hanno sfilato per Roma fino ad arrivare sotto le sue finestre a palazzo Grazioli.

L’intervento all’Aquila era stato fatto passare come il fiore all’occhiello di questo governo, più ancora della rimozione dei rifiuti accumulatisi a Napoli dopo anni di ignavia delle amministrazioni di sinistra. A pochi mesi dal terremoto il premier aveva consegnato, radioso come nei tempi migliori, le prime case agli sfollati. Moderne, antisismiche, ben arredate, «più belle di quelle che avevano prima», diceva Berlusconi mentre si faceva fotografare accanto a famigliole sorridenti. Quelle immagini erano diventate il miglior spot per il governo, una grande prova di efficienza, di «politica del fare». Perfino gli oppositori più incalliti per qualche tempo si erano trovati a balbettare, e i sondaggi assicuravano che la popolarità del premier era più alta che mai.

Ecco, immaginare allora che dopo meno di un anno quasi il dieci per cento della popolazione aquilana si sarebbe riversata a Roma per gridare «vergogna» al capo del governo sarebbe stata una follia. Eppure è successo. Ed è difficile, se non impossibile, spiegare la manifestazione di ieri come una manovra politica dell’opposizione, della sinistra, dei soliti antiberlusconiani in servizio permanente ed effettivo. A protestare, per le strade di Roma, c’era gente comune, di sinistra come di destra; commercianti, partite Iva, perfino preti e sindacati di polizia.

Com’è potuto accadere? Chi è stato all’Aquila lo può capire. Intendiamoci bene. Sbaglia, e si rende responsabile di un altro tipo di spot, chi sostiene che il governo non ha fatto niente. Per quanto riguarda l’emergenza abitativa, è stato fatto molto più che in altri terremoti. Gli sfollati erano un’enormità: 67.000. In poco tempo, quasi quindicimila hanno ricevuto case nuove e più che dignitose; altri le cosiddette «Map», le casette di legno fatte dagli alpini, anch’esse molto meglio delle tende o di quei container ancora presenti, ad esempio, in alcuni paesi dell’Umbria; altri ancora sono stati sistemati sulla costa in alberghi a tre o quattro stelle. Nessuno ha passato l’inverno al freddo: e questo è stato, se non il miracolo sbandierato dal governo, sicuramente un successo.

Ma il trionfalismo con cui è stato «venduto» questo successo ha fatto credere a buona parte del Paese che L’Aquila fosse, se non rinata, almeno ripartita. Invece L’Aquila è una città morta. Le nuove case prefabbricate sono tutte nelle frazioni, la gente che ci vive è sradicata, senza più i riferimenti e i vicini di sempre. Il centro storico, che poi è la vera città, è un luogo di fantasmi. Non una casa è stata riaperta, non un albergo, non un ristorante, non un’attività commerciale. Delle 2.300 imprese artigiane, mille hanno dovuto chiudere. Le ore di cassa integrazione in provincia, che erano 800 mila nel maggio-giugno del 2008, nello stesso bimestre del 2009 sono diventate sette milioni e mezzo.

Insomma è successo questo: gli aquilani pensano che, dopo un’emergenza gestita bene, il governo si sia fermato. Che si sia dimenticato di loro. Perché la ricostruzione non parte e perché - con un’economia ancora a pezzi - si chiede loro di riprendere a pagare le tasse e di ricominciare a restituire quelle sospese per poco più di un anno.

Anche qui bisogna sforzarsi di essere il più possibile obiettivi. Ricostruire L’Aquila - un capoluogo di provincia con 70.000 abitanti e 28.000 studenti residenti - è un’impresa titanica, per la quale non bastano certo gli slogan che ieri Bersani urlava in mezzo ai manifestanti con parole scandite: «le risorse vanno tro-va-te», «occorre un intervento stra-or-di-na-rio». Né sono utili i toni barricaderi e i discorsi farfugliati di Di Pietro e di Pannella, anch’essi precipitatisi tra i dimostranti per cavalcare la protesta. Accanto alla demagogia del miracolo del governo, ce n’è pure una dell’opposizione.

Ma è proprio contro questa politica degli spot che la gente dell’Aquila ha protestato ieri a Roma. Gente comune, né di destra né di sinistra, la quale vorrebbe che ai problemi reali non si rispondesse con la politica degli annunci e con operazioni-lampo che giovano solo all’immagine di chi le promuove. È un desiderio, anzi un bisogno, di tutto il Paese, non solo dei terremotati.

di Michele Brambilla; LA STAMPA

mercoledì 7 luglio 2010

Chi si accontenta gode

Ilaria d’Amico ha una carriera in costante ascesa, un figlio appena nato, una casa a Milano e una a Roma. Poi ha un luccicante brillante sull’anulare della mano sinistra, e al polso destro tre braccialettini di cuoio con impresso a fuoco il suo nome, quello del figlio e quello del compagno. Ha un compagno immobiliarista che, ogni mattina a colazione, intona un mantra fatto in parti uguali di indignazione e rabbia. Il signor Rocco Attisani sfoglia il giornale sull’iPad e, mentre il caffè si raffredda, ripete “che maiali, porca miseria che maiali, mamma mia che maiali”.

E lei interviene?
«Sa, Rocco è milanese, ligio, preciso, rispettoso. È tra quelli che hanno il diritto di arrabbiarsi. Io sono romana, forse più incline alle sfumature, così a volte mi ritrovo a fare l’avvocato del diavolo, tento di giustificare comportamenti imbarazzanti».

Ma quella è pura dinamica di coppia, infatti qui, seduti nella hall di un hotel, se le si apre un quotidiano davanti agli occhi, Ilaria D’Amico non sgrana lo stesso rosario del compagno solo perché preferisce ridacchiare caustica. Prima notizia: la nuova dama bianca, la ventottenne segretaria della regione Lazio, reclutata all’improvviso nello staff del premier per la riunione del G20 in Canada.
«Eh, qui persino Rocco è scoppiato a ridere. I casi sono due. Forse erano malate tutte le segretarie della presidenza del Consiglio per un’epidemia di febbre gialla, e così Berlusconi è stato costretto a farsene prestare una dalla regione Lazio. Oppure ci ha voluto solo far sapere che, finché sarà il presidente del Consiglio e avrà questo consenso popolare, il governo è lui, gli aerei di Stato sono suoi e quindi fa come gli pare. Ritiene suo diritto comportarsi come se fosse a Villa Certosa. È la Casa delle libertà? Bene, lui se le prende tutte».

Quale delle due ipotesi è più probabile?
Sorriso, ma non lo stesso che affiora quando parla, per esempio, del figlio Pietro. «La seconda che hai detto».

E di questo pasticcio che mi dice? chiedo indicando un titolo su Aldo Brancher.
Altro sorriso arricciato. «Dico che la legge del legittimo impedimento servirebbe, ragionevolmente, per proteggere chi ha incarichi istituzionali. Non per fornire uno scudo a chi è alla vigilia di un processo. Siamo al parossismo. Già gli ultimi governi hanno avuto ministri che sembravano il cavallo di Caligola, ma qui si è passato il segno. Vuoi una parola: vergognoso».

Colpa della destra o della sinistra?
«Colpa di una cialtronaggine che non paga pegno. E per questo dilaga. In tutte le campagne elettorali dicono “diminuiremo tasse, spesa pubblica, ministeri, province”. Presi i voti, aumentano tasse, ministri, spesa pubblica e pure le auto blu. Purtroppo delle bugie raccontate nessuno risponde».

Simona Ventura ha detto al nostro giornale che la politica è ormai un blob verdastro, che occupa ogni spazio.
«È vero, ed è anche un grande ufficio di collocamento per le dame bianche di cui parlavamo prima. Destra o sinistra non importa».

È uno scandalo?
«Nessuno scandalo. Noi italiani siamo abituati. Per poter fare una tac in tempi ragionevoli dobbiamo prima farci raccomandare e poi ringraziare. Raccogliamo le briciole che cadono dal tavolo dove mangiano i potenti. E finché qualcosa arriva, ci accontentiamo ».

Speriamo nei giovani.
«I giovani in Italia hanno questa peculiarità: non possono fare i giovani e restano però tali fino ai cinquant’anni o giù di lì».

Cioè?
«Gli ultimi che hanno avuto il privilegio di essere giovani sono quelli che hanno fatto il ’68. Al tempo, per loro ritenevano lecito tutto, adesso comprimono libertà e sogni di chi ha vent’anni. Oggi i sessantottini comandano, e hanno un’idea distorta dell’età. Pochi mesi fa sono stata definita “una giovane rivelazione”, anche se lavoro da più di dieci anni. Spesso viene definito “giovane regista” un brizzolato signore di 47 anni. Attenzione. Non è benevolenza, ma autoreferenzialità».

Me lo spiega?
«Be’, se si considera giovane una persona di mezza età, chi ha sessantacinque anni può ritenersi maturo, e non anziano. Quindi non ha motivo di lasciare poltrona, responsabilità e ruolo alle nuove leve. Io spero di avere la coerenza, quando sarà il momento, di andare in pensione. Ma la domanda è: ci sarà la pensione?».

Dovevamo parlare di giovani, quelli veri, i ventenni, e dopo un istante, puff, sono di nuovo spariti dal discorso. E anche nella nazionale mi pare… Balotelli, Cassano.
«Nel paese dell’approssimazione e delle non regole si pretende però che la Nazionale sia un modello di disciplina. E così, invece di essere gestito, il talento viene azzerato. Si preferisce la mediocrità obbediente, quella capace di un compitino senza fantasia. Il genio spaventa».

Quest’anno non ci è riuscito nemmeno il compitino.
«Siamo partiti sicuri. Ci fidavamo tutti di Lippi. Agli italiani piace mettersi nelle mani dell’uomo vincente. Nessuno l’ha criticato. Eravamo i campioni in carica e il nostro era il girone più facile: un mix nefasto per la nostra mentalità. Abbiamo affrontato le prime partite con sufficienza e siamo stati spazzati via».

Da quando lavora a Sky, qual è stata la sua più grande soddisfazione?
«Essere riuscita a costruire quello che desideravo. In Rai era impossibile. Quando lavoravo per viale Mazzini ero confinata sul satellite. Ovviamente, dopo mi hanno cercato ed erano pronti a pagarmi mille volte più di prima».

L’asticella oggi è rasoterra: diventeremo campioni di salto in basso?
«Ormai vale tutto. Anni di mala politica ci hanno abituato a vedere le regole e le leggi prese a schiaffi. Siamo al teatrino, ma anche prima non andava meglio. C’è una sfacciataggine senza confini, ma noi italiani non reagiamo, non abbiamo più l’ambizione di avere una classe dirigente capace. Pensiamo che l’unico diritto da rivendicare sia quello alla sopravvivenza. La gente non vota il migliore, ma quello che gli condona la veranda abusiva. Così si genera un rapporto di complicità che ha i suoi effetti».

Quali?
«Il figlio di Bossi, dopo aver ripetuto più volte la maturità, entra nel consiglio di vigilanza dell’Expo 2015 di Milano, e non succede nulla. Il figlio di Sarkozy, laureato, entra nel consiglio di amministrazione che gestisce La Défense, un centro direzionale parigino, ed è costretto dalle polemiche a rassegnare subito le dimissioni».

Lei si indigna?
«Sì, ma non so più contro chi. C’è un muro di gomma, anzi, una big bubble masticata e molliccia che ti invischia, ti toglie le forze e la volontà. La legge bavaglio sarà l’ennesimo sopruso che subiamo».

Soluzioni?
«Forse astenersi. Da tutto. Tutti insieme. Fare il partito del no, rifiutare un intero sistema corrotto, che deve essere ricostruito, non riformato. Ho votato sempre, e ho cambiato spesso. Ho iniziato con Spadolini, poi i radicali, e poi gli altri, ma non ce la faccio più».

Arriva il diluvio universale. Sull’arca puo portare solo un politico: chi salva?
«Quelli del Pd è inutile, una volta a bordo si getterebbero in acqua da soli. Salvo Pannella: verboso, incontenibile, disinteressato, coraggioso. Non potrà mai essere a capo del governo, ma è il giusto tributo a un sognatore».

di Andrea Greco; A

martedì 6 luglio 2010

Ghe pensa lu

Le dimissioni - anzi il brusco dimissionamento, voluto da Berlusconi - dell’occasionale ministro Brancher e il lungo incontro avuto ieri con Tremonti sono le prime mosse del premier per arginare la difficile situazione trovata al rientro dall’estero. Non essendo possibile, al momento, affrontare veramente i problemi gravi che ha davanti il governo, quella che si sta delineando è una classica soluzione balneare, un rappattumamento che non somiglia affatto ai proclami ottimistici di Berlusconi venerdì sera in tv, quando a tutto pareva bastare un sorridente «Ghe pensi mi».

Invece, ancora una volta da quando la crisi economica ha preso il sopravvento anche in Italia, è toccato al sottosegretario Gianni Letta confermare ieri la complessità di una situazione senza molte vie d’uscita. La manovra dovrà quindi passare presto, con le buone o con le cattive, in Parlamento, dove sarà presto riproposta la questione di fiducia per decimare le migliaia di emendamenti che tendevano a modificarla e ad ammorbidirla. Nelle Camere lo scontro sarà durissimo e la maggioranza, pur militarizzata, verrà messa a dura prova.

Le Regioni, fin qui arrampicate su una specie d’Aventino e pronte a rinunciare ai loro poteri per mancanza di mezzi per finanziarli, dovranno fare buon viso a cattivo gioco e accontentarsi dei cambiamenti minimi che saranno concessi dal ministro dell’Economia.
Sullo sfondo, tutte le questioni che hanno rallentato la marcia, sempre più difficoltosa, del governo, restano intatte. Il gelo con il Quirinale, determinato dalla nomina-imbroglio di Brancher - un ministro di cui non si riuscivano neppure a chiarire le deleghe, un'operazione che il Capo dello Stato aveva definito «un gioco delle tre carte» - potrà magari trovare un ammorbidimento, ma non fino al punto da convincere Napolitano a collaborare con i suoi tecnici alla messa a punto di un testo condivisibile della legge sulle intercettazioni. Il Presidente della Repubblica è risoluto a dare il suo giudizio, ed eventualmente a negare la sua firma se le nuove norme non lo convinceranno, solo dopo che il Parlamento le avrà licenziate. Sempre che ci riesca e sempre che Berlusconi e Fini trovino un'intesa, assai ardua da individuare, sul provvedimento, mentre ancora non sono d'accordo neppure sui tempi delle votazioni e stanno valutando se non sia venuto il giorno di dividere politicamente le loro strade.

Anche in questo caso, però, il giorno non sembra arrivato. Né il Cavaliere, né il presidente della Camera sono pronti a separarsi, pur se le loro strategie, ormai è chiaro, collidono. Berlusconi pensa a un ennesimo nuovo partito (nei corridoi della Camera se ne parla, ricordando l’uscita a sorpresa di piazza San Babila del 2007) come di un «predellino 2».

Anche Fini è in cerca di nuovi approdi, forse centristi, forse terzaforzisti, non sufficientemente definiti. Pur vivendo ormai da mesi come «separati in casa», i due leader non hanno alcuna convenienza a divorziare adesso. Il divorzio avverrà quasi certamente quando la prospettiva finale della legislatura sarà più chiara, e per questo occorrerà aspettare la fine dell’anno.

Se in autunno, come molti si aspettano purtroppo, la crisi economica dovesse incrudelirsi e la manovra del governo, manifestamente più debole di quella di altri partners europei come Germania e Inghilterra, rivelare la sua insufficienza, cresceranno infatti le tentazioni di dare una spallata a Berlusconi, anche più vigorosa di quella che confusamente è stata tentata in sua assenza nell’ultima settimana. Lo testimonia, tra l’altro, il ritorno agli appelli al Capo dello Stato e all’ipotesi di un governo d’emergenza da parte delle opposizioni. Se invece, come lui stesso spera senza farne mistero, lo stellone italiano riuscisse nuovamente a prevalere, e la ripresa a farsi un po’ meno timida di quel che appare oggi, il Cavaliere avrebbe finalmente mano libera per la resa dei conti con i suoi avversari, soprattutto interni al centrodestra, e per cercare un rilancio personale nello scioglimento anticipato delle Camere e in un nuovo lavacro elettorale.

Ma intanto, anche se è contrario al suo temperamento, a Berlusconi tocca aspettare. In altri tempi, si sarebbe detto che il premier, il suo esecutivo e la sua maggioranza devono fare la verifica. Poi si sa, sulle verifiche estive aveva sempre il sopravvento il «generale agosto», e per far passare l’estate e insieme decantare il quadro nasceva un «governo balneare». L’unica cosa che è rimasta di quei tempi, verrebbe da concludere.

di Marcello Sorgi; LA STAMPA

lunedì 5 luglio 2010

Ventennio bis

Luglio 1990, venti anni fa. Un'altra estate di Mondiali, di notti magiche inseguendo un gol, di giovani donne trucidate (Simonetta Cesaroni in via Poma), di venti di crisi nel governo. «L'ombra della crisi sulla legge Tv», titolava "Repubblica" il 18 luglio 1990. Incipit del pezzo firmato Sandra Bonsanti: «Alla vigilia delle votazioni sulla legge Mammì, un accordo tra la maggioranza Dc e la sinistra di De Mita e Bodrato appare ancora molto difficile. Nessuno sembra disposto a recedere da posizioni saldamente delineate. E le voci di crisi di governo coprono l' arco di una giornata carica di tensione conclusasi all'una di notte quando è terminata l' assemblea del gruppo parlamentare. Se Andreotti dovesse decidersi a mettere il voto di fiducia, per contentare i socialisti, cinque ministri (Mattarella, Mannino, Fracanzani, Martinazzoli e Misasi) potrebbero dimettersi. E sarebbe la crisi di governo...».

La Camera bloccata per mesi a discutere della legge sull'emittenza televisiva che portava il nome del ministro delle Poste, il repubblicano Oscar Mammì. Doveva servire a rimettere ordine nel far west dell'etere, fu la madre di tutte le leggi ad personam, la prima di una lunga serie. «Non è mai successo che il Parlamento fosse chiamato a tutelare gli interessi di una sola persona», si sfogò il dc di sinistra Paolo Cabras con Miriam Mafai. Alla fine i cinque ministri si dimisero, furono sostituiti in pochi minuti e la legge passò con un voto di fiducia. Il Caf, il Craxi-Andreotti-Forlani, sembrava inaffondabile e sulla legge Berlusconi aveva misurato i rapporti di forza con i dissidenti della sinistra dc, costretti a un inutile gesto di testimonianza politica, troppo poco per bloccare quella che sembrava una perfetta macchina di potere.

A rivederlo oggi, invece, l'approvazione della legge Mammì appare per quello che è. Il passaggio di mano, il ribaltamento delle posizioni. Fino a quel momento Silvio Berlusconi era un imprenditore spregiudicato costretto a dipendere dalla politica che poteva decidere, da un momento all'altro, di staccare la spina e spegnere le sue televisioni. Una volta approvata la legge che gli consegnava il monopolio dell'emittenza privata e del mercato pubblicitario il Cavaliere non aveva più bisogno dei padrini politici. La creatura era diventata più forte dei suoi creatori e si preparava a sostituirli: come capì Nanni Moretti in una indimenticabile scena del Portaborse: «Noi a quei signori con una legge abbiamo regalato metà del mercato pubblicitario nazionale...».

Il luglio 1990 rappresenta l'atto di nascita del berlusconismo. Non a caso con un atto di forza sul Parlamento. Il dna del mostro, le sue impronte digitali. Venti anni dopo siamo ancora qui: la Camera bloccata a discutere di intercettazioni, l'ossessione di una sola persona trasformate nell'ossessione di un paese. E ancora una volta c'è una parte della maggioranza che resiste, che minaccia di votare contro. Ombra di crisi di governo, oggi come allora. Imprevedibile che al posto della sinistra dc ci siano i finiani. Granata come Martinazzoli, Briguglio al posto di Mattarella, Fini che incarna la legalità e i valori della Costituzione, quelli che per Berlusconi, dice a "Repubblica" sprezzante il presidente della Camera, «forse sono il nome di una medicina e lo mandano in bestia». Venti anni fa, però, la sinistra dc non ebbe il coraggio di rompere la maggioranza e alla fine si allineò. I finiani segneranno la fine del ventennio berlusconiano? Chissà. Di certo mai la crisi è stata così vicina come in queste ore. E almeno sul calendario, il 25 luglio è vicino.

di Marco Damilano; L'espresso

Senza titolo

"Money talks when people need shoes and socks".
da "Tranquilize", The Killers ft. Lou Reed

domenica 4 luglio 2010

Pathos

Appartengo alla minoranza (mi auguro robusta) che non ha mai visto Il Grande Fratello televisivo. Fin dall’esordio della trasmissione, ho trovato intollerabile che si abusasse, per un giocoso se non futile intrattenimento, del titolo affibbiato da George Orwell al grande dittatore nell’agghiacciante romanzo 1984. Sono rimasto pertanto basito davanti allo spazio spropositato che i media hanno riservato alla drammatica fine di Pietro Taricone: da chiedersi cosa mai occorrerebbe fare per lo scienziato che riuscisse a debellare il cancro. Comprendo la commozione, alla quale aderisco (Humani nihil a me alienum puto) per un uomo giovane, bello e simpatico tradito crudelmente dal suo vitalismo, per una vita e una lusinghiera carriera troncate dal suo «folle volo», dallo schianto col paracadute nell’aeroporto di Terni.

Trovo significativa la parabola di un ragazzo del Sud che approfitta di un successo fortunosamente azzeccato (favorito dallo scandalo di un amplesso in diretta) per dare una svolta alla sua esistenza. Perché, stando alle sue esibizioni successive e alle testimonianze degli addetti ai lavori, Taricone si è adoperato a far dimenticare l’esperienza del Grande Fratello, ha rifiutato di farsi imprigionare nel ruolo del palestrato e dello sciupafemmine a beneficio del voyeurismo televisivo. Affidandosi al salvacondotto dell’ironia e dell’autodisciplina, ha studiato recitazione, ha intrapreso una dignitosa carriera di attore, ha cercato stabilità col mettere su famiglia. Come osserva Marco Risi, «aveva scelto la professionalità contro la popolarità». Quanto basta per meritare il più condiviso rispetto.

Ma qui mi fermo. Per rilevare le reazioni, spinte fino alle lacrime, dei numerosissimi fans alla notizia della sua morte. Non era l’attore a commuoverli, ma ancora una volta il protagonista insuperato del Grande Fratello; schiavizzati dal gran baraccone televisivo, come dimostra lo stucchevole appellativo di «Guerriero» profuso nelle rievocazioni, che rimanda ad una sua vetusta, spavalda asserzione rivolta ai compagni di gara: «Io so’ un sanculotto, sono un guerriero, e non posso fare le pulizie». Hanno voluto inchiodarlo cioè a una vicenda ormai dismessa, al trash televisivo, imponendo alla sua figura, senza esserne consapevoli, l’ultimo sfregio. Sia pace alle sue ceneri, sottratte ai rumori e al visibilio degli spettatori accomodati in poltrona davanti al piccolo schermo. Domani, con altri frusti vessilli, si ricomincia.

di Lorenzo Mondo; LA STAMPA