giovedì 29 luglio 2010

Il naufragio

Reagiva come se se fosse stata la collega dell'Unità e non la Banca d'Italia a promuovere quel commissariamento del suo Istituto di credito che è stato firmato dal ministro Tremonti. Rivolgeva a un altro collega le insolenze che avrebbe voluto rivolgere ai magistrati che lo hanno interrogato per nove ore.

Era come se sui suoi presunti illeciti stesse indagando Rainews 24 e non tre Procure della Repubblica. Ebbene, anche se fosse innocente, Denis Verdini non è degno di ricoprire una carica pubblica. Mai infatti si era vista una conferenza stampa più losca di quella messa in scena ieri. Neppure un imam di una repubblica islamica insulta, minaccia irride e offende i giornalisti come ha fatto lui. Nemmeno Berlusconi, che pure è uno specialista di guerre all'informazione, era arrivato a tanto. Il comportamento sguaiato e violento di Verdini ricorda quello dei boss che in aula sputano per terra quando hanno sotto gli occhi gli infami cronisti. Insomma il focoso Denis non si comporta da maledetto toscano ma da guappo napoletano: non indignazione ma coda di paglia.

Ecco il punto: Verdini fa esattamente quello che ti aspetti da un colpevole. Ha preso soldi da Flavio Carboni che rimane un bancarottiere, un faccendiere piduista anche se in passato è stato socio dell'editore Caracciolo che gli offrì una quota della "Nuova Sardegna". Anche questo continuo richiamo al rapporto tra Carboni e Caracciolo è un argomento peloso usato come scudo, il tentativo di legittimare un'associazione a delinquere con la proprietà transitiva, come se i meriti e la pulizia del nome Caracciolo arrivassero addosso a Verdini, lo ripulissero, garantissero per lui e rendessero vincente la sua difesa dinanzi al mondo prima ancora che ai giudici che non lo infilzano all'amicizia ma alle intercettazioni, ai conti bancari, alle tangenti, alla prove fattuali. Verdini partecipava a incontri "coperti" con Dell'Utri e Lombardi, si esprimeva in un codice che sta a metà tra i servizi segreti e i servizi igienici, esercitava pressioni per influenzare le istituzioni inquinandole, partecipava alla congiura delle calunnie contro il candidato del suo stesso partito alle elezioni della Campania.

Eppure ieri in conferenza stampa affibbiava scappellotti a tutti, giocava di rimessa, rilanciava come al poker, si affidava alla possibilità di mettere sotto scacco psicologico l'informazione che per lui è un avversario da gioco d'azzardo: "L'eolico non è la mia materia"; "lei non sa neppure cos'è un conto corrente in banca"; "la sua domanda è morbosa"; "il solo interesse che danneggio è il mio, come mi dice anche mia moglie"; "non esiste una P3 ma esistono le 3P, cioè le 3 Procure". Come si vede è un'inquietudine che va oltre le ragioni dell'autodifesa, è un girovagare, un avventurarsi nel gioco fatuo delle battute incontenibili e al tempo stesso evanescenti, una sorta di lanterna magica, la gaiezza tristanzuola del disperato.

E dispiace e sorprende che Giuliano Ferrara si sia avventato contro la giornalista dell'Unità Claudia Fusani, che non è certo potente come il suo coeditore Verdini, con argomenti oscuri e allusivi che nulla hanno a che fare con la ragnatela della P3 e che sicuramente non gli fanno onore. Non bastava il fiancheggiamento di Stracquadanio, quell'altro onorevole compare che è intervenuto dicendole con garbo di "non dire cazzate"?
Tutti sanno che le conferenze stampa non sono processi penali, ma occasioni di polemiche e di chiarimenti. Nei momenti infuocati esprimono più umori che ragionamenti, più approssimazione che precisione. In genere i leader in difficoltà traggono spunto dalla malizia dei cronisti per parlare al paese, sanno già quello che devono dire, afferrano le domande per sputare il rospo che hanno in gola. Non hanno davanti qualche giornalista più o meno bravo, più o meno acuto, ma la grande platea dell'opinione pubblica, intere pagine di giornali, gli sguardi che captano per strada, il giudizio collettivo che li opprime.

Invece Verdini pareva in gabbia. Troppo scomposto per essere credibile e troppo maleducato per essere rispettato. E dunque anche agli occhi più garantisti appariva come il presunto innocente più sospetto della politica italiana. Non si limitava ad attaccare politicamente Fini e Bocchino e tutti quelli che hanno chiesto le sue dimissioni accusandoli di avere tradito un collega parlamentare, di non difendere uno di loro, di averlo abbandonato alla barbarie giudiziaria, vale a dire alla legge e al rispetto delle regole. Si comportava come al cinema si comportano lo spaccone, lo sbruffone, il faccendiere che appunto sposta soldi, aggiusta un sentimento, ricicla un falso, bluffa al poker e invece di rispondere ti rimprovera di non conoscere la differenza tra la s pura e la s impura, tra il versare e il girare un assegno, roba più da azzeccagarbugli della ragioniera che da banchiere sia pure brechtiano. Al sud esistono intere dinastie di giocatori d'azzardo che diventano imprenditori, banchieri del ficodindia che scrivono anche libri, costruiscono imperi e dinastie sul bluff. È questa l'antropologia del Verdini che abbiamo visto ieri. Le regole esistono per essere sovvertite, trasgredite e beffate.

E in questo codice malandrino anche la maleducazione, la superbia, l'arroganza e gli insulti non sono cadute di stile ma schizzi di umore nero, malattie dell'orgoglio ferito, rivendicazioni di impunità di casta. Sono la bile che si traveste di allegria, proprio quella che Ungaretti chiamava "l'allegria dei naufraghi".

di Francesco Merlo; la Repubblica

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