Forse solo adesso che sta, oh molto lentamente!, evaporando nell’album dei
ricordi, comincio a rendermi conto con un certo spavento che ho trascorso metà
della mia vita a occuparmi di B. Anche molti di voi, lo so. Per quanto un po’
meno di me, che come cronista l’ho avuto accanto fin dal primo giorno di lavoro.
Quando il mio vicino di scrivania al «Giorno» mi mostrò una fotografia del
neo-presidente del Milan fra Baresi e Maldini. «Tempo sei mesi e al loro posto
ci saranno due carabinieri!» mi vaticinò, quel comunista. La prima di tante
previsioni sbagliate.
Sei mesi dopo al posto dei carabinieri c’ero io, ma
B non era nelle condizioni di spirito per farci caso. Eravamo in un salone dei
palazzi vaticani per l’udienza del Milan col Santo Padre. Un vescovo si avvicinò
a B: «Come d’accordo, Sua Santità parlerà dopo di lei...» B, che non ne sapeva
nulla, sorrise al porporato, poi si girò verso i suoi e lì investì con una
strigliata memorabile. Gli restavano dieci minuti per improvvisare un discorso,
Lo seguii di nascosto, lungo i velluti di un corridoio laterale: mi incuriosiva
vederlo all’opera in una situazione di emergenza. Lo osservai camminare avanti e
indietro. Contorceva la bocca e componeva arabeschi con le mani. Si stava
caricando.
Alla fine della passeggiata indossò il suo miglior sorriso
celentanoide e affrontò Wojtyla con poche, leggendarie parole. «Santità, in
fondo Lei assomiglia al mio Milan». Qualche cardinale sussultò. «Perché anche
Lei, come noi, è spesso in trasferta, a portare in giro per il mondo un’idea
vincente, che è l’idea di Dio». Fu un trionfo. B si era trascinato al seguito un
esercito di milanisti, giornalisti e inserzionisti - il Gruppo, come lo chiamava
lui - e li presentò al Papa uno alla volta, alla sua maniera: «Questo è Ruud
Gullit, Santità. Già 12 gol quest’anno, di cui tre in Coppa dei Campioni».
Wojtyla abbozzò un sorriso di cortesia. «E questo è Gigi Vesigna, direttore di
Sorrisi e Canzoni: un milione di copie, molte più di Panorama!». Il Papa si
illuminò: «Panorama! Io leggo sempre Panorama!». B ci rimase così male che forse
in quel momento decise di comprare la Mondadori.
Avevo ventisei anni e mi
faceva già così ridere e così paura. Era il cumenda moderno, circondato dal
servilismo dei collaboratori. Arrivava all’allenamento del Milan in elicottero,
si toglieva l’impermeabile e lo lanciava dietro le spalle, dove c’era sempre
qualcuno che lo pigliava al volo. Scrissi che il raccattacappotti era il nuovo
portiere del Milan e si arrabbiarono tutti, specie il portiere del Milan.
L’allenatore Sacchi, adulatore furbissimo, iniziava le conferenze del sabato con
una formula magica: «Permettetemi anzitutto di ringraziare il Dottore, che è una
persona meravigliosa. Senza di lui, noi non saremmo qui». Alla decima volta un
collega alzò la mano: «Senta, Sacchi, premesso che il Dottore è una persona
meravigliosa, ci dice la formazione?».
Io scrivevo tutto. Anche la
didascalia sotto la celebre foto che lo ritraeva con Confalonieri, Dell’Utri e
Galliani: in maglietta bianca e in fila per uno: «Il Gruppo, compatto, suda agli
ordini del Dottore». Non poteva durare. Il direttore del «Giorno» Lino Rizzi,
indicato (come si diceva allora) dalla Dc, mi mandò a chiamare. «B ha detto che
se non la smetti di prenderlo in giro, ci toglie la pubblicità di Canale 5». E
tu cosa vuoi che faccia, direttore? «Il tuo dovere. Con prudenza. Ma non
smettere di raccontare quello che vedi». Il primo miracolo di B: farmi
rivalutare i democristiani.
Già allora esisteva un doppio B: quello
solare delle apparizioni in pubblico e il personaggio misterioso che aveva
potuto disporre, a meno di trent’anni, di prestiti miliardari. Ma nei lunghi
pomeriggi di Milanello la storia extrasportiva che tutti ci raccontavamo a mezza
bocca riguardava il famoso patto di Segrate. Quando B e la Mondadori, non ancora
sua, avevano firmato di venerdì pomeriggio un accordo solenne per spartirsi la
pubblicità televisiva a partire dal lunedì successivo. Dopo le foto e i
sorrisoni di rito, B rientrò nei suoi uffici e, così narra la leggenda, si
rivolse al segretario Urbano Cairo e agli altri collaboratori come in un film:
«Sincronizzate gli orologi: abbiamo solo 48 ore prima che entri in vigore
l’accordo. Rastrellate tutta la pubblicità che c’è in giro!». Il lunedì la
Mondadori si trovò senza più neanche uno spot e di lì a qualche giorno dovette
vendere Retequattro. A chi? A B.
Questo aneddoto forse un po’ romanzato
(magari, conoscendolo. proprio da lui) è il test che utilizzo da anni per capire
gli orientamenti politici dei miei interlocutori. Se rispondono «vergogna, che
disprezzo per le regole!», sono berluscallergici. Se dicono «intanto però lui
nel weekend ha lavorato!», sono berluscloni.
Fui testimone oculare di una
censura. Un collega del suo «Giornale» aveva intervistato Baresi, piuttosto
critico con il presidente. Il pezzo, intitolato «La difesa del Milan attacca B»,
era saltato alle undici di sera in tipografia, goffamente sostituito da una foto
di Trapattoni delle dimensioni di un poster. Ci trovavamo ad Ascoli, al seguito
del Milan, e il collega censurato passò la giornata successiva al telefono della
mia stanza d’albergo, così potei assistere in diretta al balletto straziante
degli scaricabarile. Baresi smentì l’intervista. Montanelli, ancora direttore,
chiese al giornalista se aveva la registrazione, ma nello sport allora non
usava: tutto era affidato ai taccuini. A malincuore persino il grande Indro
dovette allargare le braccia. Così la censura passò e divenne un precedente.
Lasciai Milano e «Il Giorno» per Roma e «La Stampa», convinto che non lo avrei
incrociato mai più. Lo rividi una notte a Barcellona, la Coppa dei Campioni fra
le braccia, mentre catechizzava la folla di un ristorante: «Un giorno farò
l’Italia come il Milan!». Tutti a darsi di gomito, tranne i cronisti sportivi
che lo seguivano da una vita. Solo loro sapevano che uno così era capace di
tutto.
Il ponentino romano mi deberlusconizzò rapidamente. Avevo quasi
nostalgia di B, quando una sera di novembre il giornale mi mandò in Parlamento
per raccogliere pareri sul suo ventilato ingresso in politica. Montecitorio alle
sette era deserta, ma da una porta apparve un ritardatario, il capogruppo del
Pds, Massimo D’Alema: «Smettetela di spargere in giro le solite sciocchezze. B
non entrerà mai in politica. E’ pieno di debiti». Appunto, azzardai io. Ma
D’Alema mi fulminò con una smorfia delle sue: «Allora mi devo ripetere: non
entrerà mai in politica!». Compresi che la discesa in campo era ormai
inevitabile.
Nei mesi successivi l’Italia intera scoprì l’omino del nuovo
ventennio. Le sue manie e megalomanie. Le videocassette con la finta libreria e
la calza sulla telecamera. Il miracolo del tifoso milanista paralizzato:
«Tommaso della Fossa dei Leoni: alzati e vieni dal tuo Presidente!». L’inno con
le parole intercambiabili: «E forza Italia per fare per credere...». Le frasi
memorabili: «Non esistono i poveri, ma solo i diseducati al
benessere».
Ero disperato. A cosa mi era servito scappare dallo sport e
far perdere le mie tracce, se me lo ritrovavo di nuovo addosso? Con i colleghi
de «La Stampa» Pino Corrias e Curzio Maltese ci prendemmo una settimana di ferie
per scrivere un libro sul suo avvento al potere. Lavoravamo in un posto segreto,
giorno e notte, non ricordo di aver mai infilato i piedi sotto le coperte.
Morivamo di sonno e, per non morire anche di fame, un pomeriggio Curzio e Pino
andarono a fare la spesa. Ero solo in casa quando la porta bussò con violenza:
«Carabinieri, aprite!». Come avevano fatto a trovarci? Nessuno, tranne i parenti
stretti, sapeva che eravamo lì. Ero così imbevuto di B che feci un paio di
collegamenti mentali: i carabinieri dipendevano dalla Difesa, Previti era
ministro della Difesa, ergo B li aveva mandati ad arrestarci. Truccando la voce
pigolai: «Chi cercate, prego?». «Maltese Curzio...». «Chi?». «...Corrias Pino».
«Chi?» «...e Gramellini Massimo». «Perché?».
Fu il «perché» a fregarmi. A
quel punto dovetti aprire. Scoprii che non era stato B a spedirceli, ma il
direttore de «La Stampa», Ezio Mauro. Avendo saputo chissà come che avevamo
appena parlato col più acuto filosofo del berlusconismo, Mike Bongiorno, quel
formidabile trapano aveva mobilitato i carabinieri di mezza Italia per
rintracciarci e avere un’anteprima dell’intervista sul giornale.
Parli
d’altro, mi suggerivano i lettori. Una parola. Non esisteva argomento in cui,
per dritto o per rovescio, non entrasse lui. La politica? Lui. Il calcio? Lui.
La tv? Lui. La pubblicità? Lui. Il cinema? Lui. La cultura (ehm ehm). Lui. I
soldi? Lui, lui, lui. Un giorno, stremato, comprai una rivista di botanica.
C’era una foto di B nel giardino di Arcore mentre potava le
rose.
Difficile non trasformarlo in un’ossessione. Il culmine lo
raggiunse un amico di «Repubblica» durante la mia prima e ultima vacanza
esotica, all’indomani della vittoria elettorale dell’Ulivo. Ci concedemmo un
bagno notturno, c’erano la luna, le ragazze, il mormorio avvolgente del mare.
Avevamo ancora l’acqua alle ginocchia quando l’amico mi si avvicinò con aria
corrucciata. «Sai», disse. «Stavo pensando che se Prodi non fa la legge sul
conflitto di interessi entro una settimana...». «Ti prego», mi ribellai. «Non
ora, non qui!». E invece aveva ragione. Gli ulivisti non fecero la legge, forse
erano su qualche spiaggia esotica anche loro, e B continuò a fare il B più di
prima.
Entrai nella fase dell’apostolato attivo: volevo convincere il mio
prossimo che B non era un liberale ma un monopolista, e che non gli importava
niente dell’Italia ma solo dei fatti suoi. Mi arresi durante un trasloco, quando
un operaio mi abbordò preoccupato: «Dottò, lei che mastica di politica, ma è
vero che B pensa di vendere le sue televisioni?». «Ne dubito, ma lo spero.
Diventeremmo un Paese normale, non crede?». «Io, se vende le tv, non lo voto
più». «Come dice, scusi?» ululai. «Non lo voto più. Finché ha le tv è ricco e
non ruba». «Ma così farà sempre e solo gli affari suoi!». «Ma facendo i suoi,
sarà costretto a fare un po’ anche i miei. Se invece vende le tv, diventa un
politico come tutti gli altri». Mi arresi. La sinistra doveva smettere di
sostenere che l’italiano medio era vittima di Berlusconi. L’italiano medio era
solo un Berlusconi più povero.
Oramai B era il nome più evocato, più
maledetto, più amato. Provate a contare quante volte avete pensato a lui in
questi anni. Più che a vostra suocera, di sicuro. Mai nessuno aveva diviso tanto
l’Italia e gli italiani. Un tizio mi scrisse alla posta del cuore per
raccontarmi di aver lasciato una ragazza che stava corteggiando, dopo aver
scoperto che lei aveva votato per B. Un popolo spaccato in due, una democrazia
trasformata in un referendum continuo: pro o contro una singola persona che
incarnava un mondo che gli uni consideravano sguaiato e gli altri vitale. E
quella persona era il cumenda ridens che avevo visto lanciare l’impermeabile
all’aspirante portiere milanista.
Siamo invecchiati insieme, nel senso
che mentre io perdevo i capelli lui li ritrovava. In venticinque anni ho
cambiato opinione su quasi tutto, ma non su B: continua a farmi ridere e a farmi
paura. Ultimamente più paura che ridere. Non ha mai cercato di convertirmi. Pare
mi consideri fra gli irrecuperabili da quella volta che, saputo dei miei
trascorsi liberali, mi fece chiedere da un suo amico: «Ma se non è comunista,
perché non sta con me?» B è un semplificatore: o sei Stalin o Emilio Fede. Il
mondo del Duemila è troppo complesso per sottostare ai suoi schemi. Anche per
questo la sua stella è al tramonto. Senza di lui non mi annoierò, ma certo dovrò
faticare di più. Mi toccherà tenere d’occhio un sacco di persone: un politico,
un impresario, un presidente di calcio, un venditore di sogni, un comico, un
playboy. Mentre prima, per averle tutte, me ne bastava una.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA