mercoledì 30 novembre 2011

Paracarri

Allora, sabato (e i giorni precedenti) il tg di Rai Uno era il più seguito d’Italia. Poi domenica - poiché il traino della Formula uno è molto più debole di quello dell’Eredità, come ha sostenuto il direttore Augusto Minzolini - il Tg1 è sceso al sedici per cento superato dal Tg5 di Clemente Mimun al venti e persino dal Tg3 di Bianca Berlinguer al diciassette. Ma ieri Minzo è subito tornato al ventidue per cento, riscavalcando sia il tg della Rai Tre sia quello di Canale 5. Tutto questo per dire che l’unico che non fa un sorpasso è Felipe Massa.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

lunedì 28 novembre 2011

Boris Johnson...

Sapete chi è? E' il sindaco di Londra che si sposta a lavoro.
E ho detto tutto.

sabato 26 novembre 2011

I mestieranti

Finalmente. Un peso in meno per la sinistra italiana, che già ne ha troppi. Il peso da cui s'è forse liberata (e almeno per un pò, visto che ormai ha scelto Silvio come alleato nel governo tecnico) è quello dell'antiberlusconismo. A martellare l'ex premier ora ci pensa la Lega, in un ritorno al futuro, in un revival dei bei tempi in cui, prima della riappacificazione in vista delle elezioni del 2001, il Cavaliere era agli occhi dei valligiani di Bossi il Cavaliere Nero, l'Orco di Arcore, il Miliardario brutto, sporco e cattivo. È ritornato ad essere così. Basta ascoltare gli sfoghi del popolo lumbard nelle varie sagre della polenta o del maiale pre-alpino o post-dolomitico.

O le parole dell'Umberto, ieri: «Quello pensa solo ai fatti suoi, ha lasciato il governo perchè le sue aziende stavano andando male». Berlusconi si è arrabbiato assai per queste accuse, e sarà gustoso vedere da adesso in poi la guerra fra due leader, piuttosto ammaccati, che in questi anni si sono riempiti vicendevolmente la bocca con i sentimenti profondi e fraterni che li univano: «Io mi fido solo di Silvio», «Io mi fido solo di Umberto». Ma figuriamoci.

I comici in questo periodo sono intristiti per il fatto di non avere più il nemico Berlusconi che li ha tanto fatti divertire, ma dovrebbero anche sacramentare. Perchè c'è un comico più bravo di loro, lassù in Padania, che gli ha rubato il mestiere.
di Mario Ajello; Il Messaggero

Amori impossibili

Ma Vendola lo sa che alle primarie dovrà sfidare Passera?

di Jena; LA STAMPA

Incul(c)are

Secondo un’indagine della Banca d’Italia illustrata dal governatore Ignazio Visco, «i salari di ingresso nel mercato del lavoro sono oggi in termini reali su livelli pari a quelli di alcuni decenni fa». Non è chiaro? Bè, in pratica, chi comincia a lavorare oggi deve accettare uno stipendio molto basso, che non tiene conto della crescita del reddito che si è nel frattempo registrata. Ancora non ci siamo? Mettiamola così: prima si inserivano i giovani nel mercato del lavoro, adesso si inserisce il mercato del lavoro nei giovani.
di Mattia Feltri; LA STAMPA

venerdì 25 novembre 2011

Rosalia D'Amato

E chi è? Forse l'ultima fiamma di Silvio?
Dopo 7 mesi l'equipaggio tenuto ostaggio da pirati somali è stato liberato.

(Anti)eroe

Si può comprendere lo stupore che emerge dagli interrogatori di Tommaso Di Lernia, il tizio che ungeva politici e dirigenti per mungere la mammella degli appalti pubblici. A un certo punto del suo peregrinare fra mazzette e fatture false, Di Lernia finisce nell’ufficio di un alto funzionario dell’Enav che si colloca a uno snodo cruciale del percorso tangentizio. Il corruttore ha bisogno della sua firma o della sua omertà. «Andai da lui per cercare di disincagliare la situazione» racconta nel gergo delle deposizioni, «ed egli mi manifestò le sue ragioni, devo dire valide. Allora tentai di offrigli del denaro, ma mi resi conto che non avrebbe accettato nessuna retribuzione».

Dunque il funzionario si attenne alle regole, rifiutandosi di disincagliare e di intascare. Nonostante attorno a lui fosse tutto un fiorire di attività intascanti e disincaglianti: chi si faceva accreditare i soldi all’estero, chi li intestava a una società di comodo, chi maneggiava fondi neri in guanti di velluto. Ma lui niente, «impermeabile a ogni tipo di offerta» lo definisce l’amareggiato Di Lernia. Impermeabile e recidivo. Perché chiunque può avere un momento di sbandamento e rifiutare una mazzetta. Mentre qui siamo di fronte a un caso estremo di onestà continua e reiterata. «Più volte l’amministratore delegato di Finmeccanica mi disse di sistemare la faccenda con tale dirigente perché per lui rappresentava un problema». Difficile dargli torto. Una persona perbene come il dottor Fausto Simoni lì in mezzo era decisamente un problema.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Anticamonti

L’ altro giorno il nostro premier è arrivato a Ciampino diretto a Bruxelles con una dozzina di collaboratori. Ha preso un sobrio ed economico Falcon 900 da una ventina di posti sebbene gli avessero fatto trovare un Airbus 319cj, che di passeggeri ne trasporta cinquanta. Dicono le cronache che, davanti all’Airbus, il premier ha esclamato: «Non c’è un apparecchio più piccolo?». Proprio così, ha detto «apparecchio». Sono tutte notizie che ho trovato sulle autostrade informatiche del mio cervello elettronico.
di Mattia Feltri; LA STAMPA

mercoledì 23 novembre 2011

Incredula credibilità

La salute prima di tutto

Il porco

Che schifo il decreto per Roma capitale, varato dall'esecutivo Monti, anzi dal «governo della Goldman Sachs», come lo chiama SuperMario: non Monti, ma Borghezio. Ed «è presagio del peggio del peggio che sta per arrivare ai danni di chi lavora e di chi produce, cioè del Nord».

Ma non si preoccupino i popoli degli alpeggi e delle baite, perchè per la Lega, assicura Borghezio, «questo decreto ha il sapore di un diktat coloniale e gli daremo lo stesso valore che avrebbe se fosse scritto su carta da cesso».

Neanche più alle scuole elementari si fanno questo tipo di battute. O magari, circolano soltanto nell'istituto dedicato al folk padanista, e alle sub-culture di quei posti lassù, creato dalla moglie, baby pensionata, di Bossi. E molto ben remunerato, grazie ai buoni sentimenti del governo appena decaduto, dall'odiata Romaladrona.

di Mario Ajello; Il Messaggero

Il botto di Rosario

Seconda puntata di Il più grande spettacolo dopo il weekend su Raiuno, oltre 12 milioni di spettatori in media con picchi di 14, share schizzato al 42,6. Cifre sono impressionanti. In questi tempi di tv generalista in crisi, poi. Più che il Festival di Sanremo. Negli ultimi tempi, soltanto il Vieni via con me di Fabio Fazio era riuscito a raggiungere dieci milioni di persone, sulla più defilata Raitre, e con quei monologhi di Saviano che tutto erano tranne che scoppiettanti. Anche là, tanta qualità. E dunque, che sia questo il vero segnale? Che il pubblico, stanco e stufo di approssimazione, sazio di «reality», di «talent», voglia invece i «professional» che qualcosa san già fare? Per via della nemesi, Fiorello si è anche collegato con Canale 5 e il Grande Fratello , che regge eroicamente con i suoi irriducibili 3 milioni 793 mila spettatori, 15,71 di share. Lui è l’artista che ognun sa. Come ebbe a dire: «Non sono cantante, ma canto. Non sono ballerino, ma ballo. Non sono attore, ma atto».

Però non è solo. E il suo programma non nasce per partenogenesi. C’è una squadra coesa di autori che lavora al suo servizio. Qualcuno da dieci anni, qualcuno da un po’ meno, ma tutti da tanto. La moda del cambiamento per principio, non contagia Rosario. E già si mormora che per la terza puntata stia preparando l’ospitata di Adriano Celentano. Piuttosto il vecchio adagio: squadra che vince non si cambia. Ne fanno ora parte il regista Cristiano D’Alisera, lo scenografo Gaetano Castelli, il coreografo Daniel Ezralow. E poi Marco Baldini, coautore e spalla, e quanto una spalla sia fondamentale per il capocomico lo sappiamo dai tempi dei fescennini. Enrico Cremonesi, musicista e inventore di intrepide mescolanze: chi avrebbe mai osato mescolare Radio Gaga e O sole mio ? Nessuno. Ma lui sì. E poi ci sono gli autori: il coideatore, supervisore teatrale e coach Giampiero Solari; e, in rigoroso ordine alfabetico, ognuno con le sue specializzazioni: Francesco Bozzi, costume e società, Riccardo Cassini, politica e attualità, Alberto Di Risio, attualità, Claudio Fasulo, scaletta e tempi televisivi, Pierluigi Montebelli, costume e società, Federico Taddia, attualità e twitter.

Hanno cominciato a lavorare ai primi di settembre, 4, 5, 6 ore al giorno. Curano i dettagli e fanno la prova generale, come usava una volta: solo che adesso lo spettacolo è molto più lungo, quindi i dettagli da curare sono infiniti. Racconta Riccardo Cassini: «Dopo la generale, lo mandiamo a riposarsi, e noi restiamo lì a ripetere la scaletta, fino alle 4 del mattino. Non c’è verso: lui telefona ogni cinque minuti per chiedere, sapere, ricordare». Talento e applicazione. Secondo Cassini, autore rosariano della prima ora, insieme con Solari e Bozzi, il segreto del successo di Fiorello è Fiorello. «Noi potremmo stare per ore con le nostre capoccette a immaginare questo e quello, battute e ospiti: ma se poi non arriva lui col tocco magico, non serve a niente».

Federico Taddia è il più giovane del gruppo, ha 39 anni, gli altri una decina di più. Ed è anche l’ultimo arrivato. Dove per ultimo si intende che è in squadra dal 2003. «Ci conosciamo bene, sappiamo che siamo complementari, saltiamo i preliminari. Lavoriamo tanto. Fiore ci chiede il massimo e poi di più. Io seguo personalmente la parte twitter. Varietà e social network sono due cose lontanissime, che lui è riuscito a mettere insieme. Credo che questo sia uno dei motivi del successo». Come lavorate? «È una specie di ping pong, ognuno rimbalza le proprie intuizioni a Fiorello, lui rimbalza le sue a noi e poi ci dividiamo e creiamo i testi. Che poi cambia». Improvvisa? «Improvvisa perché ha base solidissime e si prepara in modo maniacale». Non litigate mai? «Il massimo del litigio è dire: no, quella battuta non la farei”. Chissà se è understatement. Sta di fatto che Claudio Fasulo chiosa: «Sembra un romanzo d’appendice, ma davvero siamo amici e ci vediamo a cena extra lavoro. Parliamo di calcio, famiglie e figli. Non è che tutti lavoriamo sempre e solo con lui. Però quando lavoriamo con lui, è una cosa totalizzante. E così è nato questo show popolare e twitter». Il coach e corresponsabile della baracca, Giampiero Solari, parla di «metodo maieutico»: ma lo sa Fiorello? «No. Lui non è un teorizzatore, vuol continuare a giocare e a sognare. Con gli anni, è diventato tecnicamente sempre più bravo, consapevole del palcoscenico. Dentro di sé ha la cultura dello spazio e del luogo. In tutti questi annici siamo migliorati a vicenda, in una sorta di palestra creativa». Niente è lasciato al caso? «Un discorso è la libertà all’interno della struttura, un altro è la casualità. E la casualità porta al qualunquismo, come se andasse sempre tutto bene. Invece no. Ecco, il nostro è un messaggio di rigore. In questo senso, siamo provocatori».

di Alessandra Comazzi; LA STAMPA

Fuori dal mondo

Molti lettori sono rimasti sorpresi, e in qualche caso persino offesi, dai giudizi negativi che Nichi Vendola ha espresso sul programma economico del governo Monti nell’intervista a «Che tempo che fa». Perché il presidente della Puglia fa di ogni erba un fascio, anziché sostenere lo sforzo di persone serie e competenti che cercano di rimediare ai danni d’immagine e di sostanza compiuti dai predecessori?

Il loro stupore è indicativo di quanto sta succedendo nelle teste degli italiani dopo la caduta di Berlusconi.

Per vent’anni la politica da noi è stata un referendum pro o contro una persona fisica. Cosa pensassimo del capitalismo finanziario o delle energie alternative era di importanza secondaria rispetto al fattore dirimente: l’accettazione o il rifiuto del populismo berlusconiano. Quest’anomalia ha prodotto alleanze tattiche e ambiguità inevitabili, alimentate dal fatto che i principali campioni dell’anti-berlusconismo (da Travaglio a Di Pietro) non erano di sinistra.

Ora che la polvere sollevata intorno a quella personalità eccessiva comincia a diradarsi, le idee tornano ad avere un nome e ci si ricomincia a dividere non sull’antropologia, ma sulla politica. Così lo stesso compagno Vendola che ancora un mese fa a «Ballarò», Berlusconi imperante, discettava con Fini circa una loro possibile alleanza, sulla poltrona di Fazio è tornato a indossare i panni dell’anticapitalista che in Monti vede il liberismo presentabile, ma pur sempre il liberismo: sensibile più alle ragioni del profitto che a quelle dell’ambiente o della giustizia sociale.

Dopo vent’anni di deriva populista c’eravamo dimenticati che in tutto il mondo esiste anche un liberalismo conservatore: serio, colto, perbene. E minoritario, almeno in Italia, perché minoritaria è la borghesia che lo esprime. Fu questo il cruccio di Montanelli e la vera ragione del suo dissidio con Craxi e poi con Berlusconi, che davano voce a un altro genere di borghesia, arrembante e spregiudicata. Forse però ci eravamo dimenticati che esiste anche una sinistra anticapitalista, indisponibile a stilare un programma coerente di governo con altre forze progressiste che pur contrastando Berlusconi accettano la Borsa e le banche. Il Sistema, insomma, e le sue regole del gioco. Quel Sistema e quelle regole che gli indignados italiani, di cui Vendola punta a farsi portavoce, vogliono abbattere perché lo considerano esaurito e ormai espulso dalla storia. In cambio di cosa non è ancora chiaro, visto che il comunismo è morto. Keynes è morto e anche lo Stato Sociale non si sente tanto bene.

Quando Bersani minimizza le divisioni a sinistra, sostenendo che Obama e Clinton, pur stando nello stesso partito, hanno posizioni divergenti su molti temi, dimentica di aggiungere che i due presidenti democratici americani sguazzano entrambi nel capitalismo, mentre Vendola lo vuole superare. Il nodo è tutto lì. Ed è quel nodo che fa dire, a chiunque osservi senza pregiudizi la situazione delle forze in campo nel dopo Berlusconi, che oggi esistono un partito antieuropeista, la Lega, un partito anticapitalista, Vendola più un pezzo di Pd, e in mezzo due democrazie cristiane. Una un po’ più di destra e l’altra un po’ più di sinistra, che non avendo abbastanza voti per vincere in solitudine né abbastanza sintonia d’idee con i partiti estremi per fare squadra con loro, saranno condannate in futuro a governare insieme.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Strategie

E’ stata una domenica sobria, quella del professor Monti e signora. Prima hanno seguito messa in Santa Maria in Aquiro, poi sono andati a visitare la mostra di Sandro Botticelli e Filippino Lippi alla scuderie del Quirinale. Hanno pagato il biglietto, hanno riposto il cappotto nel guardaroba e si sono fatti accompagnare passo passo da una guida. Dietro di loro si è formato un «silenzioso codazzo». I più, dicono le cronache, volevano soltanto scroccare la guida di Monti. Che poi è la linea di Bersani.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Bocconi amari

Si leggono inni assai poco sobri alla sobrietà di questo governo di bocconiani, politecnici e larga Intesa. Sobrietà sembra il nome con cui, dopo un ventennio di villaggio-vacanze, abbiamo deciso di ribattezzare la normalità. Un Paese che in questi anni avesse avuto una classe politica decente non avrebbe avuto bisogno di ricorrere ai sacerdoti del Capitale. Di sicuro un Paese siffatto non considererebbe Monti un uomo sobrio, ma semplicemente uno normale. Perché è normale che un primo ministro abbia il fascino di un sindaco dell’Engadina: mica deve fare l’imbonitore o la rockstar. Che dopo il lavoro vada a vedersi una mostra pagando il biglietto, invece di aprire la porta di casa a prostitute e ricattatori. Che i ministri del governo italiano vestano abiti italiani (preferibilmente scuri) e viaggino su auto italiane (preferibilmente scure). Che non regalino slogan ai giornali e spunti alla satira, che non parlino di calcio e di donne, non raccontino metafore sui leopardi smacchiati, non inciampino sui congiuntivi alla molisana e non mostrino il dito medio a favore di telecamera.

Insomma, dovrebbe essere considerato normale che chi ci governa non sia proprio uno di noi, ma uno meglio di noi. Che un borghese del Nord-Ovest, e in questo governo ce ne sono parecchi, sia una persona seria e magari noiosa, ma non una macchietta. La delega alle barzellette va tolta ai governanti e restituita ai legittimi titolari: i frequentatori dei bar. Anche questa, in fondo, è democrazia.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

sabato 12 novembre 2011

Giù la maschera, coglioni!

Affanculo le elezioni, diamoci una mossa.

Facciamoci del male

Tu sei fascista, tu sei comunista, quello è un vecchio, quello ha il grembiulino da massone, quell'altro è un riciclato. Poi c'è il traditore, e "ai traditori bisogna sparare alla schiena". Ci sono gli sconfitti di ieri che ora vogliono vendicarsi sui possibili perdenti di adesso. I poltristi di sempre che aspirano a nuove poltrone e a nuove ricollocazioni. I pasadaran della stagione precedente che provano a proporsi nel medesimo ruolo che hanno sempre ricoperto. Piccole e grandi vendette, sgambetti, maldicenze, insulti, odii. Ecco, insomma, siamo a un passaggio di regime - e la parola va intesa in senso tecnico - e in queste fasi storicamente accadano queste cose. Inutile fare il paragone rispetto a quando crollo il fascismo, sennò bisognerebbe dire che il ventennio del Duce e quello del Cavaliere si sono somigliati, e così non è stato. E comunque: un indulto morale, un'amnistia per le colpe reciprocamente rinfacciate, una pacificazione dei rancori, una tregua in nome del buon senso: questo serve adesso. Sennò, Monti va via e restiamo con quello che abbiamo. Praticamente più nulla, a parte i figuranti da tali show e da Transatlantico, che si sparano vicendevolmente raffiche di parolacce.

di Mario Ajello; Il Messaggero

Ma che ti ridi?

Di ventennio in ventennio

Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.

E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Fate voi la prima mossa

Nulla di personale, ma quando ho letto di Letta & Letta sottosegretari, zio e nipote nel toto-ministri come in un fumetto di Paperino, mi sono un po’ stranito. Poi hanno iniziato a girare i nomi di Frattini, di La Russa e di una giovane promessa, Giuliano Amato, che fu premier appena 18 anni fa. Ma è stato nel veder rispuntare l’ottantenne Dini al telegiornale che ho avuto un sussulto. Il governo Monti sarà una cosa seria e dura. Sarà il governo dell’Europa e del capitalismo possibile: non a caso lo osteggiano coloro che ritengono dannosi sia l’uno sia l’altra. Ci giochiamo davvero tutto, stavolta, a cominciare dalla faccia. Ecco perché sarebbe saggio, non solo decente, che a questo giro la politica scendesse dalla giostra. Limitandosi a votare il governo, ma senza ambire a farne parte. Ai politici di destra e di sinistra si richiede un gesto di generosità che sia anche una forma di espiazione per i disastri, i debiti e i benefici accumulati nei decenni. Un bagno di umiltà da cui potrebbero uscire rigenerati, recuperando la stima di una comunità che li disprezza e rischia di trascinare nel disgusto l’idea stessa di democrazia.

Il più grande spettacolo dopo il big bang berlusconiano non può ridursi al solito inciucio. Bisogna volare alto, o almeno sollevarsi da terra, e oggi purtroppo nell’immaginario collettivo la politica rappresenta la zavorra. Prima di versare lacrime e sangue, gli italiani pretendono che a chiederle non siano i soliti noti. Soprattutto pretendono che siano prima i politici a versarne. E un governo con la Casta dentro non potrebbe mai cancellare i suoi privilegi.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

B

Forse solo adesso che sta, oh molto lentamente!, evaporando nell’album dei ricordi, comincio a rendermi conto con un certo spavento che ho trascorso metà della mia vita a occuparmi di B. Anche molti di voi, lo so. Per quanto un po’ meno di me, che come cronista l’ho avuto accanto fin dal primo giorno di lavoro. Quando il mio vicino di scrivania al «Giorno» mi mostrò una fotografia del neo-presidente del Milan fra Baresi e Maldini. «Tempo sei mesi e al loro posto ci saranno due carabinieri!» mi vaticinò, quel comunista. La prima di tante previsioni sbagliate.

Sei mesi dopo al posto dei carabinieri c’ero io, ma B non era nelle condizioni di spirito per farci caso. Eravamo in un salone dei palazzi vaticani per l’udienza del Milan col Santo Padre. Un vescovo si avvicinò a B: «Come d’accordo, Sua Santità parlerà dopo di lei...» B, che non ne sapeva nulla, sorrise al porporato, poi si girò verso i suoi e lì investì con una strigliata memorabile. Gli restavano dieci minuti per improvvisare un discorso, Lo seguii di nascosto, lungo i velluti di un corridoio laterale: mi incuriosiva vederlo all’opera in una situazione di emergenza. Lo osservai camminare avanti e indietro. Contorceva la bocca e componeva arabeschi con le mani. Si stava caricando.

Alla fine della passeggiata indossò il suo miglior sorriso celentanoide e affrontò Wojtyla con poche, leggendarie parole. «Santità, in fondo Lei assomiglia al mio Milan». Qualche cardinale sussultò. «Perché anche Lei, come noi, è spesso in trasferta, a portare in giro per il mondo un’idea vincente, che è l’idea di Dio». Fu un trionfo. B si era trascinato al seguito un esercito di milanisti, giornalisti e inserzionisti - il Gruppo, come lo chiamava lui - e li presentò al Papa uno alla volta, alla sua maniera: «Questo è Ruud Gullit, Santità. Già 12 gol quest’anno, di cui tre in Coppa dei Campioni». Wojtyla abbozzò un sorriso di cortesia. «E questo è Gigi Vesigna, direttore di Sorrisi e Canzoni: un milione di copie, molte più di Panorama!». Il Papa si illuminò: «Panorama! Io leggo sempre Panorama!». B ci rimase così male che forse in quel momento decise di comprare la Mondadori.

Avevo ventisei anni e mi faceva già così ridere e così paura. Era il cumenda moderno, circondato dal servilismo dei collaboratori. Arrivava all’allenamento del Milan in elicottero, si toglieva l’impermeabile e lo lanciava dietro le spalle, dove c’era sempre qualcuno che lo pigliava al volo. Scrissi che il raccattacappotti era il nuovo portiere del Milan e si arrabbiarono tutti, specie il portiere del Milan. L’allenatore Sacchi, adulatore furbissimo, iniziava le conferenze del sabato con una formula magica: «Permettetemi anzitutto di ringraziare il Dottore, che è una persona meravigliosa. Senza di lui, noi non saremmo qui». Alla decima volta un collega alzò la mano: «Senta, Sacchi, premesso che il Dottore è una persona meravigliosa, ci dice la formazione?».

Io scrivevo tutto. Anche la didascalia sotto la celebre foto che lo ritraeva con Confalonieri, Dell’Utri e Galliani: in maglietta bianca e in fila per uno: «Il Gruppo, compatto, suda agli ordini del Dottore». Non poteva durare. Il direttore del «Giorno» Lino Rizzi, indicato (come si diceva allora) dalla Dc, mi mandò a chiamare. «B ha detto che se non la smetti di prenderlo in giro, ci toglie la pubblicità di Canale 5». E tu cosa vuoi che faccia, direttore? «Il tuo dovere. Con prudenza. Ma non smettere di raccontare quello che vedi». Il primo miracolo di B: farmi rivalutare i democristiani.

Già allora esisteva un doppio B: quello solare delle apparizioni in pubblico e il personaggio misterioso che aveva potuto disporre, a meno di trent’anni, di prestiti miliardari. Ma nei lunghi pomeriggi di Milanello la storia extrasportiva che tutti ci raccontavamo a mezza bocca riguardava il famoso patto di Segrate. Quando B e la Mondadori, non ancora sua, avevano firmato di venerdì pomeriggio un accordo solenne per spartirsi la pubblicità televisiva a partire dal lunedì successivo. Dopo le foto e i sorrisoni di rito, B rientrò nei suoi uffici e, così narra la leggenda, si rivolse al segretario Urbano Cairo e agli altri collaboratori come in un film: «Sincronizzate gli orologi: abbiamo solo 48 ore prima che entri in vigore l’accordo. Rastrellate tutta la pubblicità che c’è in giro!». Il lunedì la Mondadori si trovò senza più neanche uno spot e di lì a qualche giorno dovette vendere Retequattro. A chi? A B.

Questo aneddoto forse un po’ romanzato (magari, conoscendolo. proprio da lui) è il test che utilizzo da anni per capire gli orientamenti politici dei miei interlocutori. Se rispondono «vergogna, che disprezzo per le regole!», sono berluscallergici. Se dicono «intanto però lui nel weekend ha lavorato!», sono berluscloni.

Fui testimone oculare di una censura. Un collega del suo «Giornale» aveva intervistato Baresi, piuttosto critico con il presidente. Il pezzo, intitolato «La difesa del Milan attacca B», era saltato alle undici di sera in tipografia, goffamente sostituito da una foto di Trapattoni delle dimensioni di un poster. Ci trovavamo ad Ascoli, al seguito del Milan, e il collega censurato passò la giornata successiva al telefono della mia stanza d’albergo, così potei assistere in diretta al balletto straziante degli scaricabarile. Baresi smentì l’intervista. Montanelli, ancora direttore, chiese al giornalista se aveva la registrazione, ma nello sport allora non usava: tutto era affidato ai taccuini. A malincuore persino il grande Indro dovette allargare le braccia. Così la censura passò e divenne un precedente. Lasciai Milano e «Il Giorno» per Roma e «La Stampa», convinto che non lo avrei incrociato mai più. Lo rividi una notte a Barcellona, la Coppa dei Campioni fra le braccia, mentre catechizzava la folla di un ristorante: «Un giorno farò l’Italia come il Milan!». Tutti a darsi di gomito, tranne i cronisti sportivi che lo seguivano da una vita. Solo loro sapevano che uno così era capace di tutto.

Il ponentino romano mi deberlusconizzò rapidamente. Avevo quasi nostalgia di B, quando una sera di novembre il giornale mi mandò in Parlamento per raccogliere pareri sul suo ventilato ingresso in politica. Montecitorio alle sette era deserta, ma da una porta apparve un ritardatario, il capogruppo del Pds, Massimo D’Alema: «Smettetela di spargere in giro le solite sciocchezze. B non entrerà mai in politica. E’ pieno di debiti». Appunto, azzardai io. Ma D’Alema mi fulminò con una smorfia delle sue: «Allora mi devo ripetere: non entrerà mai in politica!». Compresi che la discesa in campo era ormai inevitabile.

Nei mesi successivi l’Italia intera scoprì l’omino del nuovo ventennio. Le sue manie e megalomanie. Le videocassette con la finta libreria e la calza sulla telecamera. Il miracolo del tifoso milanista paralizzato: «Tommaso della Fossa dei Leoni: alzati e vieni dal tuo Presidente!». L’inno con le parole intercambiabili: «E forza Italia per fare per credere...». Le frasi memorabili: «Non esistono i poveri, ma solo i diseducati al benessere».

Ero disperato. A cosa mi era servito scappare dallo sport e far perdere le mie tracce, se me lo ritrovavo di nuovo addosso? Con i colleghi de «La Stampa» Pino Corrias e Curzio Maltese ci prendemmo una settimana di ferie per scrivere un libro sul suo avvento al potere. Lavoravamo in un posto segreto, giorno e notte, non ricordo di aver mai infilato i piedi sotto le coperte. Morivamo di sonno e, per non morire anche di fame, un pomeriggio Curzio e Pino andarono a fare la spesa. Ero solo in casa quando la porta bussò con violenza: «Carabinieri, aprite!». Come avevano fatto a trovarci? Nessuno, tranne i parenti stretti, sapeva che eravamo lì. Ero così imbevuto di B che feci un paio di collegamenti mentali: i carabinieri dipendevano dalla Difesa, Previti era ministro della Difesa, ergo B li aveva mandati ad arrestarci. Truccando la voce pigolai: «Chi cercate, prego?». «Maltese Curzio...». «Chi?». «...Corrias Pino». «Chi?» «...e Gramellini Massimo». «Perché?».

Fu il «perché» a fregarmi. A quel punto dovetti aprire. Scoprii che non era stato B a spedirceli, ma il direttore de «La Stampa», Ezio Mauro. Avendo saputo chissà come che avevamo appena parlato col più acuto filosofo del berlusconismo, Mike Bongiorno, quel formidabile trapano aveva mobilitato i carabinieri di mezza Italia per rintracciarci e avere un’anteprima dell’intervista sul giornale.

Parli d’altro, mi suggerivano i lettori. Una parola. Non esisteva argomento in cui, per dritto o per rovescio, non entrasse lui. La politica? Lui. Il calcio? Lui. La tv? Lui. La pubblicità? Lui. Il cinema? Lui. La cultura (ehm ehm). Lui. I soldi? Lui, lui, lui. Un giorno, stremato, comprai una rivista di botanica. C’era una foto di B nel giardino di Arcore mentre potava le rose.

Difficile non trasformarlo in un’ossessione. Il culmine lo raggiunse un amico di «Repubblica» durante la mia prima e ultima vacanza esotica, all’indomani della vittoria elettorale dell’Ulivo. Ci concedemmo un bagno notturno, c’erano la luna, le ragazze, il mormorio avvolgente del mare. Avevamo ancora l’acqua alle ginocchia quando l’amico mi si avvicinò con aria corrucciata. «Sai», disse. «Stavo pensando che se Prodi non fa la legge sul conflitto di interessi entro una settimana...». «Ti prego», mi ribellai. «Non ora, non qui!». E invece aveva ragione. Gli ulivisti non fecero la legge, forse erano su qualche spiaggia esotica anche loro, e B continuò a fare il B più di prima.

Entrai nella fase dell’apostolato attivo: volevo convincere il mio prossimo che B non era un liberale ma un monopolista, e che non gli importava niente dell’Italia ma solo dei fatti suoi. Mi arresi durante un trasloco, quando un operaio mi abbordò preoccupato: «Dottò, lei che mastica di politica, ma è vero che B pensa di vendere le sue televisioni?». «Ne dubito, ma lo spero. Diventeremmo un Paese normale, non crede?». «Io, se vende le tv, non lo voto più». «Come dice, scusi?» ululai. «Non lo voto più. Finché ha le tv è ricco e non ruba». «Ma così farà sempre e solo gli affari suoi!». «Ma facendo i suoi, sarà costretto a fare un po’ anche i miei. Se invece vende le tv, diventa un politico come tutti gli altri». Mi arresi. La sinistra doveva smettere di sostenere che l’italiano medio era vittima di Berlusconi. L’italiano medio era solo un Berlusconi più povero.

Oramai B era il nome più evocato, più maledetto, più amato. Provate a contare quante volte avete pensato a lui in questi anni. Più che a vostra suocera, di sicuro. Mai nessuno aveva diviso tanto l’Italia e gli italiani. Un tizio mi scrisse alla posta del cuore per raccontarmi di aver lasciato una ragazza che stava corteggiando, dopo aver scoperto che lei aveva votato per B. Un popolo spaccato in due, una democrazia trasformata in un referendum continuo: pro o contro una singola persona che incarnava un mondo che gli uni consideravano sguaiato e gli altri vitale. E quella persona era il cumenda ridens che avevo visto lanciare l’impermeabile all’aspirante portiere milanista.

Siamo invecchiati insieme, nel senso che mentre io perdevo i capelli lui li ritrovava. In venticinque anni ho cambiato opinione su quasi tutto, ma non su B: continua a farmi ridere e a farmi paura. Ultimamente più paura che ridere. Non ha mai cercato di convertirmi. Pare mi consideri fra gli irrecuperabili da quella volta che, saputo dei miei trascorsi liberali, mi fece chiedere da un suo amico: «Ma se non è comunista, perché non sta con me?» B è un semplificatore: o sei Stalin o Emilio Fede. Il mondo del Duemila è troppo complesso per sottostare ai suoi schemi. Anche per questo la sua stella è al tramonto. Senza di lui non mi annoierò, ma certo dovrò faticare di più. Mi toccherà tenere d’occhio un sacco di persone: un politico, un impresario, un presidente di calcio, un venditore di sogni, un comico, un playboy. Mentre prima, per averle tutte, me ne bastava una.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Blah blah blah

Appoggio esterno
Sostenere Mario Monti o non sostenere Mario Monti? La terza via del Pdl, ispirata dalla migliore manualistica della Prima Repubblica, è l’appoggio esterno. Un po’ sì e un po’ no. Da ragazzo fumai uno spinello ma non lo aspirai, disse una volta Bill Clinton: era l’appoggio esterno alla canna. Tirai una molotov ma non esplose, disse Massimo D’Alema: era l’appoggio esterno alla rivoluzione. Appoggio esterno non vuol dire appoggio affievolito, ha dunque precisato Gaetano Quagliariello. Dunque, appoggiamo ma decliniamo ogni responsabilità.

Banda bassotti
I tecnici da cui è formato il governo in pectore, secondo il leghista Roberto Calderoli. Quando tornano all’opposizione, i carroccianti tornano anche alla creatività. A proposito di metafore disneyane, si noti la notevole somiglianza sia storica che somatica di Calderoli con Ciccio, l’oca che gira e rigira si pappa la torta di Nonna Papera.

Base
 La base si ribella, in genere. Stavolta pareva fosse successo all’Italia dei Valori: la base (in realtà una minoranza internettiana) non vuole barricate, ma sceglie di dare una mano a Mario Monti. Si concretizza il dilemma sollevato da uno dei più grandi filosofi del Novecento: Lucio Battisti. Disse che «l’artista non deve andare dietro al suo pubblico, ma stargli davanti». Il problema dei leader è che, quando cercano di stare davanti al loro popolo, a un certo punto si girano e dietro non c’è nessuno.

Consultazioni lampo
 Vedi la voce «veti incrociati»

Convergenze parallele
 Oltre il settanta per cento degli elettori dell’Idv e il cinquantacinque per cento di quelli della Lega vuole andare a votare. Senza contare la comodità di starsene all’implacabile opposizione di un governo che spargerà sangue. Due partiti alternativi, gli stessi opposti interessi. Di bossiani e dipietristi si apprezzano anche le novità lessicali dietro cui si nascondono le care vecchie macchinazioni.

Dini
Lamberto, ministro berlusconiano, poi ribaltonista, poi ministro prodiano, poi ribaltonista, già leader di Rinnovamento italiano. Il Pdl pensa a Dini. Berlusconi spariglia con Dini. La Lega apre a Dini. Si è letto persino «il nome nuovo è Dini». La parola crisi assume più ampi significati.

Discontinuità
Il governo Monti la garantisca. Discontinuità dall’ultimo governo Berlusconi ma discontinuità anche dal rissoso e inconcludente governo dell’Unione. E quindi discontinuità dal governo del Polo 2001-2006 che è all’origine degli attuali guasti. E discontinuità, ovvio, dall’Ulivo 1996-2001 che produsse tre premier. Va da sé che serve discontinuità dal governo Dini detto del ribaltone, ma altrettanta discontinuità dal primo improbabile governo Berlusconi durato otto mesi. Ognuno vada indietro sinché crede, fino a Bettino Craxi, Agostino Depretis o Romolo Augustolo.

Fascisti
 Termine evergreen tirato fuori ieri da Franco Frattini per definire gli ex di An che vogliono le elezioni. Ne è scaturita una polemica che ha coinvolto i finiani. Attraverso il webmagazine “il Futurista” hanno scritto ai colonnelli: fascisti siete e fascisti resterete. Flavia Perina, ex direttore del Secolo, ha precisato: fascistelli. Ignazio La Russa ha replicato a Frattini: comunista. Lo spread fra camerati e compagni ai minimi storici.

Funghi
«Non è che uno può andare per funghi durante il governo tecnico...». Lo ha detto Pierluigi Bersani a proposito di Di Pietro. Bersani ha portato nella politica un nuovo linguaggio: non è che si può star qui a pettinare i ricci; non siamo mica qui a disegnare le righe ai calabroni; non siamo mica in parlamento per far la doccia alle trote...

Governicchio
No a un governicchio, dice Di Pietro. È già un governicchio, titola Libero. Rischia di nascere un governicchio, spiega Pierferdinando Casini. Vedi la voce successiva.

Governissimo
O governo tecnico. O governo tecnico con discontinuità. O di salute pubblica. O della larghe intese. O di larghe convergenze. O di tregua. O di unità nazionale. O di responsabilità nazionale. O di solidarietà nazionale. O di garanzia. O istituzionale. O di decantazione. O per le riforme. O di legittimazione parlamentare. O di transizione. O della salvezza. O di emergenza. Purché serio. Purché a termine. Purché a obiettivo. Purché ambizioso. Purché bipartisan. Purché condiviso. Purché non sia un governicchio. Un governicchio? No, serve un governissimo. O un governo tecnico...

Mercati
I mercati vanno rassicurati, vanno tranquillizzati, vanno calmati, hanno bisogno di credibilità, ci voltano le spalle, si fidano, non si fidano, schizzano, crollano, hanno la percezione, intuiscono, capiscono, che cosa abbiamo detto ai mercati?, c’è turbolenza nei mercati, i mercati sanno perfettamente, i mercati hanno fiducia, hanno perso la fiducia, sono partiti male stamattina, provano a reagire, sono spaventati, so’ piezz’e core.

Nuova fase
L’importante è entrare in una nuova fase, ha detto Paolo Cirino Pomicino. Che tornasse il nuovismo: ecco un evento imprevedibile. Che tornasse Cirino Pomicino: ecco un evento molto imprevedibile. Che tornassero assieme: quando la realtà entra nella quarta dimensione.

Passo indietro
Berlusconi lo ha fatto e la tortura sembrava finita. Ma ieri D’Alema lo ha chiesto di nuovo, stavolta ai partiti. Un giorno lontano qualcuno proverà il brivido di invocare un passo in avanti.

Paletti
Ma il governo Monti che cosa dovrebbe fare? Suggerimenti qua e là: la legge elettorale, la legge elettorale no; la patrimoniale, la patrimoniale no; politiche sociali ma non macelleria sociale; toccare la pensioni, giù le mani dalla pensioni; privatizzare tutto, tutto fuorché privatizzare; fare quello che dice l’Europa, rendersi indipendenti dall’Europa; l’amnistia, l’amnistia? È il Paese che fa quadrato.

Responsabilità
È il momento di assumersi le proprie responsabilità. Per Rosi Bindi, Di Pietro deve assumersi le sue responsabilità. Per Di Pietro, è la Bindi di deve assumersi le sue responsabilità. Per Berlusconi, anche il centrodestra deve assumersi le sue responsabilità. È ora delle responsabilità, ha detto Lorenzo Cesa dell’Udc, e noi ce le assumiamo. Secondo Alemanno, è il Pd che deve assumersi le sue responsabilità. E secondo Matteoli, ognuno si assumerà le sue responsabilità. Tutti si assumano parte di responsabilità, ha concluso Walter Veltroni. L’unico autorizzato a vantare il titolo di Responsabile, Domenico Scilipoti, ieri ha detto la sua: «Monti è un lobbista».

Sterile
No a un Aventino sterile, dice Pancho Pardi in dissidenza con il suo partito, l’Idv. Ma Pdl più Pd sono come due maschi a letto insieme, cioè sterili, ribatte Di Pietro. La discussione è aperta ad altri fertili interventi.

Veti incrociati
Antica tecnica che tende a bloccare la manovra di chi tende a bloccare la manovra a chi sta tendendo a bloccare la tua manovra. Il concetto - rispetto al numero di partiti, correnti, bande e pistoleri solitari presenti oggi in Parlamento - è qui semplificato. I veti incrociati non agevolano l’obiettivo delle consultazioni lampo. Si consiglia di conservare l’aggettivo “lampo” per un proverbio che tornerà utile: la vita è una tempesta, è prenderlo lì che è un lampo.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Gatta ci cova

Non ve lo aspettavate, vero? Silvio Berlusconi che dice di sì a un governo delle larghe intese. Questa è davvero inedita. E imprevista. E invece pare proprio che lui ci stia. Lui, col suo Pdl, con il Pd, con tutto il Terzo Polo, cioè coi casiniani, coi rutelliani, coi finiani, per non parlare degli scajoliani e dei pisaniani e persino dei dissidenti dell’Hassler, quelli che lui ha chiamato traditori. E poi Noi Sud, Forza Sud, forse anche Vendola... Bè, insomma, Berlusconi ha detto sì al governo Monti perché non poteva perdersi un’ammucchiata.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

mercoledì 9 novembre 2011

A casa!!!

Corri a casa in tutta fretta c'è il biscione che ti aspetta. Supermike. Dallas. Il Milan dell'allenatore di Fusignano. In un ipermercato di Casalecchio di Reno: «Se fossi a Roma sceglierei Fini». L'Italia è il paese che amo. E siamo tantissimi. Un milione di posti di lavoro. Bossi, il traditore (tornerà spesso l'ansia del tradimento). E abbiamo tutti un fuoco dentro al cuore, un cuore grande che sincero e libero batte forte per te. La Padania che gli dà del mafioso. Bossi che non gli dà più del mafioso. Meno male che Silvio c'è. Il presidente operaio. I giudici comunisti. «La suggerirò per il ruolo di kapò». Le corna nella foto di gruppo, le prime foto con le signorine sulle ginocchia nel villone. La moglie che dice che è malato. Noemi compie 18 anni. I giudici comunisti. Lele Mora ed Emilio Fede. Meno tasse per tutti. Le canzoni con Apicella. Le telefonate a Ballarò. «Che fai mi cacci?». Una bella ragazza di Rimini consigliere regionale in Lombardia. Il bunga-bunga, le telefonate con Lavitola, le signorine di Tarantini. La patonza deve girare. Non mi dimetto. Scilipoti, le risate di Sarkozy e della Merkel, lo spread, l'economia che affonda, la Ue che dice che l'Italia è in una situazione drammatica, Crosetto che gli dà della testa di c.. Non mi dimetto, il pallottoliere della fiducia, non mi dimetto, 308, salgo al Colle ma non mi dimetto subito, 308, i traditori. La foto dal finestrino dell'auto blu, qualche goccia d'acqua: lui ha gli occhi chiusi e la mano che si aggrappa a una maniglia, Letta ha gli occhi lucidi e rassegnati.

di Mauro Evangelisti; Il Messaggero

Nto' culu a tutti, comunque vada

Se penso a un’Italia senza B, immagino un brigadiere che si addormenta mentre intercetta le telefonate fra il professor Monti e Mario Draghi. Oh, mica voglio un’Italia di banchieri. Ma un po’ grigia e barbosa, sì. Non moralista, morale. Che per qualche tempo si metta a dieta di barzellette, volgarità, ostentazioni d’ignoranza. Dove l’ottimismo non sia la premessa di una truffa, ma la conseguenza di uno sforzo comune. Un’Italia solare, anche nell’energia. Con meno politici e più politica. Meno discorsi da bar e più coerenza fra parole e gesti. Una democrazia sana e contenta di sé, che la smetta di prendere sbandate per gli uomini della provvidenza e si ricordi di essere viva ogni giorno e non solo una volta ogni cinque anni per mettere una crocetta su una scheda compilata da altri. Un’Italia di politici che non parlano di magistrati, ma coi magistrati (se imputati). E di magistrati che parlano con le sentenze e non nei congressi di partito. Di federalisti che non fanno rima con razzisti. Un Paese allegro e però serio. Capace di esportare non solo prodotti belli, ma belle figure. Vorrei essere governato da persone migliori di me. Che non facciano le corna, non giurino sulle zucche e si sfilino un paio di chili dalla pancia, prima di far tirare la cinghia a noi, ripristinando il principio che chi sta in alto deve dare il buon esempio.

Per giungere a un’Italia così, le dimissioni di B rappresentano un primo passo. Adesso devono dimettersi tutti gli altri. Perché più ancora di Berlusconi temo i berluscloni.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

E' la fine... non si sa di cosa

Dopo anni di feste di corte, dopo anni di leggi ad personam incontraste, la crisi. Ha iniziato a perdere pezzi la sua maggioranza, ha iniziato a non avere più una lira lo Stato: era necessario distrarsi ancor di più. Viva Ruby, viva l'Elefantino, mettiamo a tacere i moralisti. Dopo anni di fuochi di paglia, è finita anche quella: dal nulla sostanziale si passa al nulla assoluto, almeno la pianta di raccontare favole. Viva i Responsabili! Fini, li mortacci sua! Il mondo, avanti o indietro, si sposta, ma chissenefrega noi stiamo a guardare.
Insomma siamo un Paese in salute che ha sprecato una ventina d'anni e ha letteralmente buttato l'ultimo. Tutto sommato non stiamo malaccio, vado nei ristoranti e sono pieni... ma dove cazzo sono i problemi? Ora basta, s'è fatto tardi: sta per iniziare il TG1.

Ultimi disperati tentativi

Ore confuse e drammatiche. Secondo Giuliano Ferrara e Franco Bechis, le dimissioni di Silvio Berlusconi sono imminenti. Ieri mattina pareva fosse questione di minuti. Poi il presidente del Consiglio ha smentito: «Vado avanti, voglio vedere in faccia i traditori». Oggi dunque si rivota il rendiconto. Poi ci sarà la fiducia. Visti i movimenti, si preannuncia un’altra battaglia parlamentare aperta a ogni soluzione. Il premier spera ancora di salvarsi in extremis e studia la mossa a sorpresa: passare all’Udc.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Speculiamo allegramente

Solo i mercati credono ancora a Giuliano Ferrara. Quando il direttore del Foglio ha annunciato che Berlusconi si sarebbe dimesso «a minuti», la Borsa si è trasformata in un carnevale di Rio, salvo precipitare nella più stretta quaresima dopo l’ovvia smentita dell’interessato. Nella migliore delle ipotesi Ferrara è un burlone. Da discreto conoscitore del Cav. dovrebbe sapere che Berlusconi non si è mai dimesso da nulla nella vita. Chi lo ha costruito in una notte di luna piena si è scordato di inserire la retromarcia. Come imprenditore e come politico ha sempre e solo comprato: si ricordano due uniche cessioni di qualche rilievo, la Standa e Kakà, ma entrambe si sono poi rivelate un affare. Un suo amico mi raccontò la natura di B. con una metafora: non è fuoco che brucia, ma acqua che invade. E l’acqua non torna mai indietro. Può essere fermata solo dagli argini. Purtroppo in Italia, lo si è visto anche in questi giorni, quanto ad argini siamo messi maluccio.

Berlusconi è l’Anti Gambero, cioè l’Anti Politico. Un politico, al suo posto, si tirerebbe indietro o di lato e lascerebbe ad altri il compito di scottarsi, scommettendo sulla memoria corta degli italiani per ripresentarsi nel 2013 nei panni di novità candidabile al Quirinale. Ma B. si sente un eroe, un prescelto dal popolo come Napoleone o Gheddafi, fate voi. E gli eroi non arretrano, non trattano, non si dimettono. Gli eroi si inoltrano lungo un sentiero a spirale che li conduce alla gloria e poi alla disfatta, perché persino sull’orlo del baratro non resisteranno alla tentazione di fare un passo avanti.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Inadeguata

Se il sindaco di Genova Marta Vincenzi avesse ordinato la chiusura delle scuole non ci sarebbero stati quattro morti. Sarebbero salve sia le mamme sia le bambine. Perché dunque la signora non si calma e non riconosce l' errore invece di sostenere che l' allarme della Protezione Civile non doveva essere preso sul serio? La Vincenzi addirittura dice che dar seguito a quell' allerta sarebbe stato (l' ignobile parola è sua) «terrorismo». Fare il proprio dovere è terrorismo? Invitare i propri cittadini a «stare a casa perché diluvia» significa spargere il terrore? Tanto più che dopo il nubifragio, davanti ai morti, la Vincenzi ha parlato invece di «tsunami». Prima ha sottovalutato per incompetenza e poi ha sopravvalutato per discolparsi. Prima ha negato il pericolo per non correre il rischio - ovvio ad ogni allarme - del troppo rumore per nulla. Poi lo ha ingigantito sino all' enormità dello tsunami per non correre il rischio - niente affatto ovvio - di pagare per quelle vite annegate, di vedersi accollata la responsabilità politica e morale della tragedia. È una meteorologa a corrente alternata, anzi é una meteoropatica: "sente" il tempo secondo i propri umori, lo piega ai propri interessi. Il punto è che la Vincenzi sia prima sia dopo, soprattutto dopo, si è dimostrata drammaticamente inadeguata. E nel dopo il giudizio diventa sempre definitivo. Giuliani divenne un grande sindaco tra le macerie delle due torri, nell' emozione, nel panico e nel sangue freddo. Perciò la Vincenzi dovrebbe essere rimossa non dall' acqua che porta via tutto, anche gli innocenti, ma dai leader del suo partito, non dal dolore furioso della piazza ma dal senso di responsabilità della politica. E invece la difendono e le permettono di dare la colpa alle vittime, di straparlare - non è un tragico scherzo - di «danno autoprodotto». Il sindaco farfuglia così: «Tante persone si sono messe in pericolo da sole». Leggiamola insieme questa frase: la Vincenzi vuole dire convintamente che quelle madri e le loro bambine si sono suicidate? E piange la Vincenzi mentre esprime queste enormità, mentre commette questo vilipendio di cadavere. Dice in sostanza che se lo sono andato a cercare, ed è la stessa tesi di chi pensa che le belle donne attirano gli stupratori, che i rapinati non devono portare l' orologio al polso e il portafoglio in tasca... che la colpa è sempre delle vittime. E il pianto irrita ancora di più perché ribadisce l' inadeguatezza del sindaco. Piange infatti su se stessa. E vengono in mente le immagini di Benahzir Bhutto e di Sonia Ghandi che, durante i consueti infiniti diluvi d' Asia, stavano in mezzo al fango, con le gambe nell' acqua. Di asciutto avevano solo gli occhi. Sempre le tragedie mettono a nudo gli uomini nella la loro grandezza e nella loro piccolezza. Purtroppo a Genova l' acqua si è portata via anche il soprannome di "SuperMarta". Continua infatti la Vincenzi sostenendo che le persone «non hanno capito che nei massimi sistemi, nei meccanismi che regolano il mondo è cambiato qualcosa». E ci risiamo con le parole grosse che rimpiccioliscono le responsabilità. «E che cavolo può fare un sindaco?». E «non dovevano andare a prendere i bimbi a scuola proprio a quell' ora». E «se avessimo chiuse le scuole avrebbero accompagnato i bimbi dai nonni che sono stonati e li avrebbero trascinati in posti pericolosi». Come si vede l' autodifesa è cosi pasticciata e strampalata da risultare autolesionista. Lasciamo perdere l' idea dei nonni rimbambiti. Ma se davvero la gente deve farsi esperta di «massimi sistemi»e deve auto-amministrarsi che ci sta a fare la Vincenzi, a che serve un' etero-amministrazione se è necessaria l' auto-amministrazione? La signora Vincenzi sragiona, ed è anche male consigliata. Ci vorrebbe un atto di intelligenza politica e di forza morale. Lo dovrebbe fare la sinistra istituzionale e non la gente arrabbiata che ha il diritto di sfogarsi anche con un po' di ingenerosità. La verità è che Marta Vincenzi vale Gianni Alemanno che aveva definito «terremoto» una mattinata di pioggia su Roma (un morto). Ma lo tsunami è peggio del terremoto. Fa infatti duecentomila morti, inabissa i continenti, è un' onda planetaria che mentre devasta la costa asiatica fa sentire la sua eco in America. A Genova non c' è stato lo tsunami e come fummo provocatoriamente tentati di scrivere che la «calamità naturale» di Roma è Alemanno così siamo tentati di scrivere che la calamità naturale di Genova è ora la Vincenzi. Le reazioni scomposte alle critiche sono infatti indegne di un' amministrazione civile. A meno di non credere che amministrare significhi tagliare nastri e inaugurare parcheggi. È vero che quella di Roma è stata una pioggia molto intensa che è durata mezza giornata mentre quello di Genova è un nubifragio che è durato 48 ore, ma non si scappa mai davanti ai rimproveri della città ferita, nessun sindaco può reagire con la stizzae con gli sbotti, con il «non abbiamo colpa» urlato fuggendo dalla folla e non c' è la pioggia di sinistra e la pioggia di destra quando viene meno il senso di responsabilità che non è la bottega elettorale. È difficile per tutti affrontare il nervosismo della folla, l' esasperazione di un città colpita mortalmente. Ma i sindaci devono mettere nel conto anche le rabbie di strada. A Napoli abbiamo visto una folla di disoccupati prendere d' assalto l' auto del sindaco De Magistris che pure era stato portato sugli altari del populismo e forse della demagogia. Ebbene, il sindaco si è preso gli sputi e le urla e ha pure tentato di parlare con quegli agitati. Evidentemente sa che la sua città ha diritto al disagio e al malcontento. E un sindaco deve sempre dimostrare con-partecipazione, anzi conpassione nel prendere su di sé il dolore degli altri. Ecco: la sola solidarietà che la Vincenzi può ancora offrire alla sofferenza dei genovesi, è una drammatica ammissione di colpa politica, non per i torrenti che esondano e per l' acqua che cade dal cielo, ma per non aver saputo liberarsi della demagogia, per essere stata inadeguata, per non aver tirato fuori una naturale passione da sindaco, una autentica con-passione per la sua Genova.
di Francesco Merlo; la Repubblica

Alluvioni

Non so proprio cosa dire sulla distruzione e la morte portata dalle piogge su Liguria e Toscana.

Libero arbitrio

Non possiamo accettare come una fatalità che nel 2011, in una delle più illustri città italiane, si possa ancora morire per un acquazzone troppo forte. Il sindaco Vincenzi è sconvolta dal dolore, ma ci lascia esterrefatti quando afferma che la tragedia era imprevedibile. Imprevedibile dopo quanto era appena successo alle Cinque Terre? Tutti sapevano che su Genova stava per abbattersi una tempesta. Magari non delle dimensioni tropicali che ha poi assunto nella realtà. Ma se ne parlava e scriveva da giorni. «La Stampa» aveva addirittura pubblicato un decalogo del meteorologo Luca Mercalli.

Regole di buon senso: evacuate i piani bassi delle case, riempite uno zaino con i beni di prima necessità e tenetelo a portata di mano in caso di emergenza. Eppure a nessuno dei genovesi interpellati in queste ore è sembrato che le istituzioni avessero colto la drammaticità del momento. E se anche l’avevano colta, di sicuro non sono riusciti a trasmetterla ai cittadini. Sì, la sera prima era scattata l’allerta, con un invito generico a ridurre gli spostamenti. Ma nulla di paragonabile alle decisioni assunte ad agosto dal sindaco di New York, che per il passaggio dell’uragano Irene aveva fatto evacuare intere zone della metropoli, infischiandosene delle patenti di catastrofista e menagramo che i soliti superficiali gli avevano subito affibbiato.

Il sindaco Vincenzi difende la scelta di aver tenuto aperte le scuole e, con esse, quell’illusione di normalità bruscamente smentita dagli eventi. Sta di fatto che al momento dello tsunami un sacco di persone camminavano per Genova munite di borse della spesa e passeggini, come se si trattasse di un venerdì qualsiasi. Sorprese in mezzo alla strada, alcune di loro (comprese due bambine) hanno trovato una morte orribile dentro l’androne della casa in cui si erano rifugiate.

Forse, però, è troppo comodo scaricare sempre tutte le colpe sulle famigerate Autorità. I cittadini dovrebbero cominciare a farsi un esame di coscienza e a chiedersi se esiste davvero una consapevolezza dei cambiamenti climatici in atto. Di fronte agli allarmi che il sistema ansiogeno dei media (portiamo anche noi le nostre responsabilità) rovescia quotidianamente addosso al pubblico, si tende a reagire con stati emotivi estremi: la rimozione o il panico. E’ arrivato il momento di prendere in considerazione una terza ipotesi: la presa di coscienza.
Abitiamo un mondo complesso, seduti su autentiche bombe ambientali che l’incuria e l’avidità umane hanno contribuito a innescare. Prenderne atto non significa disperarsi, ma prepararsi. Cambiare atteggiamento mentale: smetterla di sentirsi invulnerabili e assumere le precauzioni necessarie. Il prefetto Gabrielli, erede di Bertolaso, lamenta la scarsa capacità di auto-protezione degli italiani. Qualche populista d’accatto, pur di blandire gli impulsi più bassi della clientela, ha rivoltato il senso del suo discorso, trasformandolo in un invito ad «arrangiarsi da soli». Mentre è solo un appello a diventare finalmente adulti. Tutti: amministratori e cittadini.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

venerdì 4 novembre 2011

Viva la creatività

Trovata nella cassetta della posta di Berlusconi: Ogni giorno migliaia di provvedimenti vengono abbandonati dopo essere stati lungamente discussi. Euro, spread e speculazione stanno facendo una strage, e non c’è più tempo. Aiuta concretamente migliaia e migliaia di provvedimenti ad avere un futuro, ad avere un domani, ad avere un sogno. Senza di te non esiste futuro, non esiste domani, non esistono sogni. Basta un po’ di buona volontà, basta non chiudere gli occhi. Fai qualche cosa, fallo subito. Adotta un provvedimento.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Alter

Ma è davvero italiano? mi chiedeva con malizioso candore un collega straniero a proposito di Mario Draghi. E già: parrà impossibile a chi trova più comodo rappresentarci tutti come macchiette, ma anche Mario Draghi è italiano. L’altro. Quello che sa di cosa parla e che parla solo di ciò che sa. Quello che non cerca immediatamente di trasformarti in suo complice. E che sta sempre attento a non attirare l’attenzione, tanto che molti ne ignorano l’esistenza. Eppure c’è. Nelle imprese, nei mestieri, nelle università (straniere, di solito): dappertutto, tranne che in politica, perché i politici non lo metterebbero in lista e gli elettori emotivi non lo voterebbero mai.

L’altro italiano non è un santo (Draghi, per esempio, ha lavorato da Goldman & Sachs, cattedrale della finanza che non dà molti punti per il concorso di santità). Ma è una persona affidabile e la sua serietà non gli impedisce di essere creativo. Di svolgere, nella scacchiera del mondo, la parte del cavallo: mentre le altre pedine si muovono sui sentieri dell’ovvio - orizzontale e verticale lui imprevedibilmente scarta. Diventa presidente della Banca Europea e ti piazza subito una riduzione del costo del denaro che ai suoi predecessori sarebbe stato possibile estirpare soltanto con le pinze. Tanti vorrebbero che l’altro italiano lasciasse le imprese, i mestieri e le università per la politica. Ma l’esperienza di Draghi ci dimostra che non è così indispensabile: si può migliorare la reputazione dell’Italia facendo cose diverse dalla politica. Ci vengono anche meglio.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

La meglio peggiocrazia del mondo

Mai come in queste drammatiche ore ci sentiamo di dar ragione all’economista Luigi Zingales quando dice che l’Italia è una peggiocrazia, il governo dei peggiori. La prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, raggiunge la sua apoteosi in quella caricatura di democrazia che è diventata la nostra democrazia. Oggi qualsiasi persona di buonsenso, di destra o di sinistra, riconosce che questa politica svilita dai clown e dalle caste dovrebbe affidarsi ai seri e ai competenti. Figure alla Mario Monti, per intenderci. E ce ne sono tante. Ma qualsiasi persona di buonsenso sa anche che, se i Mario Monti si presentassero alle elezioni, le perderebbero. Perché non sono istrionici né seducenti. Verrebbero surclassati da chi conosce l’arte della promessa facile e dello slogan accattivante, in quanto una parte non piccola degli elettori è così immatura da privilegiare i peggiori: per ignoranza, corruzione, menefreghismo.

Dirò una cosa aristocratica solo in apparenza. Neppure le sacrosante primarie bastano a garantire la selezione dei migliori. Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? E adesso lapidatemi pure.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 1 novembre 2011

Realismo

Uno dei frutti velenosi di questa crisi è che abbiamo smesso di credere nel potere della democrazia di migliorarci la vita. Trovo emblematico il dissidio fra due pesi massimi del nostro immaginario, Steve Jobs e Barack Obama, ricostruito dal Wall Street Journal. Il padrone della Apple chiese al Presidente di garantire la carta verde (il permesso di residenza) agli stranieri che si laureavano in ingegneria negli Stati Uniti. Obama rispose che sarebbe stato felice di accontentarlo, ma che gli mancavano i voti per far approvare la riforma dal Congresso. Jobs si imbestialì: «Invece di farle, continui a spiegarmi perché le cose non si possono fare!». Il peggiore degli insulti per chi, come Obama, era stato eletto con lo slogan «Yes we can».

Il cittadino confuso e infelice si riconoscerà nel pragmatismo autoritario di Jobs. Uno che, non dovendo mediare con nessuno, poteva trasformare le sue visioni in azioni e i suoi progetti in oggetti. Obama incarna invece l’impotenza della politica, che anche quando si riempie la bocca e il cuore di cambiamento, deve misurarsi con i meccanismi della democrazia che ne rallentano e depotenziano le decisioni.

L’idea che per cambiare la politica basti cambiare i politici è una pia illusione che si rinnova a ogni campagna elettorale. Bisogna cambiare le regole: di funzionamento e di rappresentanza. La democrazia non è burocrazia e nemmeno una delega al santone di turno. È partecipazione alla vita della propria comunità. Si può ripartire solo da lì. Prima che i cittadini esasperati imbocchino la solita scorciatoia del dispotismo.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA