venerdì 28 ottobre 2011

Questione di cuore

Il governo ha comunicato con profondo rammarico che i finanziamenti per la costruzione del Ponte sullo Stretto sono stati momentaneamente ma irrevocabilmente bloccati. Non si tratta di un cambio d’indirizzo programmatico né tantomeno di una decisione presa per sedare contrasti interni alla maggioranza. Il progetto è stato accantonato per le serie difficoltà sorte a causa della crisi economica e finanziaria. Si impongono scelte dolorose: è per questo che fra le promesse e le amichette, solo le seconde sono mantenute.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Che pena

Franano pezzi di Liguria e di Toscana, trascinandosi un fardello pesante di morti. L’Italia si gioca quel che resta della sua faccia (forse solo il cerone) con una lettera d’intenti all'Unione Europea. Fini ricorda a Ballarò che la moglie di Bossi riceve la pensione dall’età di 39 anni. Secondo voi quale di queste tre notizie ha catalizzato ieri l’interesse dei nostri deputati?

Non ci sconvolge l’idea che due di loro si siano picchiati: siamo arrivati persino a pensare che la vera riforma istituzionale potrebbe essere una rissa collettiva, come quelle che Sergio Leone ambientava nei saloon e dalle quali non si rialzava più nessuno. Ma è davvero umiliante che un bossiano e un finiano si siano strappati a vicenda la camicia per una disputa che riguardava solo i rispettivi capi e i loro cerchi più o meno magici. E neanche per la strada, dove almeno avrebbero potuto essere arrestati per disturbo della quiete pubblica e condannati a un lavoro socialmente utile: qualunque altro. Si sono scazzottati nell’aula di Montecitorio, davanti a una scolaresca che assisteva allo spettacolo circense dalla tribuna del pubblico. E proprio quando la nostra reputazione all’estero, mai così bassa dai tempi dei Visigoti, suggerirebbe ai rappresentanti della Nazione di assumere atteggiamenti compatibili con lo scranno indegnamente ingombrato dai loro glutei. Ecco a cosa si è ridotto il Parlamento del Porcellum: manipoli di sgherri fedeli a questo o a quel capo-bastone che sguainano le mani per bisticci di bottega, mentre fuori tutto frana.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Povera Italia


“Le proteste del Governo per le risatine di Sarkozy e della Merkel? Non so, è la prima volta che vedo un comico lamentarsi se il pubblico ride”
(Alessandro Robecchi, Linea Notte, Raitre)

Mal di pancia

I ristoratori si lamentano: troppe partite di calcio in mezzo alla settimana, per non dire nel weekend, la gente resta a casa per vederle e gli incassi sono pochi. Verissimo, anche se la goduria di mangiare al ristorante mentre in sala una tivù trasmette qualche match, e puoi pure commentarlo con il cameriere o flirtare con la vivandiera fingendo di parlare di pallone, è difficilmente equiparabile con altri piaceri.

E comunque. Non si preoccupino troppo i ristoratori, almeno quelli di Roma centro, perchè fino a quando dura la crisi del Pdl la clientela non mancherà. Adesso, non c'è mensa nei dintorni del Palazzo che non ospiti, una sera sì e l'altra pure, una cena fra onorevoli dubbiosi, delusi, critici, frondisti, scissionisti o possibili traditori appartenenti al partito del Cavaliere o addirittura membri del suo governo. Ieri la fantomatica lettera, nella quale un gruppo di parlamentari berlusconiani chiede un passo indietro a Berlusconi sennò è la fine per tutti, è stata scritta in una osteria dell'Urbe.

La cosa curiosa è che tutti i critici azzurri in azione in questi mesi si definiscono, o vengono definiti, malpancisti. Vuol dire che a Roma si mangia male?

di Mario Ajello; Il Messaggero

venerdì 21 ottobre 2011

Ad muzzum

Osteria numero uno

Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni. Ci vogliono Sofocle e Shakespeare, non gli scatti sfocati di un telefonino, per sublimarla in catarsi. Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme - sia essa Gesù o Gheddafi - degradano chi li compie a un rango subumano.

Dal governo del baciamano ci si sarebbe aspettati qualche parola di pietà nei confronti del vecchio sodale tramutato in un cencio sporco di sangue. Invece è toccato leggere le parole del ministro degli Esteri Frattini, che appena tre anni fa chiamava Gheddafi «un grande alleato dell’Italia» e adesso definisce la sua barbara fine «una grande vittoria del popolo libico». Davvero «grande» anche lui, il signor ministro con delega alla coerenza e alla sensibilità. La Russa non poteva essergli da meno e infatti non lo è stato. Ha detto: «Dobbiamo gioire». Per la nuova Libia, immagino. Ma con che razza di cuore si può abbinare un verbo di festa alle immagini di un corpo trascinato sull’asfalto? Ho vanamente cercato parole simili nelle dichiarazioni dei ministri francesi, tedeschi, americani. Forse i nostri sono solo più ruspanti: parlano prima di pensare, o anche senza pensare, né prima né dopo. Al confronto giganteggia persino il filosofo di Palazzo Chigi ed ex amicone del rais. Il suo «Sic transit gloria mundi» sulla volubilità della condizione umana (Gloria Mundi non è il nome di una ragazza) sembra voler dar voce, se non a un presentimento, a un tormento interiore.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 20 ottobre 2011

Hallelujah

Il Presidente del Consiglio (sì, esiste ancora) ha nominato Ignazio Visco nuovo Governatore della Banca d'Italia. Il mondo politico tutto plaude al tempismo ed alla celerità di tale decisione, dal momento che ci sono voluti ben quattro mesi.

Muammar Gheddafi ucciso

Nella città di Sirte il rais è stato ammazzato come
neanche un cane.
A Silvio su Facebook è rimasta solo
l'amicizia di Putin e Lukashenko...

L'hombre vertical

Dopo le anticipazioni, in verità abbastanza deludenti, sul testo del decreto che viene rinviato di settimana in settimana, anche l'ultimo tentativo di convincere Tremonti a collaborare alla ricerca di misure anti-crisi minimamente presentabili, e in grado di essere accolte meglio dalle parti sociali, è naufragato ieri dopo il fallimento di un vertice lampo a Palazzo Grazioli.

Con Berlusconi e con il ministro dell'Economia c'erano Letta Romani e Matteoli, ma non c'è stato niente da fare. Anche se si moltiplicano, nel frattempo, le prese di posizione di parlamentari del Pdl, che premono su Berlusconi: ieri era il turno degli ex-finiani Ronchi e Urso, contrari a votare un decreto a costo zero, senza fondi per rimettere in moto l'economia. La sensazione è che Tremonti si rifiuti di entrare nel merito perché si ritiene l'unico titolato a mettere le mani sui conti dello Stato, e in questo senso non ha gradito, nè la delega data dal premier a Romani per cercare di coordinare i lavori sul decreto e mettere insieme le proposte dei vari ministri, nè il florilegio delle diverse idee che i membri del governo si sono diligentemente affrettati a tirar fuori, come ad esempio l'ultima, spiegata dal ministro Frattini al Foglio, di stringere i tempi per un accordo con la Svizzera per recuperare i capitali italiani espatriati all'estero. Per Tremonti, che ormai non ha remore a dirlo apertamente in faccia ai suoi colleghi nel corso delle riunioni, queste iniziative sono solo una prova di incompetenza, e pertanto si rifiuta di prenderle in considerazione.

Va detto che, conoscendo il carattere difficile del responsabile dell'Economia, non tutti i ministri si avventurano a fargli conoscere le loro proposte via interviste. Qualche giorno fa, cercando in ogni modo di lisciargli il pelo, il ministro della Difesa La Russa ha invitato Tremonti a colazione e gli ha fatto pressappoco un discorso così: vedi Giulio, tu credi che se esistesse veramente una legge buona per risolvere la crisi economica non la adotterebbero tutti, a cominciare da Obama? Ma poiché non esiste, si tratta di fare un decretino che tamponi la situazione e consenta a Berlusconi di andare in tv a tentare di raddrizzare l'immagine del governo. Giulio, se ci dai una mano, è una cosa che si può fare in due minuti. Risposta di Tremonti, che fino a quel momento aveva ascoltato pensieroso il suo interlocutore: mi spiace, ma se dico di no è perchè ho le mie buone ragioni. La Russa ha ingoiato amaro imprecando silenziosamente.

di Marcello Sorgi, LA STAMPA

Svergognati

Il ministero dell’Economia, sempre così lento quando si tratta di trovare fondi per lo sviluppo, ha deliberato con lestezza da furetto che il taglio degli stipendi si applica a tutti i dirigenti pubblici tranne che a ministri e sottosegretari. Non solo a lorsignori non verrà più trattenuto neppure un euro, ma con la busta paga di novembre si vedranno restituire con tante scuse le decurtazioni dei mesi scorsi.

Da tempo attendiamo dalla Casta un segnale di rinsavimento, un gesto minimo di coerenza che inauguri qualche cambio d’abitudini. Per far digerire i sacrifici di Ferragosto ci avevano promesso la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle Province e altre prelibatezze. Ma che fine ha riservato l’autunno alle parole fiorite davanti ai microfoni estivi? La riduzione dei parlamentari è appassita all’interno dell’ennesimo progetto di riforma universale delle istituzioni, il Calderolone, che come tutti i suoi predecessori non verrà mai approvato.

L’ abolizione di alcune Province, già annunciata in pompa magna dal governo, è attualmente stipata nell’ultimo ripiano del freezer, in attesa che qualcuno si ricordi di scongelarla, ma vedrete che resterà lì. E il ridimensionamento delle retribuzioni? Per essere sicuri che non si facesse, è stata istituita una commissione apposita che avrebbe dovuto decidere entro il 31 dicembre, se non fosse già nata con la deroga incorporata: fino al 31 marzo, quando si andrà a votare oppure si ricomincerà a prorogare. Ah, ma almeno per i vitalizi nessuna pietà. A-bo-li-ti. Dalla prossima legislatura, naturalmente. E solo dopo la creazione di un nuovo sistema previdenziale. Chi lo indicherà? Ma una commissione. Prorogabile. Prorogabilissima.

Il sondaggio mostrato l’altra sera a Ballarò da Pagnoncelli era piuttosto sconvolgente: il 61% dei cittadini italiani ritiene seriamente che l’intervento prioritario contro la crisi non sia la detassazione del lavoro, la patrimoniale o un piano robusto di lavori pubblici, ma la riduzione del numero dei parlamentari. Con il collega Carlo Bertini, nostro esperto in Casta e dintorni, abbiamo fatto i conti della serva. Gli stipendi e i rimborsi spese di senatori e deputati ci costano 200 milioni di euro l’anno. Dimezzandoli ne risparmieremmo 100. Una benedizione, ma pur sempre una goccia nell’oceano del debito pubblico, ormai prossimo alla soglia psicologica dei duemila miliardi.

Eppure, nell’esprimere la loro opinione economicamente assurda, gli italiani non sono stati affatto stupidi o qualunquisti. Hanno mandato un messaggio politico. Dai loro rappresentanti pretendono qualcosa di cui sentono d’avere terribilmente bisogno: il buon esempio. Provate a immaginare se domattina i leader di destra e di sinistra, smettendo per un giorno di delegittimarsi a vicenda, si presentassero insieme in conferenza stampa per annunciare la volontà di lavorare gratis fino al termine della legislatura. Sarebbe un gesto populista? Può darsi. Ma li renderebbe più autorevoli nel momento in cui si accingessero a chiedere sforzi ulteriori ai contribuenti. Durante la tempesta i capitani che vogliono essere obbediti non si barricano nei propri appartamenti con le scorte di caviale, ma stanno in mezzo alla ciurma condividendone i rischi e i disagi.

Qualcuno mi ha suggerito di scrivere questo stesso articolo tutti i giorni, «finché non si arrendono», ma temo che i lettori si stuferebbero molto prima degli onorevoli. La Casta è totalmente sganciata dal mondo reale. Altrimenti si sarebbe accorta che nel disprezzo che gli italiani manifestano per i suoi stipendi si cela un giudizio più profondo: il disprezzo per l’inutilità del suo lavoro e per l’incompetenza di una parte consistente dei suoi esponenti. Il problema vero non è che guadagnano troppo. E’ che fanno ben poco per meritarsi quel che guadagnano.

Rusconi e Galli della Loggia hanno scritto che l’unica via di uscita dalla sterilità dell’indignazione è il ritorno alla politica. Non però alla delega politica. Se intende sopravvivere, la democrazia non potrà più esaurirsi in una crocetta da apporre su una scheda ogni cinque anni. Quel 61% che considera i politici la rovina del nostro Paese trovi qualche ora del proprio tempo da dedicare alla comunità. Solo ripartendo dal basso si potrà selezionare una classe dirigente nuova, alla quale auguro di guadagnare tantissimo, ma soltanto sulla base dei risultati.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA

mercoledì 19 ottobre 2011

Stato (confusionale) di polizia

- Visto quanti Indignati in piazza?
- Come no... i Black Block ci hanno salvato il culo.

- Scontri seri solo in Italia, perché?
- Era ciò che volevamo.
- Sarai mica un infiltrato pure te?
- Ma no... Era nostra intenzione capovolgere la situazione.

- Tutto questo casino non si poteva evitare?
- In effetti sì... ma ora chi ne parla più dei pacifici?
- E' vero: impazza er Pelliccia.
- Vedi...
- E tutte 'ste leggi speciali?
- Altri specchi per le allodole.

- Però non capisco una cosa: le forze dell'ordine dalla politica cos'hanno ricevuto in cambio?
- 60 milioni di euro. Di tagli.

Che peccato

I Ministeri a Monza devono già chiudere. E ora come tiriamo avanti?

Prostitusione intelectuale

L’emergenza economica non dà cenni di miglioramento e sta di nuovo portando al limite di rottura i rapporti tra il governo e le parti sociali, tornate ieri alla carica con toni durissimi. Berlusconi non è in grado di fare concessioni e per la prima volta è costretto ad ammettere che lo stato dei conti non consente di prevedere alcun intervento a sostegno della ripresa: le misure del decreto sviluppo, nuovamente rinviato anche questa settimana, non potranno dunque che essere a costo zero.

Al contrario l’emergenza black-bloc sta invece trasformandosi in un’inaspettata occasione di ripresa per il governo. Non solo perché, pur preoccupando l’opinione pubblica, la distrae dai problemi insolubili della congiuntura. Ma anche perché, come ha spiegato ieri il ministro dell’Interno Maroni al Senato, obbliga il centrodestra a varare una serie di provvedimenti destinati a dividere le opposizioni e farle apparire restìe a condividere la linea dura antiterrorismo. Un alt preventivo alle proposte di Maroni è venuto ieri dalla capogruppo dei senatori Pd Anna Finocchiaro. Ma il ministro, nell’aula di Palazzo Madama, è andato giù duro lo stesso. Al preannunciato inasprimento delle pene e all’estensione della possibilità di arresto anche fuori dalla stretta flagranza di reato, Maroni ha aggiunto l’ipotesi di importare dall’Inghilterra il cosiddetto «Asbo» (antisocial behaviour order, una misura di sicurezza che consente di estendere la carcerazione preventiva contro soggetti pericolosi fino a cinque anni), e il dovere, per gli organizzatori delle manifestazioni, di garantire con mezzi propri gli eventuali danni che potrebbero essere causati nel corso dei cortei. Il ministro non s’è nascosto che si tratterebbe di misure fortemente limitative di diritti previsti dalla Costituzione: ma a mali estremi, ha spiegato, non restano che estremi rimedi.

A parte Di Pietro, che aveva sollecitato il governo a muoversi con l’obiettivo della massima severità, le reazioni del centrosinistra sono caute e tendono ad evitare di entrare nel merito, almeno fino a quando il consiglio dei ministri avrà messo nero su bianco il nuovo pacchetto sicurezza. Al momento le opposizioni sono attestate sulla linea che non sono le leggi a dover cambiare, ma il governo, che manifestamente, a loro giudizio, non è più in grado di affrontare la situazione. Polemiche ha generato anche la decisione di sospendere per un mese le manifestazioni già annunciate a Roma, tra cui uno sciopero della Fiom che doveva svolgersi nei prossimi giorni. È un altro segno che il fronte della sicurezza è destinato ulteriormente ad arroventarsi.

di Marcello Sorgi; LA STAMPA

lunedì 17 ottobre 2011

I vincitori

E, il lunedì dopo gli scontri, dicono di «aver vinto», e che«sabato a Roma è andata bene». Chi lo dice? Paradossalmente, sia il ministero degli Interni (Roberto Maroni su tutti i giornali, il suo sottosegretario Alfredo Mantovano a Radio 24) sia i black bloc, o 'neri', o 'anarchisti' che dir si voglia.

Maroni e Mantovano cantano vittoria perché «non c'è stato il morto» e perché «sono state salvaguardate le sedi istituzionali» (cioè hanno lasciato che mettessero a ferro e fuoco il tratto da via Labicana a San Giovanni, ma hanno preservato la zona attorno a Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli).

I black bloc invece sono molto soddisfatti di quella che ritengono essere stata una «vittoria militare»: mezzi della polizia dati alle fiamme, piazza San Giovanni ostaggio della loro guerriglia per diverse ore, la polizia che avanzava e retrocedeva molto lentamente mentre loro si muovevano con falangi agili e veloci.

Difficile capire quali ragionevoli basi abbia la soddisfazione degli uni e degli altri, a meno di non certificare uno stato di follia collettiva.

Il ministero degli Interni avrebbe solo da chiedere scusa ai cittadini: fino alla mezzanotte del giorno prima non aveva ancora un piano per affrontare eventuale disordini (lo certificano gli allarmi lanciati durante la notte dai sindacati di polizia), nonostante in città si parlasse già da giorni di possibili incidenti.

I black bloc avevano addirittura lasciato il pomeriggio prima un Ducato pieno di armi, bombe carta e mazze da baseball subito dietro piazza San Giovanni (all'altezza del mercato di via Sannio) e l'hanno agevolmente usato come deposito da cui rifornirsi il giorno dopo. E nessuno, nelle forze dell'ordine, l'ha notato.

La cosa ha dell'incredibile: tutti gli anni, proprio nella stessa zona, tutte le auto parcheggiate vengono spostate il giorno prima del consueto ricevimento dato dall'ambasciatore britannico in occasione del compleanno della Regina. Invece per una manifestazione tanto temuta (il tam tam sulla guerriglia in Rete era partito da giorni) tutti potevano parcheggiare fino a pochi minuti prima dell'arrivo del corteo nell'intera area, da via Emanuele Filiberto fino a oltre le mura. Vale a dire nei luoghi in cui la polizia ha poi fatto convergere i cosiddetti black bloc e dove subito dopo sono iniziati gli scontri, poi proseguiti quasi tre ore. Inevitabile non solo che il Ducato dei 'neri' restasse lì indisturbato, ma anche l'altro effetto di cui Maroni non parla, cioè le diverse auto date alle fiamme.
Anche i cassonetti e i grossi bidoni di ghisa della spazzatura agli angoli della piazza non sono stati spostati, contrariamente a quanto avviene per eventi molto più pacifici come il concerto del Primo Maggio. Sia gli uni sia gli altri sono stati utilizzati dai black bloc per appiccare incendi e come materiale da barricata.

Il Viminale dovrebbe inoltre chiedersi com'è stato possibile che un gruppo (stimato a seconda delle varie testimonianze di chi l'ha visto all'opera tra le 150 e le 400 persone) possa essere stato in grado di appropriarsi di fatto di un'area molto vasta (piazza San Giovanni), spaccando con tutta calma vetrine, appiccando incendi, distruggendo ogni cosa mentre decine di persone (giornalisti, ovviamente, ma anche curiosi e perfino turisti!) li fotografavano e li riprendevano con le videocamere.

Di qui l'esaltazione dei black bloc o 'neri' che siano. Già in piazza erano esaltatissimi delle loro gesta (era tutto un 'dammi un cinque' dopo ogni vetrina distrutta o auto incendiata): e nelle ore successive - tanto su Internet tanto nelle intervisteai giornali - si sono pavoneggiati per la loro presunta vittoria.

'Vittoria' (ammesso che si a tale) dal respiro cortissimo, anche se loro non se ne accorgono fanno finta di non accorgersene: aver tenuto in scacco una piazza ed esser finiti su tutti i giornali del mondo porta inevitabilmente a una secca riduzione degli spazi garantiti di dissenso e di opposizione, tanto che già nelle ore successive si è scatenata una caccia da parte di molti politici al Web, in particolare a Facebook e Twitter. Senza dire, ovviamente, che con la loro 'vittoria' hanno tarpato le ali a ogni futura declinazione, in Italia, di un movimento di protesta mondiale contro quello che a parole loro dicono di voler combattere: il turbocapitalismo finanziario che produce precarietà e povertà.

Questo il doppio successo di Viminale e 'black bloc', sabato a Roma.

l'Espresso

Cicchitti, Indignati e Infiltrati

Chissà se per calcolo o per pigrizia mentale, politici e commentatori governativi si comportano come dei Cicchitto qualsiasi e affrontano il fenomeno mondiale degli Indignati attingendo all'armamentario del secolo scorso. Li descrivono come un branco di figli di papà che vanno in piazza perché non hanno voglia di lavorare, violenti e complici dei violenti. Si tratta di una ricostruzione fasulla e stucchevole, che non distinguendo fra Indignati e Infiltrati finisce per fare il gioco di questi ultimi nel cancellare dal dibattito pubblico le ragioni della protesta. Vogliamo ricordarle? Le critiche all'avidità dei banchieri di Francoforte, Londra e Wall Street che hanno assassinato il capitalismo dei produttori, avvelenandolo con le loro alchimie finanziarie. La difesa dello Stato Sociale, cioè delle conquiste che, pur fra sprechi evidenti, ci hanno garantito condizioni di sicurezza e benessere mai raggiunte nella storia. Il rifiuto di rinunciare ai propri diritti per consentire ad altri di conservare i propri privilegi. La proposta di una società nuova, fondata sul Noi anziché sull'Io, e contraddistinta dalla partecipazione attiva alla vita del territorio e alla gestione di beni comuni come l'acqua e l'istruzione.

Sono ideali di destra o di sinistra? Boh, non saprei. Sono ideali. E di questi bisognerebbe discutere, non del teppismo dei soliti noti, che dagli stadi ai cortei sono sempre gli stessi, così come sempre la stessa è l'incapacità dello Stato di toglierli di mezzo, una volta per tutte.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

domenica 16 ottobre 2011

Vergüenza

Ieri in 951 città di 82 Paesi del mondo sono scesi in piazza cittadini di ogni età, ma soprattutto giovani, per protestare contro un sistema economico che si preoccupa di salvare le banche prima dei cittadini. Sono i cosiddetti «Indignati», che hanno preso il nome dai manifestanti spagnoli che in primavera hanno occupato la Puerta del Sol a Madrid per denunciare la disoccupazione crescente, la precarietà dilagante e i privilegi della casta economica e di quella finanziaria.

La protesta ha fatto proseliti e in queste settimane i riflettori si sono concentrati a New York sugli «occupanti» di Zuccotti Park, una piazza poco lontana da Wall Street, dove è stato costruito un piccolo accampamento che intende contrapporre l’uomo della strada, che soffre la crisi, ai broker della Borsa che sono tornati a prendere bonus milionari. La mobilitazione americana non è mai sfuggita di mano e, di fronte alle accuse del sindaco di sporcare e deturpare, gli occupanti si sono messi al lavoro per lavare e pulire.

Poi ieri c’è stata la prova mondiale di un movimento che sta raccogliendo la comprensione di giornali, televisioni, comuni cittadini, politici e perfino di banchieri.
In 950 città le manifestazioni sono state assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo mostrato al mondo un’anomalia italiana.
Anche oggi ci tocca vergognarci.

Mentre a New York i ragazzi indossavano distintivi pacifisti ed erano armati solo di scope e spazzoloni per pulire, da noi indossavano caschi e erano armati di bombe carta.
La colonna sonora a Manhattan è quella del tamburino che suona i bonghi (e il dibattito tra le tende è se debba fermarsi dopo pranzo per non disturbare chi riposa nelle case vicine) o dei buddisti che pregano ripetendo «Om». L’odore è quello degli incensi di attempati figli dei fiori.

La nostra colonna sonora invece, come troppe volte nella storia italiana, è quella delle sirene dei blindati di polizia e carabinieri, dei rotori degli elicotteri che sorvolano gli scontri e delle esplosioni, mentre l’odore è quello acre dei lacrimogeni o del fumo delle auto incendiate.
Perché è accaduto a Roma, perché è accaduto solo da noi, perché alcune migliaia di ragazzi che volevano solo la guerriglia sono riusciti a prendere in ostaggio una città, un movimento nascente e a distruggere ogni possibilità di mobilitazione pacifica e fruttuosa?
Perché l’Italia si ritrova ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i lacrimogeni?

Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs, che faceva uso di droghe ma le sue visioni erano futuristiche e non apocalittiche.

Da noi accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro. Per guarire dovremmo eliminarli dal vocabolario. Smettere di relativizzare la violenza perché, a seconda dei tempi, a giustificarla c’è il regime democristiano, quello berlusconiano, l’alta velocità o qualche riforma indigesta.

Milioni di italiani sono indignati dalla nostra classe politica, dalla lontananza che chi ci governa mostra verso i problemi reali dei cittadini, e dalla mancanza di investimenti sul futuro dei giovani. Ma non per questo pensano di scendere per strada a bruciare l’auto del vicino e non per questo sono meno indignati, arrabbiati o sfiniti. Di certo considerano quei manifestanti dei vandali e dei criminali, che non conoscono il valore del rispetto e non hanno mai faticato per guadagnarsi da vivere.

Ora la rabbia è grande, ma state sicuri che tra tre giorni quando le forze dell’ordine avranno identificato alcuni di questi ragazzi e un magistrato li indagherà, allora si alzeranno voci pronte a difenderli, a giustificarli e a mettere sul banco degli imputati giudici e poliziotti colpevoli di non capire e di essere troppo severi. Ma la democrazia si preserva difendendo la convivenza e il diritto delle migliaia che volevano manifestare pacificamente, non schiacciando l’occhio agli estremisti.

Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo: perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza, allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento. Ai giovani allora restano solo due possibilità: un atteggiamento di rassegnazione e di apatia che trova riscatto momentaneo solo nello sballo degli Happy Hour (le ore del lungo aperitivo che dal tramonto si trascina fino a notte fonda) o un atteggiamento di rottura. Perché se si dice che nulla si può costruire, allora non resta che la pulsione a sfasciare e distruggere.

Una sola speranza ci resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e sperano. Ce ne sono ben più di quanto si possa immaginare e molti erano in piazza ieri: li abbiamo visti battere le mani a polizia e carabinieri, li abbiamo visti provare a cacciare dal corteo gli incappucciati, li abbiamo visti piangere di rabbia. Ragazzi, il futuro è vostro se imparate subito a rifiutare la violenza, a non tollerarla mai, a isolare chi la predica e la mette in atto, a denunciarla il giorno prima e non quando ormai il corteo è partito. Il futuro esiste se ve lo costruite con speranza e tenacia e se non ve lo fate scippare da chi non crede in nulla.

di Mario Calabresi; LA STAMPA

venerdì 14 ottobre 2011

Fiducia

316 a 301, tiè! Avanti con le riforme.
Io ci credo.

Buona notte

Non ho contato gli sbadigli di Bossi perché stavo sbadigliando anch’io. Però mi hanno sinceramente sorpreso. Mai avrei immaginato che uno come lui si mettesse la mano davanti alla bocca.

Per fortuna le telecamere hanno tenuto la contabilità al posto mio, immortalando fin nei dettagli la performance dello stregone leghista seduto di sguincio accanto all’Anziano Leader durante il trascinante Discorso della Fiducia: dodici sbadigli in dodici minuti, alcuni davvero molto belli. Smorfie che diventavano conati, fra uno spalancamento di fauci e uno strabuzzare d’occhi. Imperdibile il passaggio in cui Berlusconi cita il federalismo e tenta di fare «pat pat» sulla testa di Bossi, neanche fosse un peluche. Invece la manca clamorosamente e allora procede a tentoni, cercando almeno di cingergli le spalle, mentre l’altro inghiotte il dodicesimo sbadiglio e si sforza di assumere un contegno adeguato alle circostanze. Ma la noia, non potendo più uscirgli dalla bocca, sale negli occhi e gli provoca l’abbassamento delle palpebre.

Gli sbadigli di Bossi potrebbero diventare per Berlusconi quel che per Craxi fu il trauma della canotta. I lettori diversamente giovani ricorderanno ancora l’episodio: era l’estate del 1991 e il segretario socialista stava parlando dalla tribuna del congresso del suo partito, quando sotto la camicia bianca intrisa di sudore apparve in controluce una canottiera senza maniche. Nell’immaginario del potere, l’affioramento della canotta certificò l’esaurimento del suo carisma. A completare l’opera ci pensò l’anno dopo Mani Pulite, ma tutto era cominciato quel giorno.

Gli sbadigli raccontano la fine di un’altra stagione. Be. e Bo., i rivoluzionari che avrebbero dovuto spazzare via la Casta, sono i nuovi professionisti della politica, aggrappati disperatamente alle poltrone da cui sbadigliano o parlano, come il premier, per non dire assolutamente nulla. Nulla di quel che ti aspetteresti dal capo di un governo che è appena andato sotto sulla legge di bilancio, al culmine della crisi economica più drammatica dei tempi moderni. Nessuna visione, nessun progetto, nessun traguardo diverso dal tirare a campare e dall’esorcizzare la propria decadenza agitando il consueto feticcio: la mancanza di alternative migliori di lui, mentre col passare dei giorni lo stanno diventando un po’ tutte, da Gianni Letta agli Inti Illimani.

Di Pietro ha paragonato il Berlusconi di ieri a Wanna Marchi, ma è stato ingeneroso. Verso la Wanna, che almeno vendeva sogni, mentre l’Anziano Leader da qualche tempo commercia soltanto in paure.

Be. & Bo. ricordano certi pensionati seduti al bar davanti a un grappino. Uno borbotta, l’altro sbadiglia. Ed entrambi hanno un solo pensiero fisso: come resistere ancora un po’ per poter lasciare qualcosa ai figli, prima che i Casini e i Maroni si prendano tutto. Il resto è noia.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

giovedì 13 ottobre 2011

A nostra insaputa

La buona fede di Claudio Scajola. Ecco un tema filosofico-antropologico interessante. Dice ai giornalisti che Marco Biagi è un rompicoglioni e i giornalisti lo scrivono a sua insaputa. Acquista una casa alla metà della metà del prezzo di mercato e qualcuno gli paga la differenza a sua insaputa. Poi minaccia la congiura, va a parlare con Berlusconi, trova un’intesa ma non vota il Def e quasi fa cadere il governo a sua insaputa. La buona fede di Claudio Scajola: dopo tre indizi, il suo problema è che gli crediamo.
di Mattia Feltri; LA STAMPA

mercoledì 12 ottobre 2011

Primo impiego

Daniela Santanché è una signora molto permalosa. Se ritiene di avere subito un torto o di essere stata dileggiata, si lega l’offesa al dito e non perdona chi gliel’ha rivolta. Anche l’autore di questa rubrica continua a vivere un periodo di squalifica per aver denunciato che, nell’ambito della fuga dei cervelli, un bel giorno era fuggito pure quello della Santanché. Era una facezia, va da sé. Ce ne scusiamo con Daniela e con il suo cervello che tra l’altro non è mai fuggito: è ancora in Italia e aspetta il primo impiego.
di Mattia Feltri; LA STAMPA

martedì 11 ottobre 2011

Incidente di percorso

Governo battuto alla Camera sul rendiconto generale dello Stato per l'esercizio finanziario 2010.
Forza Gnocca non tira ancora. Perciò chiediamo le dimissioni dei culattoni.

Il metodista

Poco, anzi quasi niente, s'è saputo della visita di Berlusconi da Putin, per il compleanno del premier russo nell'isolata tenuta di Valdai, a metà strada fra Mosca e San Pietroburgo. E tuttavia, pare che i lamenti berlusconiani per come egli viene trattato dai giudici e dai giornalisti siano stati - fra uno spettacolino e l'altro - uno degli ingredienti principali della festa. L'amico Vladimir, intenerito dalle sofferenze del Cavaliere, deve avergli dato qualche consiglio per superare questi tormenti.

Infatti, appena Berlusconi è tornato in Italia, il governo nostrano - forse ispirato da Vlad - ha deciso di inviare gli ispettori nelle procure di Napoli e di Bari che stanno dando fastidio al premier. Ma c'anche un altro metodo, molto putiniano, che potrebbe essere importato quaggiù. Funziona così. Lo zar russo ha ingaggiato lo scorso anno una bella e giovane fanciulla, che ha sedotto numerosi esponenti dell'opposizione e alcuni giornalisti anti-governativi portandoli in un appartamento, dove venivano filmati da telecamere nascoste. I video a luci rosse sono stati poi messi on line.

Il metodo forza gnocca, così può essere ribattezzata oggi questa strategia, che è decisamente più tenera del metodo Boffo già più volte sperimentato da queste parti. In più, se viene importata l'idea putiniana, ossia quella degli incontri hot ad uso dei nemici di destra, di centro e di sinistra del Cav., la si può anche ulteriormente addolcire tramite una bella colonna sonora. Gli altoparlanti dell'alcova potrebbero diffondere la voce di Alessandra Mussolini che canta l'inno di Forza Gnocca, ma soprattutto potrebbero emanare il suono dell'ultima canzone della Banda Osiris, che sta furoreggiando sul web ed è il rifacimento del motivetto di Forza Italia. Fa così: "E forza gnocca, pericolo pubico. / E forza gnocca, variante di valico. /E forza gnocca, la fronda non mi avrà, / io resto ad Arcore col bunga bunga che Formigoni non ha". Ma magari, se lui e tutti gli altri continuano a fare i seccatori, gli si può procurare.

di Mario Ajello; Il Messaggero

Grasso che cola

Dopo il governo danese, anche quello britannico di Cameron sta seriamente pensando di mettere una tassa sul burro e sui cibi unti, con l’obiettivo moraleggiante di convertire eserciti di obesi al pinzimonio e la speranza cinica di utilizzare la gola dei grassoni per rimpinguare le casse emaciate dello Stato. Mi rendo conto che nei periodi di vacche magre tutto fa brodo, soprattutto i grassi. Inoltre dicono che si tratterebbe di una forma di autofinanziamento: i soldi dell’imposta serviranno a pagare le cure mediche degli obesi, che pesano sulle tasche dell’intera comunità. In Danimarca, forse. In Inghilterra già ne dubito. Mentre nei Paesi dell’Europa mediterranea (ve ne viene in mente qualcuno?) ho la ragionevole certezza che, prima di raggiungere gli ospedali, i denari ricavati dalla ciccia si perderebbero fra i muscoli flaccidi del corpaccione burocratico, andando a rimpinguare la pancia mai sazia dei corrotti. Perché allora non finanziare con le tasse sui vizi una riduzione delle imposte sulle virtù? Se lo Stato vuole spingerci a comportamenti salutisti, otterrebbe molto meglio il suo scopo aiutandoci a pagare di meno le cose che fanno bene. Le quali, dalle energie pulite ai cibi biologici, sono invece le più care di tutte.

Inchiostro sprecato, lo so. Se la parificazione del burro agli alcolici è un formidabile segno dei tempi, rimane vecchissima la soluzione proposta: risolvere ogni problema mettendoci sopra un balzello. Un difetto da cui la politica obesa non vuole guarire. Tanto la tassa sui suoi vizi la paghiamo noi.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

sabato 8 ottobre 2011

Qualcuno...

Per il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che ha aperto il tour nazionale di Fli a Palermo, la legge sulle intercettazioni ''non e' la migliore legge per l'interesse nazionale ma forse per l'interesse personale di qualcuno''. (ANSA).

Già, ma chi?

Il circo della patonza

La sera andavamo a Palacio Berlusconi, così si chiama, in onore del Cavaliere, il bordello che ha aperto in Argentina, nella città di Rosario. Il nome è bello e fantasioso, e molto appropriato, ma gli arredamenti lasciano a desiderare dal punto di vista della fantasia.

Le solite tappezzerie rosse, le luci soffuse, i divanetti promiscui, gli angoli bui, la lussuria che trasuda dalle pareti. Suggerimenti per rendere Palacio Berlusconi più erogeno.

Gli amplificatori diffondano la voce di Ale Mussolini che canta - lo ha fatto anche ieri a radio Rai - «e Forza Gnocca, noi siamo tantissime....» (sul ritmo della vecchia «e Forza Italia....»).

Dal soffitto, devono pendere tante striscioline di carta, sulle quali sono riprodotte le frasi cult delle intercettazioni telefoniche pubblicate in queste settimane. Del tipo: «Avevo la fila fiori dalla porta, ce n’erano undici ma sono stato solo con otto». Oppure (Tarantini a Berlusconi): «ma lei, alle donne, che cosa gli fa? Impazziscono tutte per lei, e non lo dico per piaggeria». O ancora, ovvio: «La patonza deve girare».

Sui muri, i seguenti cartelli: «Forza Gnocca tira più di un carro di buoi» e «la democrazia è fica». A servire i cocktail, l’avvocato Ghedini. A cantare sul palco - ci si perdoni l’accostamento incongruo - l’ottimo Ivano Fossati. Perchè la sua nuova canzone è il riassunto di Palacio Berlusconi e di tutto il resto: «La decadenza».

di Mario Ajello; Il Messaggero

giovedì 6 ottobre 2011

Goodbye

Ecco, stavo scrivendo titoli di coda con l'iPad. E stavo parlando dell'ultimo show della Apple, dell'iPhone che dialoga con il suo proprietario. Poi è uscita una notifica, sull'iPad, era il servizio di notizie della Cnn che diceva, in inglese: è morto Steve Jobs. Me l'ha detto il "suo" iPad.

Non è una sorpresa, per poche persone le condizioni di salute sono state una notizia pubblica, costantemente monitorata, come per il mago della mela.

Sarà retorico, lo diranno tutti, ma andate su Youtube e cercate il discorso di Steve Jobs ai neolaureati di Stanford, magari nella versione con i sotto titoli in italiano. Ogni parola guadagnerà un significato ancora più profondo oggi.

di Mauro Evangelisti; Il Messaggero

Stabile consapevolezza

In quarantacinque anni di Prima Repubblica i governi avevano un’aspettativa di vita di undici mesi. Poi è arrivata la Seconda Repubblica. Dei leader abbiamo giudizi anche severi, ma la Seconda Repubblica ha introdotto il bipolarismo, maggioranze più solide, opposizioni più ferree, un certo interventismo della magistratura, un nuovo ruolo per gli imprenditori, le categorie, i giornali e, al di là dei problemi economici, dobbiamo ammettere che oggi abbiamo una stabilità che prima non c’era: siamo stabilmente nella m.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Extrema ratio

C’è ancora qualcosa che ha il potere di stupirci? Sfogliamo il notiziario di giornata. La Regione Lazio della sora Polverini, in preda a un attacco di cultura, organizza per gli alunni delle elementari romane la proiezione di una puntata de «I Cesaroni». Olè. Il Partito Democratico riesce a dividersi persino sulla nomina del presidente dell’Anci, l’associazione dei sindaci. Hanno fatto le primarie, non è una battuta, e lo sconfitto ha chiesto il riconteggio: neanche questa è una battuta. Olè. La figlia del presidente del Consiglio manda un esposto al ministro di Giustizia nominato dal presidente del Consiglio per lamentarsi di una sentenza che riguarda un’azienda del presidente del Consiglio. Olè. La Virtus Bologna allunga oltre due milioni di dollari a un giocatore di basket della NBA per giocare una partita sola. Doppio olè (uno a milione). La crisi toglie il sonno agli italiani, invece la Camera si occupa forsennatamente di imbavagliare le intercettazioni, una pratica che interessa soltanto chi sta al telefono coi pregiudicati, mentre i provvedimenti dimagri-casta agitati come turiboli d’incenso per tutta l’estate si devono essere persi in qualche sottoscala. Olè. Le agenzie di rating ci declassano, ma il ministro dell’Economia con delega alla saccenza se ne infischia e pure le Borse, mai andate così bene. Olè.

Mi domando cosa possa ancora scuoterci da tanto torpore. Forse il manipolo di democristiani che, a sentire i sussurri di Palazzo, fra qualche settimana farà cadere il governo: quello sì sarebbe stupefacente.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Stay hungry, stay foolish!

Sud-Est

E’ crollato un muro, ma è come se si fosse spalancato un sipario. Le donne morte nel sottoscala di una palazzina di Barletta confezionavano tute e magliette per meno di quattro euro all’ora. Tina, Matilda, Giovanna, Antonella: il Sud-Est asiatico nel Sud-Est italiano.

Avevano trent’anni, un marito disoccupato e il mutuo della casa da pagare: la condizione disperata di chi non può più contrattare neppure la propria dignità. La tragedia ha scoperchiato un destino analogo a quello di mille altri sottoscala, dove si lavora stipati come conigli in tane fetide, senza uscite di sicurezza e senza luce.

Funziona così: l’azienda fallisce, chiude, licenzia e poi riapre in un seminterrato, che a volte è addirittura un garage, offrendo lavoro nero e sottopagato a un manipolo di donne - giovani madri, per lo più - disposte a tutto pur di aiutare la famiglia a sopravvivere. Sono le schiave dei tempi moderni. Condannate a ripetere lo stesso gesto per dieci, dodici, quattordici ore al giorno. Troppo stanche, angosciate e ricattabili per poter protestare o anche solo prendere coscienza dei propri diritti. «Se non ora quando?» è una domanda che sfiorisce prima di giungere ai loro orecchi. Non può esistere idea di riscossa per chi ha come orizzonte esistenziale la prossima bolletta.

Nessuno vuole infierire sui datori di lavoro che nell’incidente di Barletta hanno perso la figlia quattordicenne, scesa nel seminterrato in cerca dei genitori un attimo prima del crollo. Ma chi fa lavorare dodici donne in un buco fatiscente di quindici metri quadrati non è un imprenditore. E’ un disgraziato. Nessun ragionamento economico giustifica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Un principio che vale ovunque, ma a maggior ragione in questa parte di mondo, dove certi racconti speravamo di averli confinati per sempre nei romanzi di Charles Dickens. Stiamo assistendo alla deriva caricaturale della globalizzazione. Stiamo importando condizioni di lavoro cinesi (e proprio mentre i cinesi cominciano gradualmente ad abbandonarle) perché pretendiamo di fare concorrenza alle tigri asiatiche sul terreno del famigerato «low cost». Ma una tuta italiana non dev’essere più economica di una tuta cinese.

Dev’essere più bella. Altrimenti che italiana è? Da questa crisi non si esce riducendo i lavoratori più deboli al rango di bestie, ma elevando la qualità del prodotto, cioè dei dipendenti, con corsi professionali che li riqualifichino. Urge tornare tutti a scuola di italianità - operai, artigiani e imprenditori - imparando di nuovo a produrre oggetti eleganti e geniali, non tristi fotocopie di altre fotocopie. Continuo a sognare un’Italia del Sud che riesca a trarre benessere dalle sue miniere inesplorate di natura e cultura. A far soldi con gli agriturismi non con le magliette, con i musei non con le magliette, con i tramonti non con le magliette. Il mondo ci percepisce come il deposito della bellezza e della qualità della vita. Invece noi continuiamo a rinnegare noi stessi, in nome di una visione piccola e frustrata, da eterni Malavoglia incapaci di alzare gli occhi dal seminterrato quotidiano in cui ci siamo autoreclusi, per risvegliare finalmente la meraviglia addormentata che ci circonda da sempre.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA

sabato 1 ottobre 2011

Diversamente terroni

È sconsolante che, con tutti i guai che abbiamo, si debba ancora star qui a spiegare perché il 25 aprile è festa nazionale, oppure che la Padania non esiste, come ha dovuto ricordare anche ieri Napolitano. C’è uno Stato che cade a pezzi, decisioni urgenti e impopolari da prendere, il bisogno disperato di qualcuno che unisca l’Italia indicandole una direzione comune. Invece siamo sempre fermi sulla stessa mattonella, a dividerci sulla cacciata dei nazisti e su chi ha più ladri e mangioni nelle proprie file, ma soprattutto a discettare su un popolo immaginario, il padano, non riconosciuto come tale neppure dalla maggioranza di coloro che dovrebbero farne parte.

Quanta gente dovrà ancora perdere il lavoro, la speranza e la pazienza prima che la politica smetta di occuparsi di ministeri a Monza, giri della Padania e altre pagliacciate persino divertenti in epoca di benessere, ma che in questo clima di povertà incombente scaturiscono lo stesso effetto di una barzelletta sporca raccontata in un ospedale? Se una minoranza di cittadini del Nord è convinta di poter imporre la secessione con un colpo di mano rivoluzionario, smetta di berciare slogan e dia l’assalto ai nostri palazzi d’inverno. Ci troverà lì dentro a difenderli. Se invece il piano del geniale stratega del dito medio è di scommettere sull’apocalisse economica affinché dalle macerie dell’Europa nasca una supernazione tedesca che trasformi l’Italia settentrionale nel suo Mezzogiorno, temo abbia fatto male i suoi calcoli. I tedeschi sono gente seria. Di persone come lui non sanno proprio che farsene.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA