Ieri in 951 città di 82 Paesi del mondo sono scesi in piazza cittadini di ogni
età, ma soprattutto giovani, per protestare contro un sistema economico che si
preoccupa di salvare le banche prima dei cittadini. Sono i cosiddetti
«Indignati», che hanno preso il nome dai manifestanti spagnoli che in primavera
hanno occupato la Puerta del Sol a Madrid per denunciare la disoccupazione
crescente, la precarietà dilagante e i privilegi della casta economica e di
quella finanziaria.
La protesta ha fatto proseliti e in queste settimane
i riflettori si sono concentrati a New York sugli «occupanti» di Zuccotti Park,
una piazza poco lontana da Wall Street, dove è stato costruito un piccolo
accampamento che intende contrapporre l’uomo della strada, che soffre la crisi,
ai broker della Borsa che sono tornati a prendere bonus milionari. La
mobilitazione americana non è mai sfuggita di mano e, di fronte alle accuse del
sindaco di sporcare e deturpare, gli occupanti si sono messi al lavoro per
lavare e pulire.
Poi ieri c’è stata la prova mondiale di un movimento che
sta raccogliendo la comprensione di giornali, televisioni, comuni cittadini,
politici e perfino di banchieri.
In 950 città le manifestazioni sono state
assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è
scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo
mostrato al mondo un’anomalia italiana.
Anche oggi ci tocca
vergognarci.
Mentre a New York i ragazzi indossavano distintivi pacifisti
ed erano armati solo di scope e spazzoloni per pulire, da noi indossavano caschi
e erano armati di bombe carta.
La colonna sonora a Manhattan è quella del
tamburino che suona i bonghi (e il dibattito tra le tende è se debba fermarsi
dopo pranzo per non disturbare chi riposa nelle case vicine) o dei buddisti che
pregano ripetendo «Om». L’odore è quello degli incensi di attempati figli dei
fiori.
La nostra colonna sonora invece, come troppe volte nella storia
italiana, è quella delle sirene dei blindati di polizia e carabinieri, dei
rotori degli elicotteri che sorvolano gli scontri e delle esplosioni, mentre
l’odore è quello acre dei lacrimogeni o del fumo delle auto
incendiate.
Perché è accaduto a Roma, perché è accaduto solo da noi, perché
alcune migliaia di ragazzi che volevano solo la guerriglia sono riusciti a
prendere in ostaggio una città, un movimento nascente e a distruggere ogni
possibilità di mobilitazione pacifica e fruttuosa?
Perché l’Italia si ritrova
ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre
condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i
lacrimogeni?
Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte
dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli
scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra
parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è
riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al
posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs, che faceva uso di
droghe ma le sue visioni erano futuristiche e non apocalittiche.
Da noi
accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo
la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche
violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a
giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro. Per guarire dovremmo
eliminarli dal vocabolario. Smettere di relativizzare la violenza perché, a
seconda dei tempi, a giustificarla c’è il regime democristiano, quello
berlusconiano, l’alta velocità o qualche riforma indigesta.
Milioni di
italiani sono indignati dalla nostra classe politica, dalla lontananza che chi
ci governa mostra verso i problemi reali dei cittadini, e dalla mancanza di
investimenti sul futuro dei giovani. Ma non per questo pensano di scendere per
strada a bruciare l’auto del vicino e non per questo sono meno indignati,
arrabbiati o sfiniti. Di certo considerano quei manifestanti dei vandali e dei
criminali, che non conoscono il valore del rispetto e non hanno mai faticato per
guadagnarsi da vivere.
Ora la rabbia è grande, ma state sicuri che tra
tre giorni quando le forze dell’ordine avranno identificato alcuni di questi
ragazzi e un magistrato li indagherà, allora si alzeranno voci pronte a
difenderli, a giustificarli e a mettere sul banco degli imputati giudici e
poliziotti colpevoli di non capire e di essere troppo severi. Ma la democrazia
si preserva difendendo la convivenza e il diritto delle migliaia che volevano
manifestare pacificamente, non schiacciando l’occhio agli
estremisti.
Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo:
perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo
continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li
intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza,
allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento. Ai giovani
allora restano solo due possibilità: un atteggiamento di rassegnazione e di
apatia che trova riscatto momentaneo solo nello sballo degli Happy Hour (le ore
del lungo aperitivo che dal tramonto si trascina fino a notte fonda) o un
atteggiamento di rottura. Perché se si dice che nulla si può costruire, allora
non resta che la pulsione a sfasciare e distruggere.
Una sola speranza ci
resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie
di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e
sperano. Ce ne sono ben più di quanto si possa immaginare e molti erano in
piazza ieri: li abbiamo visti battere le mani a polizia e carabinieri, li
abbiamo visti provare a cacciare dal corteo gli incappucciati, li abbiamo visti
piangere di rabbia. Ragazzi, il futuro è vostro se imparate subito a rifiutare
la violenza, a non tollerarla mai, a isolare chi la predica e la mette in atto,
a denunciarla il giorno prima e non quando ormai il corteo è partito. Il futuro
esiste se ve lo costruite con speranza e tenacia e se non ve lo fate scippare da
chi non crede in nulla.
di Mario Calabresi; LA STAMPA